Siria: il regime a processo

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Una giornata così tragica – nel ricordo dei fatti – e quindi importante ai fini di una qualche giustizia internazionale, non può passare sotto silenzio accanto alle pagine del diario: si è aperto ieri (21 maggio 2024) a Parigi il primo processo alla giunta di Bashar al Assad. Non solo questi, infatti, è ancora al potere in Siria – o in quel che resta della Siria – ma è pure in via di riabilitazione da parte di numerose entità nazionali e sovranazionali, alle quali alcuni vorrebbero si aggiungesse ormai anche l’Unione Europea.

Sia noto: il processo alla giunta Assad è per «crimini contro l’umanità». Ad andare alla sbarra – sia pure in contumacia – sono gli uomini che, per lunghissimi anni, hanno gestito il mattatoio siriano in apicale e assoluta fedeltà al presidente Assad.

Si tratta di Ali Mamlouk, l’eterno capo dei servizi di intelligence, responsabile dell’Ufficio per la Sicurezza nazionale, fino a pochi mesi fa emissario in nome e per conto di Assad in tante capitali del mondo. Una volta, secondo Le Monde, sebbene Mamlouk fosse nella lista nera europea e quindi gli fosse proibito entrare in Europa, sarebbe pure venuto in Italia, come ebbe a sostenere il giornale libanese al-Akbar, molto vicino al regime siriano.

Con lui, alla sbarra, c’è Jamil Hassan. Chi abbia una minima idea del sistema operativo della giunta siriana sa di chi si tratta, perché amico di famiglia degli Assad: da cui il suo ruolo. Nel fittissimo reticolo dei servizi di intelligence, guidava quello dell’aeronautica, il più vicino e fidato per la famiglia al potere, posto che il capostipite, Hafez al-Assad, veniva proprio dall’aeronautica militare.

Terzo imputato è Abdel Salam Mahmoud, già direttore del ramo investigativo dei servizi segreti dell’Aeronautica.

Nessuno di loro sarà, appunto, in aula, ma non ci sarà neppure un loro legale a rappresentarli, perché il regime non riconosce qualsiasi forma di giustizia sovranazionale – e, naturalmente, nazionale – al di sopra di sé. La giustizia siriana è pura e diretta emanazione della giunta.

Il processo di Parigi – proprio per questo destinato a durare solo quattro giorni – si differenzia tuttavia da altri processi per crimini contro l’umanità svoltisi già in Europa contro figure di livello medio-basso del sistema (qui e qui). Questi imputati, più di altri, incarnano più direttamente il sistema.

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Perciò, chi ne sta parlando – non molti, purtroppo, specie nel mondo arabo – usa l’espressione «processo storico»: perché non sono, appunto, solo tre i funzionari sul banco degli imputati, ma, si può dire, che ci sia il sistema intero; ossia il nucleo della macchina di annichilimento delle libertà vitali dei singoli e della società siriana; macchina operante – come i ricorrenti in tribunale intendono mostrare – in maniera sistematica e agghiacciante, cioè, facendo, semplicemente, sparire le persone.

Nessuno può dire con esattezza quante decine di miglia di siriani siano spariti in tal modo. Gli avversari del regime – o chi tale era ed è ancora considerato (perché la cosa non è affatto finita) – viene molto semplicemente fatto sparire, per anni, o, più facilmente, per sempre.

Durante la rivoluzione siriana, quando gran parte della popolazione osò esprimersi contro questo sistema, due cittadini franco-siriani ebbero il coraggio di dissociarsi, senza, peraltro, né manifestare, né commettere alcun reato di «pubblica espressione»: ebbene, furono sequestrati per strada, nel 2013, come tantissimi altri siriani, e inghiottiti in uno dei penitenziari, il più noto e terrificante di Damasco: di loro non si seppe più nulla, sino al 2018 quando ai loro familiari venne fatto arrivare il certificato di morte, senza che ciò sia mai stato preceduto da notifiche di arresto o da notizie di sorta sul luogo di detenzione.

I familiari di Patrick e Mazen Dabbagh, però, non si sono mai rassegnati. Ora il loro impegno, sostenuto da numerose organizzazioni umanitarie e dalla legislazione francese che la rende competente per crimini contro l’umanità, sta arrivando ove loro volevano: ottenere giustizia e così impedire, o quanto meno ostacolare, la normalizzazione delle relazioni internazionali con la giunta di Assad.

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Faccio notare la modestia della reazione internazionale alla mattanza siriana, posto che la Corte Internazionale di Giustizia è stata adita soltanto nel 2023, su istanza di Canada e Paesi Bassi, perché si ponesse fine alle sparizioni dei dissidenti, e questo ben 12 anni dopo l’inizio della rivoluzione siriana. La richiesta di Canada e Paesi Bassi è stata accolta, ma ignorata da molti Stati, tanto che la Siria è stata riammessa nella Lega Araba, ai cui summit Assad ha bellamente ripreso a partecipare.

I Dabbagh dal 2013 lavorano per portare alla sbarra il sistema che ha ucciso Patrick e Mazen. Le loro vicissitudini sono incredibili da raccontare: non solo, ad esempio, non hanno potuto recuperare le salme dei loro cari perché nel 2018, quando hanno ricevuto i certificati di morte, hanno scoperto che erano già scaduti – e perciò non hanno potuto richiederle – ma si sono visti pure requisire la loro casa di residenza a Damasco.

Parlando con la stampa francese i Dabbagh hanno affermato: «oggi c’è il timore, tra la popolazione siriana, della normalizzazione tra paesi occidentali – compresa l’Unione Europea – e il regime di Assad, e di dimenticare i suoi crimini».

Ci sto riflettendo, dopo le espressioni istituzionali (europee) di cordoglio al governo e al popolo iraniano – come se fossero la stessa cosa! – per la scomparsa del presidente Raisi: al di là di una certa comprensione per l’atto formale, forse dovuto, mi corre per la schiena un brivido di timore e di terrore. Analogo di fronte ad Assad. Certo, Raisi era un Capo di Stato. Anche Assad, a suo modo, lo è. Ma come possiamo, anche solo per un attimo, dimenticare che si tratta di criminali, entrambi? Raisi è colui che ha ordinato la feroce repressione del movimento «donna, vita, libertà». Lo sanno bene anche a Bruxelles.

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