La via di Gaza per la Cina

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AP Photo/Erik Marmor via Lapresse

In profondità si agitano elementi diversi da quelli che appaiono sulla superficie della strage disumana perpetrata da Hamas contro Israele il 7 ottobre.

Una vittoria politica di Hamas e dei suoi sponsor, forse l’ala più estremista in Iran, spaventa quasi tutti i governi musulmani del mondo. Gradualmente negli ultimi decenni, e a passo più sostenuto negli ultimi anni, dopo la guerra contro l’ISIS, molti di questi governi hanno messo da parte le forze più radicali e hanno aperto canali sempre più robusti con gli Stati Uniti e Israele.

Hamas isolata

In Medio oriente c’è voglia di pace e di sviluppare una nuova economia regionale. L’aumento della popolazione e la diminuzione relativa degli introiti dalla vendita di gas e petrolio stanno imponendo un cambio di passo. L’industria locale deve diversificarsi, i commerci pure.

C’è anche voglia di integrare l’Iran in tali dinamiche ma non c’è alcun interesse di cadere di nuovo sotto il ricatto pratico e psicologico degli estremisti della guerra santa contro l’occidente.

Naturalmente la questione palestinese rimane delicata, anche perché non c’è una prospettiva politica per i milioni che abitano entro i confini controllati da Israele. L’attacco dimostra che la questione è esplosiva, e alla fine non ben governata.

C’è timore che l’ingresso a Gaza si trasformi in un orribile bagno di sangue, cosa che infiammerebbe l’opinione pubblica araba locale. Tutto ciò è motivo di grande irritazione con il premier Benjamin Netanyahu. Egli era garante della nuova pace israeliana, ma ha trascurato la sicurezza nazionale per imbrogliarsi in una controversa vicenda di riforma giudiziaria che ha spaccato il paese.

Eppure, all’esterno non c’è nemmeno voglia di gettare a mare anni di lavorio politico con Israele, cosa metterebbe a rischio molte attuali classi dirigenti.

Ciò rende Hamas molto più isolata di quello che sembra. Forse non c’è grande voglia di sostenere davvero la causa palestinese, anche al di là dei timori di una ritorsione israeliana. Persino in Siria e in Iran probabilmente non c’è brama di essere trascinati in una guerra aperta con Israele a sostegno di Hamas, una forza più radicale della dirigenza a Damasco o Teheran.

Senza un appoggio esterno strategico, cioè senza un grande allargamento regionale del conflitto, il braccio militare di Hamas potrebbe essere eliminato abbastanza rapidamente.

Israele, quale reazione?

Una controprova di queste sensazioni naturalmente arriverà con l’ingresso dell’esercito israeliano, lo IDF, a Gaza. Lì si vedrà davvero la reazione dei governi dell’area. Ma tale reazione dipenderà anche da quello che accadrà sul campo. Le domande sono due: con che efficienza l’IDF prenderà il controllo di Gaza e quanto forte sarà la resistenza di Hamas.

Più nel dettaglio, dato che la reazione dell’IDF era scontata, Hamas ha organizzato l’attacco per attirare l’IDF in una Gaza che diventerà la Stalingrado del mondo arabo? Oppure gli uomini di Hamas sono impreparati allo scontro frontale con l’IDF e la popolazione non è tutta schierata con Hamas ed è pronta ad allontanarsene?

La risposta a queste domande dipende dalla capacità di intervento dello IDF ma anche dal messaggio politico che Israele darà alla popolazione di Gaza. Sarebbe fondamentale forse dire che la guerra è contro il braccio militare di Hamas, non contro la popolazione, o contro il mondo arabo.

Qui c’è una complicazione. Israele ha fallito nella sua intelligence a Gaza. Non ha risorse umane affidabili sul posto, ha perso capacità di analisi, e la politica non ha saputo ascoltare. Quindi oggi c’è più incertezza a fidarsi della propria intelligence e ogni previsione sull’attacco a Gaza può essere sbagliata per un eccesso di ottimismo o pessimismo, cosa che moltiplicherebbe le vittime.

Ma è chiaro che al di là delle dichiarazioni di circostanza, moltissimi tifano per un rapido successo dello IDF. Una sconfitta, o uno scontro molto prolungato aprirebbe le porte a un successo politico di Hamas che a sua volta potrebbe dare la stura a una nuova stagione di terrorismo islamico nel mondo.

Occasione per Pechino

Il paragone con l’11 settembre qui non è peregrino. Solo che allora gli USA non avevano avversari affettivi e potevano concentrarsi contro il nemico del momento. Oggi l’attacco arriva con la guerra in corso in Ucraina e una tensione crescente con la Cina.

In realtà questa dinamica complessa potrebbe dare a Pechino un’occasione per cominciare uscire almeno parzialmente dal suo cono d’ombra con l’occidente. Ricalcare oggi i passi della vecchia prudente neutralità potrebbe moltiplicare domani molte ire.

Nel 2001, gli USA stavano mettendo la Cina sotto pressione, ma dopo l’attentato Pechino aprì una pagina di grande collaborazione con Washington, che poi si chiuse gradualmente dal 2004-05. Quella collaborazione diede una nuova iniezione di fiducia agli USA verso la Cina.

Oggi la situazione è molto diversa, e certamente le tensioni tra USA e Cina sono molto più importanti e articolate, ma potrebbe essere anche un momento per idee e prospettive nuove a Pechino, senza aspettare la fine degli scontri a Gaza. Israele ha oggi bisogno di aiuto, e i suoi nemici in realtà potrebbero essere molto meno di quanto appaia. Sarebbe cruciale per la Cina giocare con attenzione le prossime mosse.

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