
Ucraina, Palestina, Yemen, Iran, Somalia, Sudan, Afghanistan, Venezuela, Corea del Nord: il mondo è un mosaico di conflitti e di crisi in continua espansione. Ma l’interesse collettivo per queste tragedie segue il ritmo sincopato e rapidamente mutevole dettato dalle scelte editoriali dei media, che privilegiano i temi più familiari al pubblico e sono quindi in grado di catturarne meglio l’attenzione.
Con l’imperversare del «fenomeno» Trump – incapace di soffermarsi su uno specifico problema per più di pochi minuti – le crisi sembrano muoversi freneticamente sul planisfero come palline di un flipper, zigzagando senza logica e senza connessione le une con le altre. Così, al pubblico sempre più frastornato sembra che la minaccia alla pace globale provenga ogni giorno da un posto diverso: un giorno da Kiev, un altro da Gaza, quello dopo da Sana’a o da Pyongyang, e così via.
Alcuni esperti ricordano giustamente che il pericolo può covare ovunque: quando l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando scatenò il fatale effetto domino all’origine della Prima Guerra mondiale, pochi avrebbero saputo indicare Sarajevo su una carta geografica. Ma quella conflagrazione non fu causata dalla rissa da ballatoio tra un impero diventato ormai il fantasma di sé stesso e un piccolo paese balcanico dalle ambizioni spropositate; fu l’esito delle tensioni accumulatesi intorno al rapido sviluppo della Germania e alla sua volontà di sfidare la supremazia britannica sui mari.
Come avrebbe detto Aristotele, l’attentato di Sarajevo fu la causa accidentale del conflitto, ma la competizione tra Berlino e Londra ne fu la causa sostanziale.
Concentriamoci dunque un momento sulla causa sostanziale delle crisi odierne, a cui si presta sovente meno attenzione perché meno spendibile sul mercato mediatico – salvo quando cinesi o russi sfregano la lampada magica della Corea del Nord per farne uscire il «genio» Kim Jong-un.
L’area è quella del Pacifico occidentale, compresa, nella sua accezione più ampia, tra le isole Hawaii e la costa cinese. È lì che si trova il fulcro delle dinamiche internazionali dei nostri giorni, perché è lì che si ergono di fronte l’un l’altra le incompatibili esigenze delle due potenze più grandi: la necessità di Pechino di acquisire una maggiore libertà di movimento e un maggior controllo delle rotte marittime, dal Pacifico all’Africa, e la necessità per gli americani di continuare a presidiare un’area per la quale hanno già combattuto quattro guerre – contro la Spagna nel 1898, contro il Giappone nel 1941-1945, e poi in Corea e in Vietnam.
Le parole che pesano
In questa regione del mondo, alcune dichiarazioni pesano talvolta molto più dei colpi di teatro di cui va ghiotto il circo mediatico. A seconda del contesto, possono persino avere un impatto maggiore di un conflitto armato altrove, perché producono effetti più profondi e duraturi, anche se, nell’immediato, non è sempre facile accorgersene.
È il caso delle parole pronunciate il 7 novembre in parlamento dal nuovo primo ministro giapponese, la signora Sanae Takaichi: un eventuale attacco cinese a Taiwan, ha detto, sarebbe considerato «una situazione che minaccia la sopravvivenza del Giappone» e potrebbe scatenare una risposta militare da parte di Tokyo.
La reazione cinese, com’era prevedibile, non si è fatta attendere: in prima battuta, il console generale a Osaka, Xue Jian, ha postato su X un pesante invito a «tagliare il lurido collo di chi si impiccia» di affari che non lo riguardano.
Poi, di fronte all’indignazione di Tokyo per quel commento «estremamente inappropriato», Pechino si è espressa con tutti i crismi dell’ufficialità attraverso un portavoce del ministero degli Esteri, che ha accusato Takaichi di «interferire grossolanamente negli affari interni della Cina».
Il contesto dell’America First
Tutto sta nel contesto, si diceva.
Un attentato all’erede al trono austriaco può risolversi in una rissa da ballatoio, oppure scatenare un conflitto mondiale: dipende dal contesto. In questo caso, il contesto è l’America First, cioè la ritirata di Washington, l’abdicazione definitiva al suo ruolo di garante delle relazioni internazionali e delle regole che ne disciplinano il funzionamento.
Fino ad oggi, il Giappone aveva evitato di esprimersi sulla questione di Taiwan, non perché non ne fosse preoccupato, ma perché vigeva una tacita divisione dei ruoli: la sicurezza della regione (e quindi la prosperità del Giappone) era garantita dagli Stati Uniti, che avevano i mezzi per dissuadere la Cina dal tentare azzardi troppo avventati e, al tempo stesso, evitare che a Tokyo rialzasse la testa quella famosa fazione «militarista» con cui si erano fatti i conti tra il 1941 e il 1945.
Oggi, gli Stati Uniti mostrano di non avere più la volontà – e forse neanche i mezzi – di continuare a svolgere il ruolo di garante della sicurezza altrui, costringendo i garantiti di un tempo a rivedere da cima a fondo i loro presupposti strategici.
Il caso del Pacifico occidentale è quello che maggiormente si avvicina al caso europeo: anche se non vi è nulla di paragonabile alla NATO, tutta una serie di paesi di quell’area temono di perdere, più presto che tardi, la protezione degli Stati Uniti, garantita dalla presenza di basi e truppe americane sul loro suolo.
Nella regione Pacifico (escluso quindi l’oceano Indiano), Washington avrebbe 400 basi militari, 300.000 soldati, e il 60% della loro flotta, secondo un sito pacifista. Sul numero delle basi, le cifre sono sempre ballerine perché ognuno ne ha un’idea diversa ; secondo cifre ufficiali del Pentagono, le basi permanenti in paesi terzi (escluse quelle che si trovano su territorio americano, come Guam e le Hawaii) sarebbero 41, di cui 14 in Giappone, 9 nelle Filippine e 8 in Corea del Sud. Sul numero del personale impegnato, le cifre più o meno concordano.
Questo immane spiegamento di forze ha finora assicurato una relativa garanzia di sicurezza ai paesi interessati.
Il problema è che nessuno può sapere se gli americani continueranno a fornirla o, come è più probabile, quando se ne andranno.
Il Giappone e la Corea del Sud sono esposti in primissima linea ai rischi di un espansionismo cinese. Al tempo stesso, però, la Cina rappresenta il loro più importante partner economico, in termini non solo di relazioni commerciali, ma anche e soprattutto di integrazione regionale, attraverso il RCEP, l’area di libero scambio più vasta del mondo, che vede associati i paesi dell’ASEAN e i loro cinque maggiori partner: Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda.
E magari, un domani, anche attraverso il CPTPP, il trattato commerciale transpacifico pazientemente costruito dalle amministrazioni Obama proprio per isolare la Cina, ma poi abbandonato da Donald Trump appena entrato alla Casa Bianca nel 2017 – a cui la Cina stessa ha fatto atto di candidatura.
Il CPTPP è un caso da manuale dell’insipienza americana, che potrebbe riprodursi nelle relazioni future con il Canada, il Messico, l’insieme dell’America latina, l’Australia, i paesi del sud-est asiatico e, naturalmente, l’Europa: ritirandosi dagli accordi e dai progetti comuni con questi paesi e, anzi, attaccandoli con dazi commerciali scriteriati e altre umiliazioni di vario stampo, gli Stati Uniti spalancano le porte all’azione di rimessa della Cina.
Di questo passo, ai dirigenti di Pechino non resterà che accomodarsi sulla riva del fiume in attesa di veder passare la carcassa dell’ex superpotenza americana. Non siamo ancora a questo punto, ovviamente. Giappone, Corea del Sud, ma anche Vietnam, Australia, Canada ed Europa vedono ancora la Cina principalmente come una minaccia.
Inoltre, nella regione pesa ancora l’eredità della Seconda Guerra mondiale; un «fronte comune» con il Giappone, soprattutto ora che i «falchi» sono al potere a Tokyo, deve ancora fare i conti con quel passato che non passa.
Nondimeno, il fattore più cogente, per tutti, è proprio l’America First, che si configura sempre più nettamente come un’America Alone. Se gli Stati Uniti si ritirano, la Cina non esiterà ad avanzare le proprie pedine. Potrebbe farlo in modo brusco e aggressivo, oppure con mosse graduali e felpate, ma lo farà. I responsabili politici della regione devono quindi prepararsi per ogni evenienza.
Come reagire all’America Alone
Le strade possibili, per loro, sono almeno tre. La prima consiste nel rafforzare il proprio arsenale militare, accompagnandolo con un linguaggio corrosivo come quello adottato da Sanae Takaichi, arrivando magari anche a dotarsi di un deterrente nucleare – condizione cui Tokyo e Seul sono tecnicamente pronte.
La seconda è la strada dell’«autonomia strategica», per dirla nella lingua politica francese, cioè cercare delle intese tra tutti coloro che si trovano stretti nella morsa tra il disimpegno americano da una parte e l’espansionismo cinese dall’altra.
La terza consiste, per ogni singolo paese, nell’adattarsi a entrare in una grande sfera di influenza cinese allargata al Pacifico occidentale, in posizione certamente subordinata, ma non passiva.
Queste tre strade non sono affatto esclusive tra di loro, anzi: un riarmo massiccio darebbe a ciascun paese più potere negoziale, sia nei rapporti reciproci, sia per aderire eventualmente a una grande area a guida cinese ma da una posizione più forte. Per il momento, tutte le pedine vengono mosse simultaneamente, nell’attesa di capire se in America ci sia ancora qualcuno in grado di prendere decisioni.
A Washington, il pendolo dei rapporti con la Cina oscilla paurosamente tra due estremi: da un lato, la volontà di farla finita una volta per tutte e, dall’altra, la tentazione di raggiungere un’intesa, magari anche con Mosca, nell’illusione di spartirsi il mondo in sfere d’influenza.
Il cosiddetto «comandante in capo», poi, non avendo la più pallida idea della posta in gioco, salta da un estremo all’altro a seconda dell’umore del momento, e quindi moltiplica per un fattore n l’incertezza e il disordine internazionale.
In ogni caso, che si arrivi a una guerra, a un accordo, a un compromesso o, più probabilmente, a niente di tutto ciò, la questione di Taiwan resterà centrale, perché è la chiave del controllo sul Pacifico occidentale.
Ed è ben per questo che la premier giapponese Sanae Takaichi ha messo il dito proprio su quel nervo scoperto.
- Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 15 novembre 2025







La causa sostanziale che viene presentata forse spiega bene le tensioni in Asia, ma non vedo come possa spiegare conflitti come il Sudan, la Palestina, il Venezuela o la Colombia.
Mi sembra che sia necessaria un’analisi più concettuale e moralmente accettabile dalla maggioranza delle persone, indipendentemente dal loro personale credo.
L’onnipresente concausa sostanziale è la vendita di armi. L’obiezione classica è, da un lato, il dogma dell’efficienza della libertà di mercato. Dall’altro che le armi devono essere prodotte anche per difesa o per le forze di polizia. Ma siamo in una società altamente informatizzata, e sapere dove finiscono le armi prodotte è sicuramente possibile, probabilmente già noto. Nessuno nega la libertà di produrre armi, altrimenti si viene etichettati come comunisti. Ma ogni guerra causa enormi costi al mondo, e il mondo ha anche lui un fatturato da rispettare, visto che il mercato regola tutto. E se mi causi un costo, allora io ho il diritto di farti pagare una tassa mondiale, che deve essere usata per ripianare questi enormi costi. La tassa la devono pagare i produttori di armi, non gli stati: ogni stato che vede passare sul suo suolo le armi prodotte da te ti applica una tassa, perché la tua guerra mi causa dei costi. Più è alta la tassa e meno ti conviene produrre armi.
“Ma ci sono anche guerre giuste” diranno alcuni. A parte il fatto che è seriamente dubitabile, voi credete che in un referendum mondiale la gente voterebbe come giuste le guerre in Sudan, Palestina, Yemen, Ucraina…. e le rimanenti 166 circa?
riguardo alle “strade possibili” e il riarmo: “La guerra, che orienta le risorse all’acquisto di armi e allo sforzo militare, distogliendole dalle funzioni vitali di una società, quali il sostegno alle famiglie, alla sanità e all’istruzione, è contraria alla ragione. In altre parole, essa è una follia, perché è folle distruggere case, ponti, fabbriche, ospedali, uccidere persone e annientare risorse anziché costruire relazioni umane ed economiche. È una pazzia alla quale non ci possiamo rassegnare: mai la guerra potrà essere scambiata per normalità o accettata come via ineluttabile per regolare divergenze e interessi contrapposti. Mai”. papa Francesco, 2020