
La città di Gaza (foto Reuters).
Oggi, 22 settembre, è il giorno da tempo annunciato dell’iniziativa franco saudita al palazzo di vetro delle Nazioni Unite di New York, che intende rilanciare la soluzione dei due Stati inducendo a riconoscere quello di Palestina, come annunciato ieri da Regno Unito, Canada, Portogallo e Australia. Proprio nelle ore in cui papa Leone ha affermato che non c’è futuro con la violenza, l’esilio forzato e la vendetta.
Dal campo seguitano ad arrivare immagini di disperazione. L’umana immaginazione è sfidata da un indefinibile spostarsi con mezzi di fortuna su strade impercorribili, con stracolmi carretti tanto approssimativi quanto improbabili: e lo sguardo di uomini, donne, bambini non possiamo che percepirlo come perso nel vuoto. Non è una novità, queste scene si ripetono nel tempo, da tempo.
Palestinesi: senza terra e senza diritti
Ho trovato però uno stimolo inatteso in poche parole pronunciate nelle ore appena trascorse dal patriarca latino di Gerusalemme, cardinale Pierbattista Pizzaballa. In collegamento con il festival di Open a Pavia, alla domanda se i palestinesi possano diventare gli zingari del Medio Oriente ha risposto “già lo sono”.
Non ha paragonato le due storie. È noto che gli zingari non rivendicano un territorio considerandosi un popolo europeo, i palestinesi lo fanno. Per i primi sappiamo di persecuzioni secolari, sono stati inseguiti da antiche accuse di stregoneria. Dunque il paragone è altrove.
I palestinesi li vediamo a Gaza in accampamenti, o senza fissa dimora; è questo che stabilisce il collegamento? Sappiamo della progressiva violazione dei loro diritti individuali e collettivi in Cisgiordania; il patriarca Pizzaballa si è soffermato anche su questo e la sua gravità.
Credo che sia qui il senso di quel “lo sono già”. Mi è sembrata un’immagine che rende l’idea tramite un esempio che conosciamo nella sua problematicità. Dunque si potrebbe concludere che è stata un’immagine efficace. Ma forse questa immagine esemplificatrice merita un supplemento di attenzione.
Proverei allora questa volta a non parlare dei palestinesi attraverso le loro scelte politiche: conflitto, processo di pace, suo rifiuto da parte di Hamas, terrorismo, orrore del 7 ottobre. Tenendo conto di tutto questo, l’inusuale parallelo in cui è stato coinvolto il cardinale forse richiede anche di vedere il palestinese ordinario in tutto il contesto regionale. Infatti non è facile neanche la vita dei profughi palestinesi, quelli che hanno trovato rifugio nei paesi limitrofi.
Un destino di diaspora e vana attesa di ritorno
Le guerre del ’48 e del ’67 hanno prodotto moltissimi profughi palestinesi, nei decenni divenuti per crescita naturale diversi milioni; in tutti i paesi della diaspora hanno da subito chiesto che venisse preservata la loro unità come nazione e il diritto a tornare nel loro paese, vista anche la risoluzione 194 approvata dall’ONU (11 dicembre 1948).
Nel settembre 1965, il primo vertice arabo di Casablanca raccomandò di garantire i loro i diritti civli, pur preservando la loro identità nazionale. Lo scopo era principalmente quello di garantire diritto al lavoro e alla libertà di movimento. Ma molti Paesi firmarono esprimendo riserve, mentre altri non firmarono.
I diritti citati oggi sono formalmente garantiti in Giordania, dove tutti i palestinesi hanno ottenuto cittadinanza e passaporto al tempo del processo di pace israelo-giordano; i calcoli, non ufficiali, indicano che il 70% della popolazione odierna ha origini palestinesi.
Ma non è stato facile, come ha scritto Eugenio Dacrema per l’Ispi: “Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta l’allora minoranza palestinese, guidata dall’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) di Yasser Arafat, aveva infatti tentato di destabilizzare la monarchia hashemita”. Seguì Settembre Nero.
Molto è cambiato, ma vige una legge elettorale che sovrastima le aree rurali, abitate prevalentemente dai transgiordani, fedeli alla famiglia reale, rispetto a quelle urbane, dove si trovano molti cittadini di origini palestinesi.
In Siria i profughi, circa 600mila, hanno ufficialmente goduto dei diritti civili, sebbene moltissimi di loro vivessero in campi profughi, il più famoso dei quali è stata una vera e propria città alle porte di Damasco, Yarmouk, con più di 100mila residenti prima di essere sottoposta a tre anni di assedio durante la guerra siriana. “Strade senza pane a poca distanza dalle pasticcerie di Damasco” – mi ha detto un religioso che viveva lì durante l’assedio.
Palestinesi in Libano
Anche in Libano i profughi palestinesi sono stati spesso definiti “fattore di instabilità”, ma i palestinesi ordinari hanno vissuto in condizioni sociali ed economiche ben presto proibitive. Anche dopo la fine della guerra civile sono stati consentiti loro solo i lavori giornalieri; quelli a loro accessibili sono aumentati solo nel 2010, come anche la possibilità di crearsi una posizione pensionistica, purtroppo non molto prima del crack economico del Libano.
Il caso libanese merita qualche nota aggiuntiva. Il Libano è stato uno dei primi Paesi dove i profughi palestinesi giunsero nel ’48; si tratta di un Paese complesso, edificato sul bilanciamento parlamentare tra musulmani e cristiani. Le testimonianze che ho letto mi sembrano indicare che i palestinesi, in larghissima parte musulmani, non sono stati percepiti da subito come un problema “politico-confessionale” dai cristiani libanesi, tanto che Beirut ne accolse un numero crescente negli anni.
I timori cristiani sono cresciuti dopo, con l’arrivo dei guerriglieri dell’Olp e il saldarsi di un fronte “solidale”. Si seppe discutere in termini nazionali? Si capì il timore? Si seppe assicurare che la “solidarietà” non intendeva mutare la natura plurale e bilanciata del Paese?
Di lì a breve sopraggiunse la guerra civile, che comprendeva tante guerre e che ha reso ancor più profondo il timore demografico. Anche per questo nessuno sa quanti siano i palestinesi in Libano, i dati conosciuti oscillano tra i 250mila ed i 500mila. Nel 2023 l’agenzia dell’ONU che si occupa di loro ha indicato che l’80% dei palestinesi in Libano vive sotto la linea nazionale di povertà.
Il limbo nei paesi del Golfo
Diverso è il discorso sulla diaspora nei Paesi del Golfo, dove i palestinesi hanno costituito l’ossatura di alcuni apparati statali, dell’istruzione, dell’imprenditoria. Questo secondo alcuni avrebbe costituito anche un risentimento nei loro confronti, una sorta di invidia. Questo potrebbe essere uno dei motivi del ristretto numero di palestinesi che ha ottenuto la cittadinanza.
Ma per i molti altri quando arriva l’età della pensione, nel pubblico o nel privato, il visto scade e bisogna tornare: dove? Per i non numerosi palestinesi che vivono in Egitto il poco che risulta è che vivano come in un limbo.
Questo ci avvicina alla condizione di vita di palestinesi ordinari, anche quelli che meno vediamo, di cui meno parliamo. Ma per parlarne più approfonditamente dovremmo entrare nel discorso politico, loro e dei governi arabi, su cui molto ci sarebbe da dire. Ma questo, ora, ci allontanerebbe dal cuore di quanto detto dal patriarca di Gerusalemme.
Pizzaballa: l’ora della società civile
Il nucleo centrale di quello che ha detto il card. Pizzaballa, almeno in queste ore, lo trovo in queste frasi che prendo da un’intervista pubblicata dal settimanale diocesano L’azione, in cui parla a noi: «Non perderei troppo tempo con la politica. Ciò che è evidente in questo periodo è la debolezza, se non la paralisi, delle istituzioni politiche locali, internazionali, multipolari… vorrei dire anche delle istituzioni religiose.
Questo è il momento della società civile: è lì soprattutto che dobbiamo agire ed è a questa che dobbiamo parlare». E poi: «Non diventare strumentali ad un linguaggio di odio, ma rimanere sempre ancorati a una parola che salva e che apre orizzonti e costruisce, senza mai distruggere».
Questa convinzione, ritengo, gli ha consentito di tornare anche a esprimersi sull’oggi: «Come ho già detto anche in altre occasioni, sento un grande senso di impotenza e di frustrazione in questa situazione. Cerco di rimanere sereno e libero. L’importante è non diventare strumentali a uno schieramento o all’altro, a motivo delle gravi polarizzazioni che ci sono in questo momento. Comunque, è chiaro che quanto sta accadendo è di una gravità enorme e non riesco a capirlo, se non ricorrendo a quelle che sono le logiche umane.
Non riesco a capire come si possa tollerare una cosa del genere. Sono affranto per tutto l’odio che questa situazione sta creando, allontanando sempre di più ogni prospettiva futura di ricomposizione e di guarigione di queste ferite. Non è tutto nero o bianco: questo è ovvio. È evidente che ci sono delle strumentalizzazioni; è evidente che Israele ha delle ragioni…
Tuttavia non possono in alcun modo giustificare quello che accade a Gaza. Questo va detto». Richiesto di chiarire se ritenga che ci sia sproporzione nella reazione israeliano al massacro del 7 ottobre ha risposto: «Credo che sia evidente, e non si può tacerlo. Ne pago le conseguenze e il prezzo, anche in termini di relazioni e di amicizie. Però bisogna riconoscerlo».
Questa sera il cardinale sarà in collegamento con la veglia per la pace organizzata da San’Egidio e presieduta dal cardinale Gualtiero Bassetti.





