
P. Alberto Joan Pari, francescano, è direttore dell’Istituto Magnificat di Gerusalemme, un luogo di incontro delle religioni monoteiste nel segno del canto e della musica liturgica antica.
- Padre Alberto, lei non ha perso la cadenza bresciana, nonostante la sua permanenza quasi ventennale a Gerusalemme! Qual è la sua storia?
Dopo la laurea in Scienze della Formazione, conseguita in Italia, mi sono trasferito a Gerusalemme, dove ho studiato teologia, Sacra Scrittura e archeologia biblica. Da una ventina d’anni vivo negli alloggi della Custodia Francescana, e sono il responsabile dell’ufficio stampa. Ho anche altri ruoli: insegno giudaismo ed ebraico biblico al Seminario Teologico dei frati di Gerusalemme, dirigo l’Istituto di musica Magnificat e sono incaricato del dialogo ecumenico e interreligioso.
Quest’ultima mansione è particolarmente impegnativa qui in Terra Santa, soprattutto in quest’ultimo periodo, dopo l’inizio della guerra nell’ottobre 2023.
- Fino a che punto si può parlare di dialogo ecumenico e interreligioso in una realtà così complessa, dove sono presenti le più ampie varianti delle tre religioni monoteiste, e non solo?
Da circa una decina d’anni faccio parte della Commissione per il dialogo interreligioso ed ecumenico dell’Ordine dei Frati minori e seguo i contatti con le varie confessioni cristiane in Medio Oriente, ma soprattutto a Gerusalemme. La poca conoscenza reciproca crea diffidenza, se non aperta ostilità; dunque, il primo passo è promuovere occasioni di incontro.
Nell’ambito della Sacra Scrittura, è nata un’iniziativa che promuove lo studio condiviso tra cattolici ed ebrei. Durante gli incontri mensili si leggono insieme e si commentano alcuni brani biblici e le interpretazioni di studiosi provenienti da ambo le parti, dagli eminenti rabbini del passato ai Padri della Chiesa. Abbiamo terminato lo studio del Pentateuco, cioè dei primi cinque libri della Bibbia, stupendoci della ricchezza del testo e integrandoci nelle reciproche nostre conoscenze. Stiamo proseguendo con lo studio dei Salmi.
Lo sguardo, però, deve saper anche andare lontano. La scorsa primavera ho incontrato i miei omologhi a Tokyo e a Nagasaki, in Giappone, ed è stato entusiasmante confrontarsi con i responsabili delle Chiese cattoliche dell’Estremo Oriente: francescani come me, che lavorano per sensibilizzare e promuovere iniziative d’insieme, incontri e attività da realizzare, poi, negli specifici paesi di missione.
Abbiamo predisposto materiali utili ai confratelli per favorire laboratori di pace. Crediamo fermamente nel valore della formazione, ma niente sostituisce il prezioso apporto dei frati nella concretezza delle differenti culture. È importante che ci si senta parte di un tutto, dove si può trovare supporto e conforto. Utile, inoltre, il confronto con il mondo buddhista e scintoista, le loro spiritualità, liturgie, tradizioni.
- L’Istituto Magnificat di Gerusalemme è una realtà unica nel panorama mediorientale…
Lo è, davvero. Si tratta di una scuola di musica nel convento di San Salvatore, sede della Custodia Francescana, dunque in piena Città Vecchia. Proprio nel 2025, quest’anno, ricorre il trentennale di fondazione. Contiamo più di duecento allievi; se volessimo considerare le presenze degli studenti in approssimative percentuali, potremmo dire i cristiani sono circa il 70%, i musulmani il 20% e il restante 10% è formato da ebrei.
Una trentina gli insegnanti: la grande maggioranza ebrei, pochi cristiani (ex studenti dell’Istituto) e una musulmana. L’alto livello di preparazione è garantito dalla convenzione con il Conservatorio “Arrigo Pedrollo” di Vicenza, con cui vi sono scambi in occasione degli esami. Da noi si imparano i segreti di tutti gli strumenti a fiato e ad arco, dall’oboe alla viola, ma anche pianoforte e percussioni. Curiamo un’importante rassegna organistica e promuoviamo l’animazione delle liturgie dei più importanti momenti ecclesiali a Betlemme e a Gerusalemme; recuperiamo, in questo, il primo obiettivo del fondatore, il francescano Armando Pierucci: fu lui a raccogliere intorno a sé alcuni cristiani e a insegnare i canti per i servizi al Santo Sepolcro e alla basilica di Betlemme.
Da qualche anno sono il direttore del Magnificat; canto come tenore nel gruppo vocale dell’Istituto. Sono pure musicista: suono il flauto e la cetra, strumento antico e di lunga tradizione qui in Israele: anche il re Davide ne era appassionato.
- Pensa che la musica sia, in qualche modo, portatrice del dialogo?
Certamente. La musica è un linguaggio universale che parla all’anima, supera le barriere culturali, insegna ad accogliere e a lavorare insieme. Da noi sono accettate persone che vogliono studiare, non importa quale sia la cultura o la religione di appartenenza.
Non nascondo, però, le difficoltà emerse dopo il 7 ottobre 2023. Subito dopo i giorni dell’attacco, quando la nazione era sotto shock, abbiamo dovuto affrontare momenti dolorosi, come quando alcune alunne palestinesi, dunque cristiane e musulmane, si sono rifiutate di partecipare alle prove d’orchestra diretta da un insegnante ebreo. Con pazienza, abbiamo riflettuto sulla musica generata insieme quale dono prezioso di bellezza, a contrastare l’orrore che ci circondava.
- Può dire delle occasioni di tensione che avete vissuto?
Molti sono gli episodi che hanno messo a dura prova la convivenza pacifica delle culture di provenienza dei nostri insegnanti e studenti. Ne riporto un paio.
Un insegnante di percussioni aveva diffuso una locandina di un suo concerto, dal titolo Preghiera per Israele. Questo ha suscitato un forte risentimento soprattutto tra alcune famiglie, che hanno sollecitato l’opportunità di inserire anche la componente palestinese. Ne è risultata una diatriba infinita, fino a quando ho imposto a tutti di evitare discussioni politiche all’interno della scuola.
In un’altra occasione, uno dei nostri studenti è arrivato a lezione indossando la divisa militare, armato, fortunatamente, soltanto del suo strumento, una chitarra: fu accertato essere un semplice atto di disattenzione, ma che causò sconcerto: gli chiedemmo di venire sempre in abiti civili.
Non è facile. In Istituto, ovviamente, arrivano gli echi di quello che accade fuori. Il problema della mancanza di lavoro, ad esempio, che pesa sempre di più sulle famiglie; e, ancora, l’aumento delle violenze dei coloni in Cisgiordania, la revoca dei permessi di spostamento per i palestinesi, i posti di blocco mobili e improvvisi che impediscono il regolare flusso delle auto. È proprio in questi momenti, però, che nascono situazioni spontanee di collaborazione e aiuto, impossibili solo in apparenza. Un semplice esempio: una staffetta di giovani universitari per recuperare generi alimentari dai supermercati israeliani e consegnarli alle famiglie di Gerusalemme Est rimaste senza scorte, con la chiusura dei loro negozi nei primi mesi di guerra.
Il nostro ruolo di religiosi è delicato, deve essere sempre diplomatico. Abbiamo deciso di aprire le nostre case per pellegrini – vuote per l’interruzione dei viaggi – agli sfollati dei bombardamenti, e istituito centri di raccolta di beni basilari per i bisognosi: impegno, presenza, preghiera e, sempre più difficile, il senso del perdono quale esempio per ebrei e musulmani; e speranza. Non dobbiamo mai arrenderci allo sconforto, questo è il messaggio.
- L’Ensemble “Nuria”, in cui lei canta, è stato a Mantova prima della Pasqua di quest’anno. Cosa vi ha portato proprio nella mia città?
Da qualche anno collaboro come cantante con l’Ensemble Nuria, (termine che significa “luce” sia in ebraico che in arabo): obiettivi del gruppo sono la ricerca, lo studio e l’esecuzione della musica ebraica, eseguita in Italia nel periodo rinascimentale e barocco. Ne fanno parte musicisti di diversa provenienza; la fondatrice, Ayela Seidelman, è di origine canadese, ha studiato violoncello a Gerusalemme e in Italia. Abbiamo ottenuto il riconoscimento del Ministero della Cultura e sul nostro sito si possono ascoltare ed acquistare le registrazioni delle nostre esecuzioni.
A Mantova siamo stati accolti con gioia e calore da Agorà delle Religioni, coordinato da don Samuele Bignotti, e abbiamo condiviso un concerto con un coro locale nella basilica di Santa Barbara. Il nostro scopo primario era, comunque, poter registrare alcuni brani di Salomone Rossi, musicista nella rinascimentale Mantova gonzaghesca. Influenzato da Monteverdi, Rossi introdusse la polifonia nella liturgia sinagogale ebraica. Molti suoi brani sono stati composti per la sinagoga Norsa ed è per questo motivo che abbiamo fortemente voluto tornare là dove la musica è stata composta, anche se sappiamo che l’edificio attuale è stato ricostruito.
- Perché questo interesse per la produzione ebraica italiana?
La musica italiana barocca viene generalmente suddivisa in tre categorie. La prima è quella delle comunità ebraiche discendenti dalla diaspora e portate a Roma dopo la distruzione del Tempio nel 70 d.C.: è, ovviamente, la tradizione più antica; da qui, l’affascinante ipotesi che, addirittura, le preghiere fossero collegate ai riti precedenti l’esilio. Un secondo gruppo riguarda la comunità Sefardita, proveniente dalla Spagna e dal Portogallo, giunta in Italia in seguito all’Inquisizione, mentre le melodie Aschenazite sono legate agli ebrei di origine tedesca, esiliati dopo il secolo XV. Infine, una terza categoria è rappresentata dalle comunità stabilitesi nell’Italia nord-occidentale dopo l’espulsione dalla Francia nel XIV secolo.
Noi mettiamo grande cura nel recupero delle radici comuni e nello studio dell’influenza reciproca nei vari contesti religiosi e culturali. La tragedia dell’Olocausto ha, di fatto, distrutto molti spartiti e solo grazie ad appassionati, come l’etnomusicologo Leo Levi, si sono potute recuperare melodie che ancora oggi restano sconosciute anche al pubblico di specialisti.
- In questi mesi di guerra – tra le mancate tregue e le tragedie di Gaza e degli ostaggi – quali prospettive intravede?
Abbiamo in cantiere alcune iniziative significative. A fine maggio, per esempio, terremo un concerto presso il teatro dello YMCA. L’occasione è data dai festeggiamenti per il trentennale di fondazione del Magnificat e si esibiranno l’orchestra dell’Istituto e tutti i cori della scuola. Il luogo non è casuale: l’edificio fu costruito per essere un centro di incontro tra ebrei, musulmani e cristiani e anche la sua architettura rispecchia questo intento: i corpi centrali del teatro e del palazzetto dello sport richiamano gli elementi di una moschea e di una sinagoga. La torre campanaria ricorda un minareto, e le campane si suonano tramite uno strumento che ricorda l’organo, strumento unico in Medio Oriente. Al concerto sono invitati esponenti delle varie Chiese e i diplomatici presenti a Gerusalemme. Un altro progetto a cui teniamo molto è la collaborazione con l’ABF, acronimo della Fondazione Andrea Bocelli: la creazione di un coro per unire i bambini di Betlemme e quelli di Gerusalemme.
Servirà molto tempo, serviranno molti anni e molte energie da tutte le parti coinvolte per superare le fratture. Non sappiamo ancora quali traumi dovremo affrontare. Noi, al Magnificat, siamo pronti a fare la nostra parte; l’Istituto era un importante luogo di incontro prima del conflitto, a maggior ragione deve mantenere il suo ruolo e, addirittura, diventare un centro di terapia della bellezza della vita in questa terra santa e martoriata.





