Il Padre di Gesù e nostro

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abbraccio

La docente di Esegesi presso l’Istituto Teologico Marchigiano (Pontificia Università Lateranense) e presso l’Istituto superiore di Scienze religiose di Rimini è autrice di vari libri di carattere biblico ed è un’apprezzata relatrice in vari convegni. La Chiesa ha insegnato a credere in Dio come Padre. Ma come percepirlo e trasmettertene l’esperienza nel mondo attuale? Il nostro contesto offre una figura paterna problematica, dove, da una parte del mondo, sembra che gli uomini non abbiano più bisogno né voglia di crescere figli, mentre, dall’altra, i figli sono troppi ma i loro padri non sono in grado di crescerli per la fame, la sete e la guerra.

Cosa pensa, oggi, un cristiano quando si rivolge a Dio come Padre? «Può bastare – si chiede l’autrice – polarizzare le figure di un padre immanente e uno trascendente? Credo che le due dimensioni non possano essere separate nell’anima di una creatura umana. Per pensare a Dio Padre che sia Padre di tutti, luogo di cura e di pace tra figli e figli, tra amici e nemici, è importante vedere l’esempio di chi crede e vive lo stesso amore. Possono essere sorelle, fratelli, stranieri, vicini di casa, amici o conoscenti, infermieri, docenti, giudici e governanti: dall’amore che usano li riconosceremo come padri» (p. 14).

Nella Bibbia, Dio si prende cura dei poveri, delle vedove e degli stranieri senza patria. Oggi la Chiesa tutta – e non solo le persone con carismi e ministeri speciali che si fanno chiamare «padri» – è debitrice della paternità, «di essere quell’angelo sognato che apre il cielo sulle notti degli orfani» (ivi).

Dio Padre onnipotente

Virgili apre la sua opera (Il Padre, San Paolo, Cinisello Balsamo 2025) con un breve capitolo in cui riflette sulla formula «Credo in Dio Padre onnipotente» (pp. 15-20), soffermandosi sul fatto che Gesù, che rivela il Padre, è rivolto verso il seno del Padre in intimità affettuosa e lo manifesterà nella sua vita fra gli uomini. Il Padre invia il Figlio in una missione di salvezza e gli darà vita nuova con la risurrezione. Il Padre è fonte e fine di tutte le cose.

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La paternità in Israele

La studiosa si sofferma quindi sulla paternità in Israele (pp. 21-106).

Riflette, innanzitutto, sui pilastri della paternità in Israele, articolando il suo pensiero in diversi paragrafi: trasmettere il nome del padre, non disperdere il seme, padri e proprietà, padri e patria, le parole dei padri.

Il paragrafo successivo è dedicato ai patriarchi: Abramo, Isacco, Giacobbe. Di essi l’autrice mette in luce la loro dignità e le loro debolezze: la circoncisione; la debolezza della paternità; un padre a metà (Isacco nei confronti di Esaù e Giacobbe); luci e ombre; due padri per figlio (Elkanà e il sacerdote Eli nei confronti di Samuele).

Ci si sofferma quindi sui vizi e sulle virtù dei re (padri) di Israele. Si passano in rassegna gli errori di Saul; Davide e la sua umiltà di ascoltare; figli e dolori (Davide e i suoi figli Adonia, Assalonne…); i padri-pastori di Israele furono un esempio di paternità negativa, come ben descrive Ezechiele nel c. 34 del suo libro.

Circa la maternità e la fraternità, Virgili sottolinea la forza del femminile (le levatrici in Egitto, la madre e la sorella di Mosè). Ci sono i figli meticci (i nipoti di Noemi nel libro di Rut, Obed figlio di Rut e di Booz…).

La fraternità viene descritta come ferita con Esaù e Giacobbe, ma alla fine ritrovata e ricostituita, anche in Egitto tra i figli di Giuseppe. «Le promesse fatte ad Abramo, che né Isacco né Giacobbe erano riusciti a realizzare coi loro munera di paternità venivano realizzate dalla riconciliazione tra figli» (pp. 105-106).

Dio Padre?

Il terzo capitolo del libro si interroga: Dio Padre? (pp. 107-148).

La riflessione si sviluppa tra la paternità di Dio, il «comandamento» di onorare il padre e la madre, l’invito sapienziale «Ascolta, o figlio», Israele «seme di Dio»; un’eredità aperta a tutti, con il Padre che resta a vigilare su come i figli di Israele condivideranno l’eredità di Dio, come abiteranno la terra e condannerà il comportamento dei figli che si corromperanno.

Dt 26,1-9.16-17 riporta le parole del testamento, che ricorda i benefici di Dio per il suo popolo, i quali si ricapitolano nel dono della terra.

Se Dio si mostra un padre tenero e attento alla cura dei figli, non sempre il suo amore e il suo impegno vengono da loro ripagati. Is 1,3-4 esprime il rimprovero verso i figli di Israele ribelli al loro Dio, denunciati come Sodoma e Gomorra e invitati alla discussione, in cui i peccati rossi come scarlatto diventeranno bianchi come neve (cf. Is 1,18).

In un ambiente in cui le figlie non valevano come i maschi, Dio Padre ha cura anche delle sue figlie. Il suo comportamento è come quello di un angelo. Dio protegge il suo popolo (Ez 34,6-7), Agar (cf. Gen 21,15-21) e l’intero popolo di Israele visto come una giovane ragazza raccolta nel campo e cresciuta con tutti gli onori (cf. Ez 16,2-14). Dio padre si comporta in modo diverso dai padri umani.

La storia di Dio Padre di Israele è segnata da molte ferite, la più grande delle quali è la caduta di Gerusalemme e la deportazione dei figli di Dio. Lam 1,1-6.12-21 alza il suo lamento sulla città desolata e sull’intera comunità dei figli di Dio.

Gerusalemme riconosce di essere stata punita giustamente. È un esempio delle stragi dei figli e del dolore del padre. Ma Dio prova dolore? Certo – risponde Virgili –. Dio non accetta e non si rassegna a che i figli facciano tanto male a sé stessi. Dio si prende cura di quelli di cui nessuno si interessa, creature scartate e mercificate.

Dio è Padre della Gerusalemme periferica, popolare, sotterranea, quella dove ci sono le discariche. Invia il profeta Geremia a compiere il gesto simbolico del vaso rotto, per significare l’abomino compiuto dai re di Israele e dal popolo, con il sacrificio dei figli e l’idolatria (cf. Ger 19,1-9). Ez 37 racconta come Dio assolve la sua paternità non scavando tombe, ma facendo rivivere le ossa secche del suo popolo straziato.

Il Dio di Israele è un Padre che spera. Lo afferma Ez 16,60-63. Anche Ger 30,5-7 parla di un Dio Padre che spera l’impossibile, la ricostruzione delle brecce di Gerusalemme. È l’inizio del Libro della Consolazione del profeta Geremia. Nulla è impossibile a Dio (cf. Lc 1,37). L’impossibile dei figli è la speranza di Dio.

Il Padre di Gesù

L’ultimo capitolo del volume si incentra su Il Padre di Gesù (pp. 149-202).

Un primo paragrafo annota la presenza di una doppia paternità, divina e umana. È presente un padre adottivo, con Giuseppe che è testimone di una grande dignità e paternità presso il figlio di Dio, Gesù. Virgili cita i ricchissimi nn. 1-2 della lettera apostolica Patris corde pubblicata da papa Francesco l’8 dicembre 2020 sulla figura di Giuseppe.

Gesù nasce senza un padre “biologico”, ma la sua nascita nel corpo di una donna denuncia poi l’assenza e la lunga attesa dell’Emmanuele, del Dio-con-noi (cf. Is 7,14; Mt,1.23) che Israele non sentiva e non aveva più. «L’Emmanuele si presenta come Dio nel corpo di un figlio – annota l’autrice –. Di qualcuno cioè, che chiede un Dio Padre. Il volto di Dio cambia: mentre, in passato, il suo Volto si formava sulla parola della Torah, ora si forma a partire dal Figlio, dal suo bisogno di paternità, dalla sua supplica, dalla sua protesta» (p. 163).

Il battesimo di Giovanni rivela Dio come padre nel modo in cui lui riconosce o meno i suoi figli. «Sono questi ultimi, con il loro essere e il loro comportamento, che aprono il volto di Dio Padre» (p. 164).

La madre di Gesù e i suoi fratelli sono coloro che compiono la volontà di Dio (cf. Mc 3,32-35). Anche i pubblicani e i gentili non circoncisi possono essere figli di Dio. Tutto dipende da come ci si comporta, afferma Giovanni Battista al Giordano (cf. Lc 3,10-14).

La paternità di Dio non si acquista per un legame esteriore ma per un’adesione interiore, intessuta di fedeltà, di giustizia, di amore autentico alla parola di Dio e di fedeltà alla sua volontà. Ed ecco che Dio rivela la sua autentica paternità nel battesimo di Gesù (cf. Lc 3,21-22). La paternità di Dio si ritrova anche nel racconto della trasfigurazione.

L’evangelista Giovanni afferma che la gloria del Figlio è rivelazione del Padre che nessuno ha mai visto né può vedere (cf. Gv 1,18; 6,46). Gesù è l’immagine visibile del Dio invisibile (cf. Col 1,15), «irradiazione della gloria di Dio e impronta della sua sostanza» (Eb 1,3).

La genealogia di Gesù attesta il suo essere Figlio di Dio (cf. Lc 3,38). Con la genealogia matteana Gesù plasma anche il nuovo volto di Israele: egli è un figlio meticcio, un misto di tante etnie, lingue e culture, un figlio dell’uomo e figlio di Adamo, come dice Luca. «Le due genealogie si riallacciano per dire che, essendo Gesù figlio dell’umanità, Dio non ha più un nome proprio – come le divinità etniche o nazionali – ma è “Padre” di ogni creatura sotto il cielo» (pp.168-169).

Il volto di Dio Padre passa attraverso il volto di Dio Figlio. Qui si innesta l’esigenza logica e teo-logica della Trinità, dove lo Spirito avrà proprio la funzione di unire – nell’intelligenza – l’uno all’altro» (p. 169).

Dal Figlio al Padre. Gesù nell’amore è il Figlio del Padre. La consapevolezza di Gesù di avere un padre nei cieli viene espressa quando, dodicenne, si trova nel tempio (cf. Lc 2,49). Il “doversi occupare” delle cose del Padre sarà il fil rouge di tutta la missione terrena di Gesù, legata al suo rapporto col Padre e al compimento della sua volontà. Gesù è “obbediente” al Padre e offre tutto sé stesso.

Egli rivela un feeling col Padre che è una comunione di intenti, unita a una consapevolezza che si esprime come relazione di reciprocità. In questa coesione del Figlio Gesù al Padre viene ancora a plasmarsi un nuovo volto di tutto Israele come figlio di Dio. Si realizza il comando di Dt 6,5: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il cuore, con tutta la tua anima, con tutte le tue forze». Si va oltre l’onore dovuto al padre e alla madre.

Se Gesù è Figlio di Dio, che Padre è Dio verso Gesù? È una prossimità paterna particolare, che porta Gesù a parlare di «Padre mio», «Abbà». Certamente Dio è un padre diverso da quello dei padri di Israele. Gesù rimane nell’amore del Padre. Gesù è obbediente, ma anche libero (cf. la preghiera nel Getsemani). Gesù è legato al Padre da un dialogo libero e intimo su ciò che ha dato origine allo spirito della legge.

Dio appare come un Padre che vive in relazione adulta e ininterrotta col Figlio e che, proprio nel Figlio, vive e appare. A Tommaso Gesù rivela che il Figlio rivela il Padre, è la via che porta al Padre, il volto che rivela il Padre (cf. Gv 14,5-11).

La paternità di Dio sul Messia davidico si proietta come una promessa di restaurazione del regno di Israele, con i tempi e i modi dettati dal potere del Padre, diversi da quelli umani. Quel Figlio che nasce senza eredità promette di riprendersela facendo tornare Dio a essere un Padre credibile. Sulla croce Gesù mostra però tutta la sua orfanità, l’essere abbandonato da Dio.

In Gesù c’è il coraggio della querela. La preghiera di Gesù sulla croce («Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?») fa rimbombare la querela di Geremia e di Giobbe a un Dio patrigno che abbandona all’abisso della solitudine suo figlio. Un Dio che non dà privilegi, non risparmia dolore e sofferenza, non è iperprotettivo. «L’abbandono che Gesù subisce è, da parte dei suoi prima, e, infine, da parte di quel Dio la cui paternità tornerà a essere una promessa» (p. 178).

Gesù fatica a trovare ancora la fedeltà di un padre nella sua esperienza di morte. Cosa che otterrà, invece, nella fede: «… tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà».

Pensare che la morte in croce e l’abbandono da parte di tutti sia davvero la volontà di Dio è il segno della fede di Gesù nel Padre. Egli attraversa «i deserti urticanti e devastanti dell’abbandono, del filo che si spezza, della voce che si esaurisce in un silenzio vuoto, nella mancanza di ogni radice e di ogni memoria. Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato… (cf. Sal 22,2-12.15-20)» (p. 179).

Dio delinea la sua ombra attraverso la ricerca accorata del Figlio, attraverso il grido di un figlio gettato via nell’abisso del cielo, ma che resiste nel dire: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46; Sal 31,6). È un grido che «si allaccia e “completa” il grido dei “sangui” di Abele, il grido degli Ebrei in Egitto, il grido soffocato dei neonati di Gerusalemme (cf. Ger 19), il grido degli innocenti, il grido degli esuli, che i salmisti per secoli avevano amplificato nelle loro suppliche e nelle loro querele. È un grido che troverà risposta nel già e non ancora del terzo giorno, il primo dopo il sabato» (pp. 181-182).

Gesù si affida al Padre, senza alcuna garanzia, in un atto di speranza in ciò che ancora non si vede. Colpito da questo, il centurione confesserà: «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio» (Mc 15,39). «Nella solitudine del suo morire in croce, Gesù esprime tutta la sua fede che illumina quel morire di Vita e di Risurrezione, come era accaduto con Lazzaro» (p. 182), quando aveva ringraziato anticipatamente il Padre del suo ascolto (cf. Gv 11,41-44).

Dio è un Padre senza casa – prosegue la sua riflessione l’autrice. Se il Figlio sperimenta tutta la sua debolezza che gli deriva dall’abbandono del Padre, anche Dio come Padre esce indebolito nel corpo crocifisso del Figlio che lui non ha fatto scendere dalla croce. Di un Figlio che non lascia posterità, che lo lascia senza il tempio, la sua casa. Era stata annunciata un’acqua che usciva dal tempio. Gesù è il nuovo tempio.

Ma che cosa guadagna Dio Padre con questo Figlio morto nel pieno degli anni nella vergogna della morte in croce, riservata ai bestemmiatori e ai criminali? «… la morte stessa di quell’unico Figlio toglie a Dio lo statuto della paternità, il primo scopo e il primo onore dell’essere Padre. Accettando che suo figlio muoia, Dio accetta di rinunciare alla paternità religiosa e teologica del primo Testamento (il figlio maschio come memoria, quindi immortalità del padre). La morte del figlio fa tornare un uomo – così anche Dio – nella tristezza di Abramo prima di averne. Sulle braccia del Figlio muore anche il Padre. Perché lo fa? Perché questa è la sua volontà? Ma è davvero la sua e non anche quella di Gesù?» – si domanda Virgili (pp. 186-187).

I fiori della vite è il titolo di un avvincente paragrafo di Virgili.

Nella preghiera di Gv 17 Gesù esprime l’amore per i suoi e il desiderio di offrire la propria vita. Riportiamo le parole dell’autrice.

«Assecondando questo volere, questo desiderio, questo accorato impeto d’amore di Gesù per i suoi, il Padre perde la sua paternità ma acquista al suo unico Figlio un mare di fratelli e sorelle. È per dare fratelli e sorelle a suo Figlio che il Padre si spoglia della sua paternità unica, esclusiva, potente e proprietaria, come accadeva ai padri umani.

È un passaggio teologico importantissimo nell’identità del Dio Padre di Israele, che aveva un’unica benedizione per un figlio unico. Per poter benedire ogni popolo, doveva spogliarsi del suo unico Figlio e ritrovarlo nell’abbraccio di mille figli tra i suoi fratelli.

La glorificazione del Figlio nel giorno della sua risurrezione, il riscatto della vita del Figlio sta nel fatto che questi trova fratelli. Il Padre, rinunciando alla sua esclusiva e antica dignità paterna, dona al Figlio la pienezza: aprire il Volto di Dio al volto di tanti figli nel mondo.

Dio rinuncia a essere unico per diventare uno, mentre Gesù esce dall’essere un Figlio unico per diventare un corpo mistico di fraternità, un volto che riflette e contiene un mosaico di figli, di fratelli e di amici. Il Volto del Padre si protende verso quello del Figlio e viceversa, mentre è abbattuto il muro dell’inimicizia e uno solo rimane il comandamento: … amate i vostri nemici […], ecc. 5,43-48)» (pp. 188-190).

La preghiera del Padre Nostro

Con la morte e risurrezione di Gesù la preghiera dell’Abbà che prima era pronunciata solo da Gesù, ora è sulla bocca di tutti i credenti. In Rm 8,12-17 Paolo descrive la redenzione e la figliolanza ricevute dai credenti, con la possibilità di pregare gridando «Abbà, Padre!».

Il credente condivide la preghiera di Gesù, il Figlio, ed entra in comunione profonda col Padre, nello Spirito Santo (cf. Mt 11,25-27; Lc 10,21-22). Ognuno verrà ascoltato personalmente dal Padre nell’intimità della preghiera.

Virgili commenta i passaggi del Padre Nostro: introduzione nell’economia della misericordia e del perdono, il compimento della volontà del Padre uniti ai gentili in quel regno di Dio che ora viene auspicato e riconosciuto dai credenti.

Il Padre è quello che dà il pane ai propri figli e a Dio come a un padre i figli lo chiedono. Chiedere il pane significa anche chiedere la parola, il mezzo con cui si creano i legami di figliolanza e di fratellanza che permettono di camminare verso la vita piena, morale e spirituale oltre che fisica e materiale. Chiedere a Dio il pane quotidiano significa chiedere la giustizia e la pace sulla terra.

La preghiera del Padre Nostro diventa realtà nella descrizione della comunità dalle origini (cf. At 4,32-35). «È la giuntura della fraternità – commenta Virgili – che rende il “corpo” della Chiesa corpo del Figlio, da Dio “generato e non creato”. Corpo splendido nella sua rappresentazione iconica fornita dalla Lettera agli Efesini».

La studiosa riporta il testo di Ef 4,1-6: «…un solo corpo e un solo spirito… un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio e Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (p. 196-197).

Nel corpo del Figlio ogni lontano è divenuto vicino, ogni schiavo è divenuto libero, ogni affamato è diventato “beato”, ogni peccatore è stato liberato dal peccato. Attraverso il perdono.

L’ultima invocazione del Padre Nostro richiede la liberazione dal male. Il primo e più grande male per tutti gli umani sono le divisioni. La vita è nella comunione. “Liberaci dal male” si può chiedere solo a un Dio che sia Padre, un nome comune, al Padre di tutti. E proprio per questo “Salvatore”. «Quando, allora, la Chiesa dice “Padre nostro”, apre il mondo alla gloria di un cielo la cui luce ricade sulla terra come profezia e come squarcio di speranza».

Viene riportato il brano di Ef 2,11-18 su Cristo che ha fatto pace, ha chiamato vicini e lontani, ha fatto dei due una cosa sola. «Per mezzo di lui infatti possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito» (cf. pp. 198-199).

Nel Figlio, nel Padre e nello Spirito. L’autrice conclude la sua opera citando per esteso le parole di Gesù riportate in Gv 14,12-21. «Non possiamo concludere – commenta – se non con le parole che il Figlio rivolge ai suoi amici, coinvolgendoli nell’intimità del suo dialogo col Padre, nella promessa dello Spirito Santo. Ascoltando queste parole, noi siamo resi figli e figlie del Padre, nella vita del Figlio, Gesù Cristo» (p. 199).

Un volume di riflessioni bibliche, teologiche e spirituali, scritto con il consueto linguaggio evocativo e sapienziale. Attualizza il messaggio del Concilio di Nicea di cui si ricordano quest’anno i 1700 anni della sua celebrazione.

Rosanna Virgili, Il Padre, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2025, pp. 208, € 15,00, ISBN 9788892246935.

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