Rilevanza penale del “saluto romano”

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saluto romano

«Chiunque, partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste è punito con la pena della reclusione sino a tre anni e con la multa da duecentosei a cinquecentosedici euro».

È quanto previsto dal vigente articolo 5 – rubricato «Manifestazioni fasciste» – della legge 20 giugno 1952 n. 645 (la c.d. legge Scelba) recante «Norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione» che, come è noto, vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.

Sul piano storico va ricordato che sia la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, sia la legge Scelba che mira a renderla effettiva, derivano da un preciso punto del Trattato di Pace (articolo 17) firmato a Parigi il 10 febbraio 1947 con cui l’Italia, dopo aver dato atto dello scioglimento delle organizzazioni fasciste sul proprio territorio, si impegna a non permettere «la rinascita di simili organizzazioni, siano esse politiche, militari o militarizzate, che abbiano per oggetto di privare il popolo dei suoi diritti democratici» (Cassazione penale, sez.1, sent. n. 7904 del 4 marzo 2022). L’una e l’altra non possono certo essere relegate a simboliche norme di omaggio al movimento di Resistenza al fascismo.

Una recente e istruttiva sentenza della prima sezione penale della Corte di cassazione (la n. 12049, depositata il 22 marzo 2023) fa chiarezza sull’applicazione della norma e conferma la decisione della Corte d’appello di Milano che, in parziale riforma della pronuncia del Giudice per le indagini preliminari, aveva convalidato la condanna alla reclusione e alla multa per ciascuno degli imputati, dichiarandone la responsabilità penale per il concorso, fra loro e con altri soggetti non identificati, nel compimento di manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, quali la «chiamata del presente» con il braccio destro e il palmo della mano rivolti verso l’alto, così effettuando ostentatamente il «saluto romano» secondo la descrizione contenuta nel dizionario di politica edito dal Partito nazionale fascista nel 1940.

La legge Scelba e la Corte Costituzionale

Prima di illustrare il caso affrontato dalla Corte di Cassazione, è necessario ricordare che la Corte costituzionale, nel 1957 con la sentenza 16 gennaio 1957 n. 1, nel 1958 con la sentenza 25 novembre 1958 n. 74 e, nel 1973, con la sentenza 27 febbraio 1973 n. 15, ha offerto un’autorevole, peraltro restrittiva, interpretazione del reato contemplato dalla legge.

Secondo la Consulta, la norma penale in questione non punisce tutte le manifestazioni usuali del disciolto partito fascista, ma solo quelle «che possono determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste in relazione al momento e all’ambiente in cui sono compiute» e tra queste non solo «gli atti finali e conclusivi della riorganizzazione» ma anche manifestazioni, espressioni, gesti, comportamenti, quali «possibili e concreti antecedenti causali di ciò che resta costituzionalmente inibito» e quindi «idonei a provocare adesioni e consensi ed a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste».

Le tre pronunce considerano l’articolo 5 della citata legge come attuazione e diretta conseguenza della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione, la quale, in vista del perseguimento di un ben determinato scopo come la stigmatizzazione dell’ideologia fascista, pone dei limiti all’esercizio dei diritti di libertà di associazione e di pensiero enunciati rispettivamente dagli articoli 17 e 21 della Costituzione. «La XII disposizione transitoria – si legge nella sentenza del 1958 – va interpretata per quella che è, cioè quale norma costituzionale che enuncia un principio o indirizzo generale, la cui portata non può stabilirsi se non nel quadro integrale delle esigenze politiche e sociali da cui fu ispirata».

Il fatto

Ma veniamo al fatto che è all’origine della sentenza della Corte di cassazione.

Nell’aprile 2019 alcuni esponenti milanesi di Casapound, Forza Nuova e Lealtà e Azione chiedono al Questore di Milano l’autorizzazione a commemorare il militante del Fronte delle Gioventù S.R. assassinato da alcuni esponenti di «avanguardia operaia» nel 1975, il militante della Repubblica sociale italiana C.B. ucciso dai partigiani nell’aprile del 1945 e il consigliere comunale del Movimento sociale italiano a Milano negli anni ’70 E.P. ucciso nel 1976 da terroristi di «prima linea».

Il Questore autorizza la commemorazione da effettuarsi in modo statico in un ben determinato luogo, e, per motivi di ordine e di sicurezza pubblica, prescrive ai manifestanti di astenersi dal tenere comportamenti evocativi del disciolto partito fascista.

Dopo la prima fase della manifestazione, svoltasi in modo pacifico e ordinato, un gruppo di manifestanti viola le disposizioni date dal Questore, vince le resistenze delle forze dell’ordine che devono impedire che la manifestazione si allarghi alla città e assuma una funzione dinamica, invade le vie cittadine per raggiungere senza autorizzazione il luogo dove avvenne l’omicidio di S.R. nel 1975, pone platealmente in essere il rito del «saluto romano» che il Tribunale nel settembre 2020 e la Corte d’appello nel marzo 2022 del capoluogo regionale lombardo ritengono penalmente rilevante, ai sensi dell’articolo 5 della legge Scelba, in quanto dotato di particolare forza suggestiva e capacità di convinzione ideologica, nonché idoneo a far risorgere l’ideologia fascista, ostentandone simboli e azioni rituali.

Tribunale e Corte di appello accertano l’esistenza di un evidente stacco, anche di luogo e di tempo, tra la prima parte della manifestazione, quella autorizzata, nella quale la commemorazione dei defunti avviene secondo le modalità richieste dal Questore, e la seconda parte della manifestazione, posta in essere, violando l’ordine del Questore e vincendo la resistenza delle forze dell’ordine, al solo scopo di eseguire riti e gesti tipici del disciolto partito fascista, con grandissima partecipazione emotiva da parte di tutti i manifestanti radunati in forma di schiera paramilitare. E ciò allo scopo di provocare adesioni e consensi e di concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste.

Condannati in primo e secondo grado, gli imputati ricorrono in Cassazione per svariati motivi: tre di questi meritano di essere evidenziati perché costituiscono, per i giudici della Corte di Cassazione, l’occasione per affermare tre importanti principi di diritto.

Il primo motivo denuncia la violazione della legge, in quanto gli imputati, partecipando, pur con la «chiamata del presente» e con il «saluto romano», ad una commemorazione funebre espressiva del loro senso religioso, non avrebbero posto in essere alcun comportamento vietato dalla legge.

Il secondo motivo denuncia la violazione della legge per mancanza di consapevolezza del rilievo penale della loro condotta, dal momento che, in tema di rilevanza penale di fatti simili, esisterebbe una persistente oscillazione giurisprudenziale.

Il terzo motivo denuncia la violazione della legge per non essere stata riconosciuta, da parte del Giudice di primo e secondo grado, la circostanza attenuante di aver agito, da parte degli imputati, per motivi di particolare valore morale e di umana pietà.

Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione dichiara infondati i tre motivi del ricorso e conferma le condanne degli imputati inflitte dal Tribunale e dalla Corte d’appello di Milano.

Motivi della decisione

Nel motivare la decisione, i Giudici della suprema corte affermano, in primo luogo, che la giurisprudenza di legittimità che si è occupata della legge Scelba ha sempre affermato che «il delitto di cui alla legge 20 giugno 1952 n. 645, articolo 5 è reato di pericolo concreto, che non sanziona le manifestazioni del pensiero e dell’ideologia fascista in sé, attese le libertà garantite dall’articolo 21 della Costituzione, ma soltanto ove le stesse possano determinare il pericolo di ricostituzione di organizzazioni fasciste, in relazione al momento e all’ambiente in cui sono compiute, attentando concretamente alla tenuta dell’ordine democratico e dei valori ad esso sottesi». «Non è la manifestazione esteriore in quanto tale ad essere oggetto di incriminazione, bensì il suo venire in essere in condizioni di pubblicità tali da rappresentare un concreto tentativo di raccogliere adesioni ad un progetto di ricostituzione del partito fascista».

In secondo luogo, nella giurisprudenza di legittimità, se correttamente approcciata, non si coglie alcuna oscillazione, dal momento che nei casi in cui è stata confermata l’assoluzione dal delitto di cui all’articolo 5 della legge Scelba l’accertamento dei fatti aveva escluso «il raggiungimento della soglia di concreto pericolo richiesto dalla norma incriminatrice», in quanto le manifestazioni con l’impiego del «saluto romano» e l’intonazione della «chiamata del presente» erano rivolte esclusivamente ai defunti in segno di omaggio e di umana pietà, senza alcuna connotazione di pubblicità evocativa del disciolto partito fascista.

In realtà – affermano i giudici di legittimità – la giurisprudenza sulla penale rilevanza della condotta di cui all’articolo 5 della legge n. 645 del 1952, se interpretata secondo la lettura datane dalla Corte costituzionale, è talmente «granitica» da comportare l’assoluta impossibilità di invocare il criterio dell’ignoranza scusabile della legge penale.

Quanto all’impossibilità di tener conto, nel determinare la pena, della circostanza attenuante – ed è il terzo principio di diritto affermato dalla Cassazione – per aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale, la giurisprudenza «è costantemente orientata ad affermare che i sentimenti di particolare valore morale e sociale non possono essere confusi, agli effetti penali, con l’estrinsecazione di determinate ideologie quando queste non solo rappresentano l’orientamento contingente di singoli gruppi di cittadini, ma si distanziano per scopi e metodi dalla coscienza etica comune».

Dunque, «in considerazione del precetto costituzionale che, lungi dal riconoscere valore all’ideologia fascista, la osteggia e ne stigmatizza le manifestazioni», va ritenuto che queste ultime «non rientrano nell’ambito di operatività della circostanza attenuante».

Manifestazioni fasciste ed esibizionismo razzista

Il saluto romano potrebbe essere sanzionato, anche in quanto delitto cosiddetto di «esibizionismo razzista», ai sensi del vigente articolo 604 bis del codice penale («Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa»), norma diretta a tutelare il rispetto della dignità umana e del principio di uguaglianza etnica, nazionale, razziale e religiosa e nella quale è stato trasfuso in contenuto della legge Reale in tema di eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (legge 11 ottobre 1975 n. 654) e della legge Mancino in tema di discriminazione razziale, etnica e religiosa (legge 25 giugno 1993 n. 205).

Le due disposizioni incriminatrici (l’articolo 5 della legge Scelba e l’articolo 604 bis del codice penale) presentano «aspetti di affinità che possono indurre a ritenerle componenti di un più vasto sistema di tutela dei valori della convivenza civile e della democrazia costituzionale» (Cassazione penale, sez. 1, sent. n. 7904 del 4 marzo 2022).

La legge Scelba n. 645 del 1952 incrimina all’articolo 5 la condotta di chi, partecipando a pubbliche riunioni, compie manifestazioni usuali del disciolto partito fascista ovvero di organizzazioni naziste. La disposizione si limita alla descrizione della condotta e non richiede null’altro ai fini dell’integrazione del reato.

Ad essere incriminato è l’utilizzo – in pubbliche riunioni – di una determinata gestualità evocativa del disciolto partito fascista, dunque il gesto o l’emissione verbale che possieda simile carica evocativa (Cassazione penale, sez. 1, sent. n. 7904 del 4 marzo 2022).

L’articolo 604 bis del codice penale invece, punisce, genericamente, chiunque, in pubbliche riunioni, compia manifestazioni esteriori o ostenti emblemi o simboli propri o usuali delle organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi aventi tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. E non vi è dubbio che le organizzazioni e i movimenti neofascisti abbiano un’ideologia discriminatoria e razzista.

Il delitto di manifestazioni fasciste è reato di pericolo concreto (Cassazione penale, Sez. 1, sent. n. 11038 del 7 marzo 2017), mentre quello di esibizione razzista è reato di pericolo astratto o presunto (Cassazione penale, sez. 1, sent. n. 21409 del 16 maggio 2019): nel primo caso, il bene tutelato viene effettivamente messo a rischio dalla condotta di chi compie il delitto, mentre nel secondo caso la condotta illecita viene punita anche se il bene tutelato non viene messo veramente a rischio.

Il bene giuridico tutelato dalla legge Scelba è rinvenibile nella sicurezza dell’ordinamento costituzionale, mentre il bene giuridico tutelato dall’art. 604 bis c.p. va individuato nell’ordine pubblico in senso materiale, vale a dire nella condizione di pacifica convivenza rispettosa della dignità di ogni essere umano.

Conclusione: mai minimizzare il rischio di rigurgiti fascisti

Portare l’attenzione sul reato di «manifestazioni fasciste» o sui reati di «esibizioni razziste» intrinseche all’ideologia fascista, non è retorica antistorica. È bene ricordarlo, dal momento che periodicamente da più parti viene minimizzato se non negato il rischio di rigurgiti neofascisti.

Basti pensare che, nel corso della XVI legislatura, venne presentato un disegno di legge costituzionale finalizzato ad abrogare la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione sul presupposto – come si legge nella relazione illustrativa – che «la sola ipotesi che sussista, nella realtà di oggi, il pericolo di una riproposizione di quello che è stato il partito fascista non può essere realisticamente prospettata da alcuno e conseguentemente l’approvazione del presente disegno di legge costituzionale consente, da un lato, di chiudere finalmente un capitolo che non ha motivo di rimanere aperto e, dall’altro, di ridurre quegli spazi di legislazione speciale che restano in ogni caso poco corrispondenti ad una compiuta realizzazione del principio di libertà».

In realtà, «nulla autorizza a ritenere che il decorso di ormai molti anni dall’entrata in vigore della Costituzione renda scarsamente attuale il rischio di ricostituzione di organismi politico-ideologici aventi comune patrimonio ideale con il disciolto partito fascista o altre formazioni politiche analoghe. L’esigenza di tutela delle istituzioni democratiche non risulta, infatti, erosa dal decorso del tempo e frequenti risultano gli episodi ove sono riconoscibili rigurgiti di intolleranza ai valori dialettici della democrazia unitamente alla diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico» (Cassazione penale, sez. 1, sent. n. 37577 del 12 settembre 2014).

In presenza di reiterati gesti simbolici che rimandano, per comune nozione storica, all’ideologia fascista, e quindi ad un’ideologia politica sicuramente non portatrice dei valori paritari e di non violenza, ma, al contrario, fortemente discriminante e intollerante, nonché ad un regime totalitario che ha emanato leggi di discriminazione dei cittadini per motivi razziali (Cassazione penale, sez. 1 n. 25184 del 17 giugno 2009 e sez. 3 n. 37390 dell’11 ottobre 2007), risulta sempre attuale quanto scritto dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 74 del 1958: «Riconosciuta, in quel particolare momento storico, la necessità di impedire, nell’interesse del regime democratico che si andava ricostruendo, che si riorganizzasse in qualsiasi forma il partito fascista, era evidente che la tutela di una siffatta esigenza non potesse limitarsi a considerare soltanto gli atti finali e conclusivi della riorganizzazione, del tutto avulsi da ogni loro antecedente causale, ma dovesse necessariamente riferirsi ad ogni comportamento che, pur non rivestendo i caratteri di un vero e proprio atto di riorganizzazione, fosse tuttavia tale da contenere in sé sufficiente idoneità a produrre gli atti stessi. Non è infatti concepibile che, mirando al fine di impedire la riorganizzazione, il legislatore costituente intendesse consentire atti che costituissero un apprezzabile pericolo del riprodursi di tale evento».

D’altra parte, è stato il Parlamento Europeo, «seriamente preoccupato per l’impunità con la quale agiscono i gruppi neofascisti e neonazisti in alcuni Stati membri», a denunciare «che questo senso di impunità è uno dei motivi che spiegano l’allarmante aumento delle azioni violente da parte di certe organizzazioni di estrema destra», e, conseguentemente, ad approvare il 25 ottobre 2018 una specifica Risoluzione sull’aumento della violenza neofascista in Europa (2018/2869) con la quale, tra l’altro, gli Stati membri sono esortati a «contrastare le organizzazioni che incitano all’odio e alla violenza negli spazi pubblici e online e a vietare di fatto i gruppi neofascisti e neonazisti e qualsiasi altra fondazione o associazione che esalta e glorifica il nazismo e il fascismo, nel rispetto dell’ordinamento giuridico e delle giurisdizioni nazionali».

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