
I membri dell’unità militare CAPSAT vengono acclamati dai manifestanti al loro arrivo per rivolgersi alla folla, annunciando l’intenzione di sfidare il governo e sciogliere il Senato e la commissione elettorale (CENI) ad Antananarivo, Madagascar, martedì 14 ottobre 2025. (AP Photo/Brian Inganga)
Sabato 11 ottobre 2025, ad Antananarivo, capitale del Madagascar, un gesto raro e carico di significato sconvolge la crisi sociale e politica che sta scuotendo il Paese. Diversi soldati del CAPSAT (Corpo autonomo di protezione e sicurezza delle forze armate e del territorio) si sono rifiutati di eseguire l’ordine di sparare sui manifestanti. La loro decisione ha provocato scene di giubilo nella capitale, dove migliaia di persone hanno salutato questi militari gridando «Grazie!».
Infatti, dalla fine di settembre, le strade di Antananarivo sono teatro di manifestazioni quotidiane contro le interruzioni dell’acqua e dell’elettricità, l’aumento dei prezzi e il malgoverno. Quello che all’inizio era solo un movimento di malcontento sociale si è trasformato in una più ampia contestazione del regime del presidente Andry Rajoelina.
Gli abitanti denunciano condizioni di vita sempre più difficili: le interruzioni di corrente paralizzano i negozi e gli ospedali, mentre la mancanza di acqua potabile complica la vita quotidiana di migliaia di famiglie. Molti vedono in questo il segno di uno Stato incapace di rispondere ai bisogni elementari della popolazione.
Il rifiuto dei militari: una svolta simbolica
Il gesto dei soldati del CAPSAT segna una rottura importante tra l’esercito e il potere. Da diverse settimane, le forze di sicurezza erano accusate di aver fatto ricorso a una repressione violenta per disperdere la folla. Secondo le Nazioni Unite, almeno 22 persone hanno perso la vita e più di un centinaio sono rimaste ferite.
Rifiutandosi di obbedire agli ordini, questi militari hanno scelto di schierarsi dalla parte della popolazione. «Siamo figli di questo Paese, non nemici del popolo», avrebbe dichiarato un ufficiale sul posto. La loro coraggiosa presa di posizione ha immediatamente galvanizzato i manifestanti e aperto una nuova speranza in un clima segnato dalla paura e dalla sfiducia.
Appelli al dialogo e preoccupazioni
Di fronte alla situazione, il nuovo ministro delle Forze armate ha invitato le truppe alla calma, promuovendo il dialogo e la moderazione. Da parte sua, l’ONU ha esortato il governo a porre fine all’«uso eccessivo della forza» e a garantire il diritto di manifestare pacificamente.
Ma sul campo la tensione rimane alta. Migliaia di persone continuano a scendere in piazza, chiedendo giustizia, trasparenza e migliori condizioni di vita. La società civile, sostenuta dalle Chiese, chiede l’apertura di un’indagine indipendente sulle violenze e invoca una mediazione nazionale.
Un potere indebolito
Per il presidente Andry Rajoelina, questa crisi rappresenta una delle sfide più grandi del suo mandato. A lungo considerato l’uomo forte della politica malgascia, oggi vede la sua autorità scossa (il presidente è stato destituito dal suo incarico con voto della Assemblea nazionale il 14 ottobre − ndr).
Il divario tra il popolo, l’esercito e il potere si sta approfondendo e molti osservatori temono una escalation o una deriva autoritaria. Dopo che i militari del CAPSAT, rifiutando di sparare sulla folla, si sono sostanzialmente uniti alle proteste dei giovani, Rajoelina ha abbandonato il Paese, stando alle dichiarazioni del leader dell’opposizione Siteny Randrianasoloniaiko e di alcuni membri del Parlamento malgascio.
Nonostante gli appelli alla calma, la situazione rimane incerta. Molti sperano che il rifiuto dei militari di sparare segni l’inizio di una tregua e non il preludio a un nuovo ciclo di violenze.
Per le strade di Antananarivo, una parola è sulla bocca di tutti: «speranza». Quella di un popolo che vuole credere che un cambiamento sia ancora possibile.
La voce della Chiesa cattolica
In questo contesto, la voce della Chiesa cattolica si è levata nuovamente qualche giorno fa per ricordare che la ricerca di soluzioni non può avvenire nel circolo vizioso degli scontri e del rancore. L’arcivescovo di Antsiranana, monsignor Benjamin Ramaroson, ha lanciato un messaggio chiaro: «Non si può offrire un futuro migliore ai giovani nella violenza».
Secondo il prelato, le violenze che scoppiano in diverse regioni del Paese sono il segno di un profondo malessere che colpisce in primo luogo i giovani, troppo spesso dimenticati. La mancanza di opportunità economiche, l’ingiustizia sociale e la precarietà costituiscono un terreno fertile per le frustrazioni. «I nostri giovani aspirano a una vita dignitosa, a un futuro più sicuro per loro e per le loro famiglie. Ma se offriamo loro solo paura, esclusione e repressione, non avremo costruito nulla. Al contrario, avremo distrutto la loro speranza», ha sottolineato.
La necessità del dialogo
Di fronte a questa constatazione, monsignor Ramaroson insiste sulla responsabilità dei leader politici e della società civile nel suo complesso. Il futuro del Madagascar, afferma, dipenderà dalla capacità dei suoi attori di scegliere la via del dialogo piuttosto che quella dello scontro. L’arcivescovo si dice convinto che i disaccordi, anche quelli più profondi, possano essere superati attraverso il negoziato e il rispetto reciproco. «La violenza porta solo al caos, e sono sempre i più poveri a pagarne il prezzo», ricorda.
È in questo senso che la Chiesa cattolica malgascia si dice pronta a svolgere un ruolo di mediazione. Forte della sua presenza in tutte le regioni del Paese e della sua vicinanza alle comunità locali, la Chiesa vuole essere uno spazio neutrale e credibile dove la voce di ciascuno possa essere ascoltata. «Non abbiamo interessi politici o economici da difendere. Il nostro unico desiderio è vedere la pace, la giustizia e lo sviluppo radicarsi nella nostra nazione», afferma ancora mons. Ramaroson.
Investire nei giovani per costruire la pace
Per il prelato, è urgente che tutti gli attori della vita nazionale mettano da parte le dispute partigiane e lavorino insieme alla ricerca del bene comune. I giovani, che rappresentano la maggioranza della popolazione, devono beneficiare di un’attenzione particolare: accesso all’istruzione, formazione professionale, accompagnamento imprenditoriale, ma anche sostegno spirituale e morale. «Investire nei giovani significa investire nella pace».
Il messaggio dell’arcivescovo di Antsiranana risuona come un appello alla responsabilità collettiva. In una società in cui le fratture sociali sono profonde, la tentazione della violenza può sembrare una soluzione rapida, ma non fa che aggravare la miseria e l’esclusione. La Chiesa invita quindi a guardare oltre: a costruire pazientemente ponti di fiducia, a coltivare la riconciliazione e a promuovere i valori di solidarietà radicati nella cultura malgascia.
In conclusione, Monsignor Ramaroson invita ogni cittadino, ogni comunità e ogni istituzione a fare la propria parte nella costruzione di un futuro di pace. «Il Madagascar ha bisogno di tutti i suoi figli, uniti, per andare avanti. I giovani sono il nostro tesoro più prezioso. Meritano un futuro costruito sulla giustizia, la verità e la fraternità, non sulla paura e sulle armi», ha dichiarato.
Questo messaggio forte e portatore di speranza ricorda che, anche nei contesti più difficili, la voce dei pastori rimane un faro per la società. Il Madagascar, terra di grande ricchezza culturale e spirituale, continua a cercare la sua strada verso una stabilità duratura. L’appello dell’arcivescovo di Antsiranana potrebbe essere una pietra miliare in questo processo, invitando a rompere definitivamente con la logica della violenza per entrare risolutamente in quella del dialogo e della pace.





