Diario di guerra /4

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Domenica scorsa, mentre ero ancora impegnato a scrivere un’altra pagina del diario della guerra, è avvenuto il vero atto diplomatico per superare il conflitto: quello compiuto da papa Francesco che ha voluto parlare al telefono col presidente iraniano Raisi. Un atto di evidente coraggio, vista la disgustosa storia personale di Raisi. Un coraggio non nuovo per lui, che ha saputo parlare con altri simili.

Peccato che il gesto di Francesco non sia stato ponderato in tutta la sua rilevanza internazionale. Non è possibile, infatti, cercare di porre fine a un conflitto – magari con un accordo di pace – se non si parla con chi sta dall’altra parte.

E poiché i palestinesi sono gli intermediari del conflitto tra Iran e Israele, la scelta del papa è cruciale. Provo a collocarla nello sviluppo storico arabo-iraniano e a immaginarne gli sviluppi.

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La prima fase del lungo conflitto arabo-israeliano, per gli arabi, è stata segnata dallo slogan nasseriano: «nessuna voce si levi sopra la voce della battaglia». L’assolutezza di quel conflitto con Israele ha messo a tacere le società: prima e sopra di tutto c’era la battaglia.

Dopo il conflitto del ‘73 il successore di Gamal Abdel Nasser, Anwar Sadat, pose termine a questa fase, firmando la pace di Camp David, che andrebbe oggi attentamente riletta. I fondamentalisti lo uccisero nell’81 e una grande strada di Teheran fu intestata all’assassino, Khaled Istanbuli. Il fronte armato contro la pace con Israele passò da Tehran che, in un certo senso, fece suo lo slogan del suo più acerrimo nemico, Nasser.

Gli sviluppi bellici degli anni Novanta portarono alla disfatta del fronte del rifiuto arabo, quello che non stava con l’Iran, ma rifiutava la pace e non combatteva la guerra, usando la questione palestinese solo per giustificare le leggi speciali che consentivano ogni tipo di repressione interna. Questo fronte, guidato dai generali siriani e iracheni, andò in frantumi quando arrivarono gli accordi di pace firmati da israeliani e palestinesi. Furono i kamikaze organizzati e finanziati dall’Iran a far deragliare quegli accordi, con lo stragismo dei civili. Da allora la questione palestinese è scomparsa dall’agenda che conta, sostituita dalla guerra aperta tra iraniani e arabi.

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Se la guerra di Bush padre nel 1990 aveva nei fatti creato le condizioni per avviare il processo di pace israelo-palestinese, la  guerra di Bush figlio, dopo l’11 settembre 2001, creò le condizioni della affermazione iraniana, prima con la conquista dell’Iraq da parte delle milizie khomeiniste e poi della Siria, grazie alla sconfitta del movimento della Primavera araba, ignorata da tutti.

Il cerchio iraniano ha così circondato i petromonarchi, presi di mira anche da sud, dallo Yemen. Al disastro arabo, gli emiri del Golfo hanno cercato di rimediare con i Patti di Abramo, pensati – comprensibilmente – in chiave anti-iraniana.

Ma, quando la pace avversa all’Iran stava sul punto di chiudersi col trattato tra Israele e Arabia Saudita, Teheran ha affidato il siluramento dell’intesa ad Hamas, l’esecutore dell’aggressione – pianificata insieme – del 7 ottobre. Posto che non sappiamo, con precisione, che cosa i Patti avrebbero previsto per i palestinesi, l’impressione è che, ancora una volta, gli arabi avrebbero chiuso con Israele senza neppure considerarli, così facilitando la linea del nemico iraniano.

Ecco il risultato: la “firma” iraniana nell’operazione del 7 ottobre sta nell’uso del captagon da parte dei terroristi. La droga sintetica – che ha consentito di agire con tanta disumanità – è il prodotto dell’uomo di Tehran che è rimasto in Siria, Bashar al-Assad: è lui a commercializzarla nel mondo, inclusa Gaza, evidentemente, tramite Hezbollah.

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Si può dunque dire che la guerra cominciata il 7 ottobre è una guerra dell’Iran contro Israele e contro gli arabi pronti alla pace con Israele contro l’Iran.

Se questo è il quadro, c’è un solo modo per uscire dall’errore di consegnare ai terroristi di Hamas lo status di belligeranti e non quello di criminali, quali sono: sono criminali – sì – ma usati da Tehran. Ora, se si vuole la pace, va fatta col mandante, cioè col regime iraniano. Ma il negoziato con gli iraniani – a differenza di quanto maldestramente tentò Obama – non può essere circoscritto al nucleare, bensì esteso alla terra.

Che ruolo pretende di avere l’Iran nella regione? Ritiene di poter ricostruire con la forza l’impero persiano di cui si sente l’erede? Ritiene di potersi vendicare di Alessandro Magno che fissò i confini della Persia, alias Iran, al limite orientale dell’antica Mesopotamia e non più sul Mediterraneo?

Se Tehran immagina di poter imporre un balzo indietro nel tempo di circa tremila anni, lo dica. Tehran deve dire come immagina il mondo se vuole, giustamente, un posto nel mondo, come la telefonata di Raisi al papa sembra confermare. Nessuno può credere che Raisi intendesse davvero complimentarsi per la richiesta di cessate il fuoco, bensì far capire che il cessate il fuoco passa da Tehran.

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La risposta araba, popolare, l’ha data dal 2011 la Primavera: «il popolo vuole la caduta del regime». Questo slogan fissa la linea di tunisini, egiziani, yemeniti, libanesi, siriani, iracheni, tutti i cittadini di Paesi alleati del mondo, ma che il mondo non ha voluto ascoltare. Questa risposta respinge la teocrazia iraniana, affermando chiaramente che il popolo è sovrano: conseguentemente esso non vuole regimi teocratici, ma Parlamenti nazionali, espressione dei “cittadini” – di ogni fede.

Dunque, il negoziato di pace che serve è tra le opinioni pubbliche arabe, che credono e affermano questa visione, e un regime che definendosi “esportatore della rivoluzione” teocratica di Khomeini propone l’esatto contrario. Il primo negoziato dovrebbe essere questo: quello arabo-iraniano.

Non si tratterebbe – è evidente – di un negoziato facile. Soprattutto l’opinione pubblica araba non sarebbe rappresentata da nessuno, non potendosi ritenere alcun regime arabo – cleptocratico e tirannico – espressione di questa volontà.

Sta qui la debolezza ma anche l’audacia e il sogno visionario di Francesco, che potrebbe avvalersi degli arabi cristiani. Potrebbero essere loro, magari compattandosi nell’elezione di un presidente libanese atteso ormai da un anno, il primo tassello di un fronte arabo capace di negoziare davvero. Il presidente del Libano deve essere un cristiano, si sa. Ma i cristiani libanesi esistono ancora?

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Alleato della grande diplomazia vaticana questo presidente del Libano – oggi piedistallo di Hezbollah e basta – potrebbe valere addirittura più del cinismo del Qatar o della spregiudicatezza saudita. I cristiani del Libano si sono addormentati nel letargo della protezione che hanno prediletto, quella di Hezbollah o quella dei sauditi. Mentre è ora che escano dagli opposti fascismi, in cui sono sprofondati, per salvare sé stessi e, con sé stessi, il mondo arabo.

Forse è chiedergli troppo, visto il livello a cui hanno contribuito a ridurre il loro Paese. Ma se lo facessero avrebbero ancora un ruolo, vista l’importanza geopolitica del Libano per l’Iran: questo negoziato potrebbe poi portare a quello israelo-palestinese con un soggetto veramente rappresentativo del popolo palestinese, non padrini o padroni stranieri.

Non dico che la diplomazia vaticana stia pensando un percorso del genere, ma penso che questo potrebbe essere un percorso che potrebbe portare da qualche parte.

Ma si può trattare con Tehran? Forse – chi lo sa -, gli stessi iraniani ci stanno pensando: poche settimane fa, per la prima volta nella storia khomeinista, Khamenei aveva autorizzato impensabili “negoziati diretti” con Washington, “il Grande Satana”. Ma trattare davvero con Teheran richiede di partire da questa domanda: “ci riconoscete?”  È questo il punto d’arrivo a cui pensano in Vaticano?

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