Flashback. San Diego (California), novembre 2024 – un paio di settimane dopo le elezioni presidenziali negli Stati Uniti vinte da Trump. A un panel del Meeting dell’American Academy of Religion, dedicato a evangelicali e politica, un relatore, con fare sarcastico e irridente, dice: «Questa è ancora gente che crede che il genere sia solo binario». Sommessa approvazione dei presenti, con risolini che si accendono su molti volti. Volti di chi ha perso le elezioni; volti di chi ancora crede di poter monopolizzare la cultura della Nazione.
Flashback. New York, maggio 2012. Sono seduto sul gradino di un marciapiede a Soho, vicino a me una grande impalcatura per lavori edili con gli operai in pausa. Passa una coppia di omosessuali che si tiene per mano – gli operai li guardano con derisione, in silenzio. Non appena voltano l’angolo, iniziano le battute omofobe, le stoccate al presidente Obama, l’invocazione dell’uomo forte che rimetta in asse il destino del paese – a cui l’élites hanno imposto un «negro» come «Commander in Chief».
In quel momento vidi tutta l’impotenza del diritto e compresi la scelleratezza di un progetto liberal che ne aveva fatto il suo strumento per non affrontare il cammino, irto di difficoltà, di mettere in atto processi culturali, patti sociali, che accompagnassero gli esiti avanzati della giurisprudenza.
Flashback. Milwaukee, un’aula della Wisconsin University, novembre 2006. Al termine di un seminario su Petrarca e la cultura dell’umanesimo, alcuni colleghi e colleghe mi chiedono di fermarmi per fare due chiacchiere insieme. Gli americani hanno il naso sopraffino per fiutare le tendenze politiche delle persone – insomma, avevano capito che se avessi votato negli Stati Uniti lo avrei fatto per i democratici, ero uno dei loro. A un certo punto si arriva alla sentenza della Corte Suprema «Roe vs. Wade», che riconosce i diritti della donna all’aborto.
E qui faccio una delle mie prime esperienze dell’intransigenza liberal americana, davanti a una sentenza che i miei colleghi e amici ritenevano essere eterna. Il tutto veniva risolo nell’essere «pro o contro» la sentenza, detto questo non vi era più alcuno spazio per ragionare, discutere e confrontarsi sul tema dell’aborto – e, soprattutto, sui dati statistici inerenti a esso.
Piccoli episodi di vita americana, nei quali però si possono intravedere alcune delle ragioni che hanno portato alla doppia presidenza Trump – facendo di quella di Biden niente più di un episodio (fortunato, per la nuova amministrazione, che lo manipola a piacere come capro espiatorio di tutto quello che non va).
La fine dell’America dei Kennedy
Una delle prime scelte di Trump, attraverso il suo braccio armato Elon Musk, è stata quella di chiudere USAID – l’agenzia federale che sopraintendeva al finanziamento di programmi di sviluppo e di interventi umanitari degli Stati Uniti nel mondo. A gestire la transizione è stato chiamato il Segretario di Stato, Mark Rubio. Quello di cui molti non si sono accorti è che si tratta di un ritorno al passato.
USAID era stato creato dal presidente J.F. Kennedy per distaccare, in un certo qual modo, la partecipazione globale ai programmi di sviluppo degli Stati Uniti dal governo federale – in particolare dal Dipartimento di Stato. In tal modo, si poteva creare l’effetto di una distinzione tra gli interessi americani diretti in politica estera e il contributo degli Stati Uniti alle politiche umanitarie nei paesi più poveri del mondo. Questo senza nulla togliere al fatto che USAID è stato usato, nel corso dei decenni, anche come paravento non solo per la propagazione e realizzazione non bellica dell’egemonia americana negli ultimi sessant’anni, ma anche per operazioni di intelligence e di spionaggio all’estero.
Oggi, quel che resta di umanitario e di contributo allo sviluppo nel mondo da parte dell’America torna dunque a seguire in maniera esplicita gli interessi governativi in materia di politica estera. Se è vero che la grande maggioranza dei programmi e contratti legati a USAID sono stati cancellati, a questo non corrispondono gli investimenti che rimangono in essere (intorno al 60% del budget) questi ultimi verranno ora verificati e amministrati direttamente dalla Segreteria di Stato di Rubio. Il settore maggiormente colpito dai tagli riguarda il continente africano, lasciato così praticamente nelle mani dei soli cinesi. Diversa la situazione nei paesi asiatici dove sono diretti la maggior parte dei soldi e progetti che non sono stati annullati.
Quindi, se da un lato – con i dazi prima imposti e poi temporaneamente sospesi – l’amministrazione Trump ha colpito duramente l’area asiatica, dall’altro si mantiene per essa un’attenzione geopolitica. Il problema dell’imprevedibilità, e quindi dell’inaffidabilità, delle politiche di Trump in quest’area cruciale per il XXI secolo può condurre, a detta degli osservatori più attenti, a due dinamiche di carattere contrapposto. La prima, potrebbe essere quella di un aumento di competizione reciproca tra le nazioni asiatiche, prima temperata dalla comune alleanza (Cina esclusa) con gli Stati Uniti – cosa che potrebbe spingere la Sud Corea a rimettere mano al suo programma atomico in chiave bellica. La seconda, invece, sarebbe quella di spingere i paesi asiatici, che non possono più contare sulla copertura di Washington, a intensificare i loro rapporti economici, di difesa e di mercato – anche qui con un doppio esito possibile: a protezione dell’ingerenza cinese nell’area asiatica; oppure creando canali di contatto strategici con la Cina stessa.
Vi è poi una seconda cesura radicale rispetto all’America immaginata dai fratelli Kennedy, che può essere individuata nell’aggressivo smantellamento di ogni sostegno federale a tutti quei programmi che cadono oggi sotto l’acronimo «DEI» (diversity, equity, and inclusion). La storia che oggi si raccoglie in esso è più che centenaria, potendo essere ricondotta fino agli anni che seguirono alla Guerra Civile nel XIX secolo.
Ma è con la presidenza Kennedy, e con il fratello Robert alla guida del Dipartimento per la Giustizia, che entra in gioco un quadro politico e giuridico che va sotto il nome di «affirmative action» – che mirava a implementare pratiche non discriminatorie all’interno di quelle imprese che fornivano servizi e beni al governo di Washington. Tre anni dopo, nel 1964, veniva firmato il Civil Rights Act che chiudeva, da un punto di vista legislativo, la lunga epoca dell’apartheid americana.
L’attenzione internazionale si è concentrata soprattutto sulla questione della partecipazione di atlete transgender a gare femminili in ambito scolastico, da un lato, e sull’esclusione dai vari settori delle forze armate di soldati e soldatesse transgender o arruolate sulla base dell’implementazioni di direttive concernenti la diversità, l’equità e l’inclusione – in quest’ultimo caso, generando reazioni preoccupate e di linea opposta da parte di molto ex personale militare.
Ma l’insofferenza di Trump per tutto quello che ha a che fare con i programmi «DEI», in particolare all’interno delle forze armate, ha finito per creare una condizione molto simile a quella dell’Indice (dei libri proibiti) ai tempi dell’Inquisizione vaticana. Il presidente ha infatti istruito il Segretario della Difesa, Pete Hegseth, di togliere dalle biblioteche delle accademie militari tutti i libri in cui si potesse trovare anche solo cenno a questioni legate a diversità, equità e inclusione.
Insofferenza che sembra essere legata anche a una visione prettamente maschilista (tipo machismo del Midwest) di Trump per quanto riguarda le forze armate americane – ma, forse, non solo esse. Infatti, con pretesti diversi o senza alcuna motivazione sono state rimosse dal loro incarico numerose donne che ricoprivano ruoli di leadership sia al Pentagono che sul campo.
La strategia giuridica usata dall’amministrazione Trump per fondare la pertinenza delle sue azioni volte a smantellare tutto quello che si è costruito intorno a prassi di equità, diversità e inclusione rivela qual è la vera pietra di inciampo che si vuole togliere dalle piazze della Nazione per fare grande di nuovo l’America. Si sostiene, infatti, che tutto ciò che chiama in causa il «DEI», e di conseguenza l’affirmative action di kennedyana memoria, è eo ipso discriminatorio – in particolare, discrimina i cittadini bianchi (maschi). Ecco le vere vittime degli ultimi sessant’anni di storia americana – sacrificate da quei sacerdoti della giustizia che furono i fratelli Kennedy.
Se gli ispanici, a prescindere che siano presenti sul territorio del paese in maniera legale o meno, si possono deportare in massa (senza giusto processo, anche quando questo sarebbe loro dovuto costituzionalmente) magari ricorrendo a una legge del XVIII secolo, gli afro-americani e le donne, gli omosessuali e i transgender (come persone reali e non come categorie ideologiche, a cui sono stati talvolta ridotti da una certa ideologia culturale liberale), vengono ora ricondotte allo stato di persone non grate attraverso una specie di internamento politico che impedisce loro, o desidererebbe impedire, di potersi affacciare sulla scena pubblica della Nazione grazie a opportune tutele giuridiche e sociali.
Dietro l’ammiccante (per molti americani) crociata trumpiana contro i nuovi diritti individuali si nasconde il vero nemico che l’amministrazione vuole debellare una volta per tutti: ossia quei diritti civili e sociali che la Nazione americana, dopo un lungo e doloroso cammino, aveva riconosciuto essere parte integrante a cui non poteva più rinunciare.
Dietro tutto questo, il sogno di Trump è quello di generare in provetta il nuovo native American: bianco, ricco, di successo, cristiano – obbediente al suo creatore a cui deve tutto, poiché lo ha generato alla Terra Promessa attesa invano dalle stolte generazioni precedenti.
Non senza un certo cinismo, Trump ha chiuso definitivamente la porta in faccia all’America che i fratelli Kennedy riuscirono a imbastire in pochissimi anni, proprio reclutando Robert F. Kennedy, figlio di Bob e nipote di John, all’interno del suo gabinetto affidandogli la guida del Ministero per la salute e i servizi umani.
Il potere esecutivo del Presidente
L’ampiezza e discrezionalità del potere concesso al presidente degli Stati Uniti si radica sia nella lettera del dettato costituzionale, sia nel modo in cui esso è stato interpretato nel corso della storia americana. Nella consapevolezza che la soglia tra discrezionalità (democratica) e arbitrarietà (regale) può diventare imponderabile, il sistema americano ha cercato di provvedere delle strutture di bilanciamento e controllo dell’esercizio del potere esecutivo presidenziale.
Il ruolo elitario delle due camere del Congresso, ben distinto dal senso comune della gente americana (ritenuta dai padri fondatori inaffidabile e persino pericolosa per la sussistenza dell’esperimento democratico statunitense), dovrebbe rappresentare il perno centrale di una interlocuzione dialettica, e non supina, col potere presidenziale. Questo soprattutto se si tiene conto della «strana» indipendenza di un potere giudiziario dove, a livello federale, si procede per nomine presidenziali – questo fino al sancta sanctorum della Corte Suprema.
Quando, tra contingenze politiche e strategia di governo, si crea un perfetto allineamento tra presidenza, Congresso e Corte Suprema, il meccanismo di check and balance può entrare in crisi – o può essere indotto ad annullarsi in ragione di un’osservanza devota della volontà del Presidente.
Questa seconda ipotesi è quella che sembra oggi gettare ombre lunghe e minacciose sulla democrazia statunitense. L’imperialismo di Trump ha eroso ogni distinguo tra il suo potere e quello legislativo dei repubblicani che occupano gli scranni del Congresso; che, a sua volta, ha fatto implodere quella politica di concertazione bipartisan che funzionava come bilanciamento procedurale del Congresso nei confronti del governo federale.
La sudditanza dei membri repubblicani della Camera dei Rappresentanti si è resa evidente nei molti Town Hall Meeting in cui essi sono stati confrontati, dopo l’imposizione di dazi su scala globale, da quelli che potremmo definire gli elettori repubblicani popolari e tradizionali. Davanti alle rimostranze e critiche, che in altre congiunture sarebbero state recepite come chiaro voto di sfiducia in vista delle elezioni di mid-term, i politici repubblicani non si sono scostati di un millimetro dal loro devozionale attaccamento al Presidente: alla sua volontà, alle sue scelte, alla mancanza di argomenti che possano renderle plausibili per una grande fetta della gente che li ha eletti a rappresentarli. Come se i repubblicani che siedono nella Camera dei Rappresentanti non debbano preoccuparsi della loro rielezione, perché questa non potrà essere messa in pericolo dalla volontà popolare – ma solo da quella presidenziale.
Quella americana non è più una democrazia funzionante, come continua a pensare l’élite democratica a Washington, ma si è trasformata in una vera e propria democrazia distopica – e, questo, rimanendo nel quadro normativo disegnato dalla Costituzione. Come se in essa, e in nome di essa, fosse iscritta, fin dalle origini, la sua distorsione – o meglio, come se gli sviluppi storici della democrazia americana, e le interpretazioni giuridiche del dettato costituzionale, fossero stati essi un vero e proprio percorso di distorsione e allontanamento dall’idealità fondativa. È a questo che si appiglia l’originalismo di Trump, quel suo «di nuovo» di una grande America.
È nel quadro di questa ambiguità costituzionale che deve essere letto l’uso spregiudicato del potere esecutivo da parte dell’attuale Presidente. Mediante l’orgia di decreti esecutivi, e con lo scompigliamento delle scelte geopolitiche, Trump ha creato in una manciata di mesi un vero e proprio «stato di eccezione» – dichiarando gli Stati Uniti uno stato sotto assedio, attaccato da una congiura di potenze avverse. Gli immigrati senza documenti, quelli che presuntivamente appartengo a gang che attaccano l’ordine americano, il commercio mondiale, il Canada e il Messico, la NATO e l’Unione Europea, e finanche la Cina, non sono i soggetti di una preoccupazione politica, strategica, militare, da parte dell’amministrazione americana, ma meri strumenti che Trump sta usando per ragioni di politica interna – per creare quello stato di eccezione che corrisponde alla sua volontà esecutiva di potere.
Chi giudica la legge?
L’attuale Corte Suprema ha come creato le condizioni ambiente di quel senso di supremazia che caratterizza la seconda amministrazione Trump nei confronti del potere giudiziario. Con la sentenza del primo luglio 2024 ha sostanzialmente garantito una immunità presidenziale pressoché totale. Se in prima battuta questa sentenza è servita a chiudere i vari procedimenti giudiziari contro l’allora ex-presidente (in particolare quelli riguardanti il suo operato in occasione dell’atto al Campidoglio di Washington il 6 gennaio 2021), essa ha di fatto finito per sottrarre la persona del Presidente da ogni giudizio giuridico.
L’insofferenza imprenditoriale di Trump verso i giudici ha quindi trovato un appiglio per trasformarsi in pretesa di supremazia sul potere giudiziario – che, fin dai primi decreti esecutivi, ha messo in dubbio la legalità o costituzionalità di alcuni di essi. Al di là dei singoli casi, l’attuale amministrazione ha messo radicalmente in dubbio la liceità d’intervento dei giudici federali rispetto al potere del Presidente. Il sillogismo esplicativo della supremazia legale degli atti del Presidente Trump, che devono godere il diritto di immunità a fronte di qualsiasi intervento giuridico, è stato declinato davanti all’opinione pubblica americana dalla portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt più o meno in questi termini: per chi lavorano i giudici federali? Per il Dipartimento della Giustizia. Chi è a capo del Dipartimento della Giustizia? Il Procuratore generale Pam Bondi.
Sottointesa la dipendenza del giudiziario al potere esecutivo del Presidente. Piuttosto che ricorrere ai vari gradi di giudizio dei tribunali federali, l’amministrazione Trump ha scelto la via breve dei ricorsi urgenti presso la Corte Suprema – accumulando in pochi mesi il numero medio totale di ricorsi di questo tipo di altre amministrazioni statunitensi nell’arco di un quadriennio. Questo tipo di ricorso tende a snaturare il lavoro della stessa Corte, in quanto per tradizione in casi come questi non produce una sentenza articolata, che permetterebbe una costruzione adeguata della giurisprudenza, ma si limita a emettere un’ordinanza che risolve in via temporanea la questione posta. Questo però non impedisce alla Corte Suprema, anche nel caso riconosca parzialmente il ricorso del governo, di dare a esso chiare indicazioni di procedimento – come avvenuto nel caso di Kilmar Alberigo Garcia deportato a causa di un «errore amministrativo» in un carcere di massima sicurezza di El Salvador. La Corte ha infatti confermato all’unanimità il senso della decisione presa da un giudice federale che chiedeva al governo di attivarsi efficacemente per il rimpatrio, riconoscendo d’altro lato che il giudice potrebbe aver superato l’ampiezza della sua autorità.
Un’opinione salomonica a prima vista, che cerca sia di salvare i diritti lesi della persona espatriata sia di circoscrivere lo spazio di azione dei giudici federali sulle scelte operative dell’amministrazione. Ma è proprio quest’ultimo punto che chiede di uscire dal condizionale, per fare chiarezza su come la Corte Suprema concepisca il bilanciamento tra potere esecutivo e quello giudiziario.
Dietro questa soluzione bifronte aleggia l’imbarazzo, e talvolta l’irritazione, di parte della Corte Suprema davanti alle pratiche aggressive dell’amministrazione e dei repubblicani verso il settore giudiziario. Nel giorno in cui Trump aveva esplicitamente chiesto l’impeachment di un giudice federale reo di aver richiesto la sospensione temporanea delle deportazioni verso El Salvador di venezuelani presunti appartenenti a gang criminali, il presidente della Corte Suprema Roberts, in maniera del tutto inusuale, ha sentito necessario di intervenire con una breve dichiarazione scritta: «Da più di due secoli è stato stabilito che l’impeachment non è la risposta adeguata se non si è d’accordo con una decisione giuridica. Il normale processo di appello per una revisione esiste esattamente per questo».
Nonostante la maggioranza dei giudici della Corte Suprema sia simpatetica nei confronti di Trump, se non altro per avergli cucito addosso un senso di completa immunità, non è detto che essa sia disposta ad abdicare al proprio potere per diventare una semplice segreteria giuridica che avvalla la volontà del Presidente. La dichiarazione di Roberts pare andare proprio nel senso della salvaguardia del privilegio giuridico della Corte Suprema, più che in quello di una subordinazione completa del potere giudiziario a quello esecutivo. Rimane però il fatto che il ricorso alla tradizione giuridica, invocata da Roberts, può essere efficace solo all’interno di una democrazia funzionante, ma rischia di rimanere una pia illusione in quello distopico attualmente in vigore negli Stati Uniti.
Educazione e sapere sotto assedio
In ottemperanza al Project 2025. Presidential Transitional Project della Heritage Foundation ha dato mandato alla Segretaria per l’Educazione Linda McMahon di provvedere allo smantellamento del Dipartimento per l’Educazione (per la sua chiusura formale sarebbe necessario un passaggio in Congresso dove probabilmente non si raggiungerebbe la maggioranza necessaria). La competenza totale, quindi anche finanziaria, sull’educazione passerà ai singoli stati americani che, però, sono quasi tutti in deficit e non hanno quindi le risorse necessarie per mantenere attivi tutti i servizi scolastici attualmente in essere.
Questa misura colpisce in modo particolare tutto quel ceto americano che non si può permettere di mandare i propri figli/e a scuole private – tra cui spiccano quello afro-americano e quello ispanico. Le conseguenze immediate sono chiusura di scuole, in particolare nelle zone più povere o in quelle rurali del paese; classi sempre più grandi, nelle quali sarà praticamente un’adeguata mediazione pedagogica del sapere e un’effettiva formazione umana degli studenti e studentesse; riduzione significativa del numero del corpo insegnante; chiusura di programmi e attività formative non accademiche offerte dalle scuole – e molto altro.
Questo intervento ha poi una prima conseguenza diretta anche per le università, in quanto mette in questione e lascia una zona d’ombra discrezionale per ciò che concerne i prestiti federali per il pagamento delle rette universitarie da parte degli studenti e alle università (pubbliche e private) per ciò che concerne la creazione di borse di studio.
Mirata è poi la strategia dell’amministrazione Trump contro, al momento, alcune università simbolo del paese (tra cui Columbia, Princeton, Cornell, Penn State e da ultimo Harvard) – bloccando miliardi di dollari di finanziamenti federali per la ricerca e minacciando di tagliarli definitivamente se le università colpite non si fossero adeguate completamente al mandato ricevuto per riattivare i finanziamenti.
Trump è sostanzialmente un’affarista guidato unicamente dalla logica del profitto, ed è questa logica che lo ha convinto ad intervenire in maniera ricattatoria verso grandi studi legali che avevano portato avanti cause contro di lui nel quadriennio passato tra le due presidenze, da un lato, e contro le università. La strategia si è rivelata completamente vincente sul versante degli studi legali, che hanno raggiunto accordi extra-giudiziari con l’amministrazione pur di non vedersi dissanguati a livello finanziario. Lo stesso è avvenuto con le università, finché quella di Harvard ha deciso di rifiutare il testo base di negoziazione che aveva ricevuto dall’amministrazione Trump.
Il pretesto prossimo per questa ingerenza federale sulla libertà accademica e di ricerca a livello universitario è stato quello della (cattiva) gestione nei campus americani delle manifestazioni pro Palestina (e contro Israele) seguite allo scoppio della guerra a Gaza – con atti di antisemitismo e attacchi contro studenti ebrei. Ma appunto, si tratta di un pretesto per assumere di fatto il controllo e la dirigenza delle università chiamate in causa da parte dell’amministrazione Trump.
Nel comunicare alla comunità universitaria la decisione presa di non piegarsi alla volontà dell’amministrazione, il presidente della Harvard University Alan Garber ha scritto: «Vi invito a leggere la lettera dell’amministrazione per comprendere in pieno le richieste fatte dal governo federale per controllare la comunità di Harvard. Esse includono la richiesta di “ispezionare e controllare” i punti di vista degli studenti, dei docenti e del personale non docente; e di “ridurre il potere” di certi studenti, facoltà e amministratori che sono presi di mira a motivo delle loro visioni ideologiche. Abbiamo informato l’amministrazione, attraverso i nostri rappresentanti legali, che non accettiamo l’accordo che ci è stato proposto. L’Università non rinuncia alla sua indipendenza e non cede i suoi diritti costituzionali (…). Nessun governo – a prescindere da quale sia il partito al potere – dovrebbe dettare ciò che un’università privata può insegnare, chi può accogliere come studente o assumere come docente, e quali aree di studio e ricerca deve perseguire».
L’amministrazione Trump ha chiesto, inoltre, ad Harvard di consegnare tutta la documentazione dei processi di ammissione degli studenti (americani e stranieri) e di selezione dei docenti a partire dal 2025. Di comunicare immediatamente al governo federale tutti i dati degli studenti che compiono un’infrazione del codice di condotta. Di sospendere ogni programma, insegnamento, attività di ricerca, che tocchino questioni legate alla diversità, equità e inclusione – e altro ancora sempre di questo tenore. Insomma, per dirla con le parole di Garber, «la maggioranza delle richieste rappresenta una diretta regolazione federale delle “condizioni intellettuali” presso l’Università di Harvard».
Cosa resta?
Al momento, alcune isolate cellule di resistenza – come nel caso di Harvard rispetto alle scelte accondiscendenti fatte da altre università della prestigiosa Ivy League. Forse il desiderio (combattuto) di non passare alla storia come coloro che hanno rinunciato al potere supremo da parte della Corte costituzionale americana. Lo scontento e la rabbia di molti elettori repubblicani, che però non sembra impensierire e preoccupare in nulla i loro rappresentanti al Congresso. Il mondo del business e della finanza, ma solo quando sono toccati nei loro portafogli.
Il tentativo di Sanders e Ocasio Cortez di salvare il Partito Democratico da sé stesso e dalla propria impotenza procedurale, riagganciandosi al vissuto effettivo della gente (cosa che i democratici non hanno coltivato per decenni) – che ha già i contorni di un movimento civile trasversale per il bene di tutti gli americani e non solo di alcuni.
Forse troppo poco davanti a quello che è già successo. Stravolgendo l’ordine mondiale, Trump ha mostrato che il XX secolo non è stato né la «fine della storia» né il «secolo breve», ma un secolo lunghissimo che solo ora è finito per sua mano.
Troppo poco davanti all’evidenza che non si può costruire un nuovo ordine mondiale con il fiuto di un palazzinaro newyorkese.
L’opinione pubblica internazionale, i governi e gli stati, le grandi istituzioni globali, si sono interessati alle ricadute esterne della politica di Trump – ed è comprensibile. Ma bisogna cercare di capire cosa sta succedendo dentro l’America per riuscire a navigare le acque divenute tempestose delle relazioni internazionali. È il Trump che non cerca fiducia né alleati che deve essere preso sul serio.
Lo stato di eccezione che gli è stato e si è cucito addosso gli consente oggi di immaginarsi come l’ultimo Presidente degli Stati Uniti – forse questo potrebbe essere un punto di partenza per uscire da una navigazione a vista che ci ha portato ai margini di un gorgo pronto a inghiottire il mondo così come lo abbiamo conosciuto fino a oggi.
Credo che finalmente qualcuno, grazie a Trump, avra’ un quadro chiaro del degrado complessivo del paradigma politico, culturale e morale americano. Anche l’apologia dei Kennedy e’ patetica e stucchevole. Dal massone George Washington in poi, tra schiavismo, genocidio dei nativi, guerre civili e non, esaltazione delle armi e della violenza, non c’e’ nessun motivo per elevare gli esportatori di democrazia ad esempio da seguire. Questa moderna Babilonia e’ il buco nero del pianeta e non riesco a percepire un filo di speranza per vedere la fine di tale infernale congrega di bestie siano esse dem o repubblicans. Se volessero farci un regalo potrebbero ammazzarsi tra loro, velocemente ed in modo totale e definitivo.
Non ho capito il senso dell’articolo. A me pare che, per dirla con le parole di Cacciari, le questioni di “genere” (tipicamente post moderne nel loro approccio post fattuale) , siano diventate un totem. E come tale, in quanto simbolo puramente politico, vengano abbracciate o contestate. Successe con i jeans o con il rock ai tempi dello scontro con il comunismo sovietico. Ovviamente essendo lo scontro interno fortemente polarizzato, fortemente radicalizzato e polarizzata è anche la risposta avversa. Da sempre ad una rivoluzione segue una controrivoluzione. Arendt diceva che il guaio delle rivoluzioni è che finivano per portare ad un sistema legale più rigido di quello che si era infranto…