Noi, Flottilla, la Marcia a Sarajevo del ’92

di:
sarajevo

Don Tonino Bello durante la Marcia della pace a Sarajevo

Sono ore delicatissime per il Medio Oriente, per il Mediterraneo (se qualcuno ancora ancora lo considera uno spazio con un’anima e quindi un messaggio) ma anche per la nonviolenza attiva. Un’esigenza crescente per molti ma come tutti i beni preziosi da maneggiare con cura, attenzione e riferimenti.

In questi giorni di preoccupazione, polemiche, proposte e attese per la Flottilla non si può che tentare un discorso sulla “nonviolenza attiva” muovendo dai citatissimi giorni della marcia per arrivare nella Sarajevo posta sotto assedio da milizie serbe. Citare quell’evento forse non basta, aiuta di più ricostruire qualcosa.

Marcia a Sarajevo: ritessere i fili della memoria

Era il 1992, quindi nel tempo della fiducia dopo il crollo del muro di Berlino. Paolo Bissoli ne ha scritto così su Il Corriere Apuano: «Don Albino Bizzotto, sacerdote vicentino classe 1939, e i suoi “Beati i costruttori di Pace” avevano ben chiaro il progetto: fare qualcosa di importante prima che tutto fosse perduto. Lo slogan era “in centomila a Sarajevo”, una moltitudine contro la guerra, ma il mondo della grande informazione non propagò l’eco di quell’annuncio e alla fine furono 496 a partire per attraversare l’Adriatico. Sulla nave che salpò il 7 dicembre da Ancona c’era una umanità variegata: tanti giovani, ma anche persone avanti con gli anni; religiosi e religiose, obiettori di coscienza, cattolici e atei.»

Basterà ricordare che all’appello di don Bizzotto risposero un centinaio di associazioni religiose e laiche, tra cui Arci, Acli, Pax Christi, e Associazione per la pace, personalità come Luciana Castellina, Roberto Formigoni e Alex Langer. Per lui nasceva un “pacifismo concreto” che rifiutava gli atteggiamenti dogmatici e ideologici e si concentrava sulle pratiche dal basso. Ne sarà espressione dall’anno successivo il Consorzio Italiano di Solidarietà.

In un’intervista pubblicata l’8 dicembre 2011 da Osservatorio Balcani e Caucaso, Gianfranco Bettin, al tempo della marcia parlamentare, ricorda molte cose della marcia dei 500, animata in particolare dai Beati Costruttori di Pace e Pax Christi, di come riuscirono ad arrivare nella capitale bosniaca sotto assedio da più di 200 giorni.

Il suo ricordo più nitido è il volto di don Tonino Bello, vescovo di Molfetta e indiscusso protagonista con il vescovo di Ivrea Luigi Bettazzi di quella marcia e della giornata dell’11 dicembre 1992.

A notte fonda – dopo giorni di viaggio – riuscirono a raggiungere Sarajevo, poi manifestarono nella città, incontrarono le autorità civili e tennero un’affollata assemblea. Bettin ricorda che ci furono anche allora discussioni se procedere o desistere, viste le difficoltà dopo il non facile viaggio in nave alla volta di Spalato (durato per una burrasca 24 ore) e il prosieguo fino al primo pernotto, a Maraska. «Passammo la notte a Makarska e il giorno dopo ci avviammo verso il cuore della guerra. Incontrammo tutto ciò che era prevedibile: continui posti di blocco di eserciti e di gruppi paramilitari con i quali tenemmo lunghe trattative».

La sera del 9 dicembre arrivarono a Kiseljak. Una lunga tappa forzata, dove ebbe luogo un dibattito intenso tra di loro. L’intervistatrice, Nicole Corritore, gli ha chiesto di ricordarne i motivi e l’atmosfera. Ecco la risposta:

«Ci riunimmo in assemblea per affrontare la domanda se andare avanti o meno. Fu una discussione molto intensa, che oltretutto ressi con fatica perché avevo perso completamente la voce… Io sostenni la posizione di proseguire perché ritenevo che andare avanti fosse la “cifra” della missione. Eravamo arrivati fin lì inermi ed esposti, ma anche sottoposti a un rischio calcolato, perché proprio per l’audacia dell’azione intrapresa sapevamo di essere sotto le luci dei riflettori dei media. Inoltre, l’azzardo della Marcia era un po’ mitigato dal fatto che alle parti in guerra non conveniva macchiarsi di un’aggressione ai danni di chi veniva non solo disarmato, ma con le intenzioni migliori e senza calcoli politici di parte».

Bissoli integra il racconto con dettagli interessanti: «Tra decine di posti di blocco e lunghe soste per le trattative, la colonna dei cinquecento impiega quattro giorni a coprire 250 chilometri: il progetto è entrare in città il 10 dicembre, Giornata Mondiale dei Diritti Umani, ma l’undici i volontari, che sventolano solo la bandiera della pace e hanno rifiutato qualunque scorta, compresa quella dell’Onu, non sono ancora in vista della città».

La frase più importante di Bettin sull’arrivo a Sarajevo e come lui lo ha vissuto nel tempo è questa: «I sarajevesi mostrarono un misto di curiosità, di felice sorpresa, di amicizia e soprattutto di speranza. Come se la nostra presenza fosse il segnale del venire meno dell’indifferenza del mondo rispetto a ciò che stava accadendo. Al contempo creammo anche delle illusioni, perché la comunità internazionale continuò poi a restare inerme a lungo. Certo, noi non eravamo quella “comunità internazionale”, ma l’espressione di un’altra comunità. Però agli occhi della popolazione eravamo pur sempre parte del mondo esterno, in cui confidava e immaginava li avrebbe aiutati a fermare la guerra».

Sarajevo e l’ONU rovesciata di don Tonino

Queste parole su due comunità ricordano alcune delle parole che pronunciò nel suo discorso a Sarajevo proprio don Tonino Bello, che volle partire per Sarajevo dalla sua Molfetta pur sapendosi affetto da un tumore. Infatti don Tonino Bello tra le altre cose disse: «Questa esperienza è stata una specie di ONU rovesciata. Qui non è arrivata l’ONU dei potenti. Ma l’ONU della base, dei poveri. L’ONU dei potenti si può permettere di entrare a Sarajevo fino alle 16. L’ONU dei poveri si può permettere di entrare anche dopo le 19. Io penso che queste forme di utopia dobbiamo promuoverle, altrimenti le nostre comunità che cosa sono? Sono soltanto le notaie dello status quo e non le sentinelle profetiche che annunciano cieli nuovi e terra nuova. Io penso che noi dobbiamo puntare tutto su questo».

E quindi: «Siamo qui, allineati sulla grande idea della nonviolenza attiva». Avvenire ha riportato queste sue ulteriori parole al riguardo in quell’occasione: «la nonviolenza attiva è diventata un trattato scientifico. Gli eserciti di domani saranno uomini disarmati! Ma occorre un’azione intellettuale, bisogna che le nazioni promuovano le tecniche della strategia nonviolenta».

Nella citata intervista, Bettin ricorda alcuni dei tanti sviluppi della marcia, che coinvolsero migliaia di persone: «Dall’esperienza dei “postini”, volontari italiani che portavano dentro e fuori da Sarajevo le lettere che altrimenti non sarebbero mai arrivate a destinazione, alla realizzazione di campagne di denuncia, progetti di protezione dei profughi e di aiuto umanitario con invio di medicinali e alimentari durante la guerra».

La disfatta di Srebrenica e Sarajevo dopo la Marcia

Sappiamo tutti che due anni e mezzo dopo, nel luglio del 1995, l’ONU dei ricchi conobbe la disfatta di Srebrenica, il genocidio compiuto dagli uomini del generale serbo Ratko Mladic, con l’appoggio del gruppo paramilitare degli Scorpioni, in quella che l’ONU aveva dichiarato come zona protetta. Non è solo una storia di fallimenti quella delle missioni ONU, ma quello fu gravissimo e forse ha contribuito a far sì che oggi l’ONU venga irrisa nei suoi stessi saloni; ma senza multilateralismo quel che si intravede è l’abbandono di molti alla forza di pochi. La nonviolenza attiva potrebbe aiutare a far ripartire un’istanza regolatrice globale? E quanto questo dipende da noi?

È interessante notare che dopo la marcia, nel 1994, i sarajevesi costruirono una sorta di arca che recava sulle sue vele improvvisate due messaggi: “Ciao Europa! Siamo il mondo!” e “WARum?”. Il primo, un saluto sarcastico alla comunità internazionale che osservava passivamente; la seconda, una parola tedesca che combina “guerra” e “perché”. Proprio lì, il 3 ottobre di due anni fa, è stato ricordato Moreno Locatelli nel trentennale della sua scomparsa: volontario dei “Beati Costruttori di Pace”, venne ucciso da un cechino il 3 ottobre 1993 mentre tentava di attraversare quel ponte sul fiume Miljacka. A ricordarlo c’era la vice-sindaca di Sarajevo con volontari e amici. Segno concreto che chi ha conosciuto la violenza, feroce, confida nella nonviolenza, nella solidarietà. E infatti a bordo della Flottilla c’è anche uno di loro, Boris Vitlacil.

Oggi, sempre su Osservatorio Balcani e Caucaso, Sabina Tanovic ci fa sapere che in questi giorni il gesto si ripete, «alcuni cittadini di Sarajevo stanno facendo lo stesso in un atto di solidarietà con la Global Sumud Flottilla, una coalizione di persone comuni – organizzatori, filantropi, medici, artisti, sacerdoti, avvocati e marinai – che credono nella dignità umana e nel potere dell’azione non violenta. Barchette di carta con messaggi di sostegno navigano lungo il fiume Miljacka: un atto simbolico…». Segno che probabilmente chi ha conosciuto la violenza, feroce, confida nella nonviolenza, nella solidarietà. E infatti a bordo c’è anche uno di loro, Boris Vitlacil.

L’ieri della Marcia e il nostro oggi

La situazione odierna può essere ritenuta peggiore di quella di allora, sono intervenuti nuovi strumenti di guerra, in particolare i droni e l’applicazione all’azione bellica dell’Intelligenza Artificiale. Ma ciò di cui si avverte l’urgenza è una riflessione sul nostro grado di accettazione, sul nostro modo di essere società. Zygmunt Bauman ha interpellato molti con la sua idea di società liquida, la fluidità delle relazioni sociali, economiche e culturali.

Forse ora vediamo la società come una nuvola di polvere, nella quale la vicinanza non indica coesione. La Flottilla appare fenomeno molto complesso, con aderenti che provengono da 44 Paesi; insegnanti, professionisti, lavoratori in ferie, pochi parlamentari.

Mi hanno colpito le parole dell’irlandese Guy Darrer: «Vogliamo fare qualcosa per salvare l’umanità che si sta autodistruggendo». È però interessante che quella marcia, che si sforzò di sostenere le ragioni della pace senza calcoli politici di parte, venne criticata da esponenti di altro orientamento ma anche dal suo stesso campo, che rimproveravano l’aver posto obiettivi irrealizzabili senza calibrarli in base alle reali possibilità.

Così, guardando a noi più che alla Flottilla, credo importante soffermarsi su cosa ha scritto nei giorni passati, in occasione dello sciopero generale solidale con la Flottilla, promosso dai sindacati di base, l’Osservatore Romano guardando le piazze italiane di quel giorno di mobilitazione: «Al netto della chiara condanna dei gruppuscoli di violenti, ciò su cui vale la pena soffermarsi è, piuttosto, la grande massa di liceali e ragazzi, che si è riservata nelle strade per chiedere che cessi la carneficina a Gaza. Non mi interessa il grado di consapevolezza che li ha animati, né mi interessa pensare in termini utilitaristici il loro protestare. A farmi riflettere è come questi giovani, riversandosi pacificamente in piazze e strade, abbiano tentato di prendere sul serio un bisogno di giustizia e di pace che sentono proprio. Infatti, come scriveva Charles Péguy, “c’è qualcosa di peggio dell’avere un’anima addirittura perversa. È avere un’anima abituata”».

Forse la secolarizzazione affidata al neo-liberismo ha prodotto una polverizzazione sociale che a molti secolarizzati non piace. Questo rifiuto di “un’anima abituata” può essere la base di un nuovo incontro sociale tra quanti, credenti e secolarizzati, avvertono che la fratellanza, il tema profeticamente scelto da Francesco per la sua enciclica più famosa, è ciò che può farli convergere in uno sforzo comune. Dopo Sarajevo infatti la mobilitazione nonviolenta è stata contenuta sul dramma ucraino, totalmente assente su quello siriano (del Sudan non si parla); per la difficoltà a trovare forme di presenza in questi contesti, ma forse non solo per questo.

Francesco e la nonviolenza attiva

Francesco ha dedicato il suo messaggio in occasione della Giornata Mondiale per la pace del 2017 alla nonviolenza attiva: «Auguro pace ad ogni uomo, donna, bambino e bambina e prego affinché l’immagine e la somiglianza di Dio in ogni persona ci consentano di riconoscerci a vicenda come doni sacri dotati di una dignità immensa. Soprattutto nelle situazioni di conflitto, rispettiamo questa “dignità più profonda” e facciamo della nonviolenza attiva il nostro stile di vita». Subito dopo ha ricordato che in occasione della prima giornata mondiale per la pace Paolo VI scrisse: «È finalmente emerso chiarissimo che la pace è l’unica e vera linea dell’umano progresso (non le tensioni di ambiziosi nazionalismi, non le conquiste violente, non le repressioni apportatrici di falso ordine civile)». Era il Primo gennaio 1968…

Nel suo testo Francesco ha proseguito vedendo un mondo fratturato, una violenza che già allora definiva “a pezzi”, prima del conflitto ucraino o di quello di Gaza: «La violenza non è la cura per il nostro mondo frantumato. Rispondere alla violenza con la violenza conduce, nella migliore delle ipotesi, a migrazioni forzate e a immani sofferenze, poiché grandi quantità di risorse sono destinate a scopi militari e sottratte alle esigenze quotidiane dei giovani, delle famiglie in difficoltà, degli anziani, dei malati, della grande maggioranza degli abitanti del mondo. Nel peggiore dei casi, può portare alla morte, fisica e spirituale, di molti, se non addirittura di tutti».

Poi ricorda che la nonviolenza ha prodotto, e molto: «La nonviolenza praticata con decisione e coerenza ha prodotto risultati impressionanti. I successi ottenuti dal Mahatma Gandhi e Khan Abdul Ghaffar Khan nella liberazione dell’India, e da Martin Luther King Jr. contro la discriminazione razziale non saranno mai dimenticati. Le donne, in particolare, sono spesso leader di nonviolenza, come, ad esempio, Leymah Gbowee e migliaia di donne liberiane, che hanno organizzato incontri di preghiera e protesta nonviolenta (pray-ins) ottenendo negoziati di alto livello per la conclusione della seconda guerra civile in Liberia».

Qui parliamo di nonviolenza come  forma di difesa, come hanno scritto i gesuiti di Aggiornamenti Sociali: «La storia della nonviolenza moderna è una storia di movimenti di difesa. Gandhi difendeva l’indipendenza dell’India; Martin Luther King difendeva i diritti degli afroamericani; Nelson Mandela difendeva la libertà dei neri del Sudafrica».

Ci si difende meglio cosí o con le armi? Il bivio per qualcuno può non essere assoluto e quindi richiedere di intervenire sui modi con cui esercitare l’autodifesa. Il papa ne era ben consapevole, visto che di lì a breve nel suo messaggio cita Giovanni Paolo II che ricorda l’89 e la caduta del muro: «Mediante una lotta pacifica, che fa uso delle sole armi della verità e della giustizia»

Ma sempre più peso assume la speranza di una rinnovata Comunità Internazionale, la sua auspicata capacità di contenere le guerre e il coinvolgimento dei civili. Papa Francesco in Spera ha citato un grande inviato di guerra, senza nominarlo, per il quale i soldati sono sempre più spesso i nuovi «danni collaterali».

Dunque mi sembra che emergano due esigenze: la nonviolenza attiva come strumento a disposizione di chi difende i propri diritti e come azione civile contro la guerra e i suoi eccessi ai quali è impossibile abituarsi. È un terreno che potrebbe unire credenti e secolarizzati, riducendo il peso delle polarizzazioni e della polverizzazione sociale.

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3 Commenti

  1. Salfi 1 ottobre 2025
  2. Giuseppe Risi 30 settembre 2025
  3. Antonio Cecconi 30 settembre 2025

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