«Un ostacolo al ministero e alla missione è costituito dal clericalismo. Esso nasce dal fraintendimento della chiamata divina, che conduce a concepirla più come un privilegio che come un servizio, e si manifesta in uno stile di potere mondano che rifiuta di rendere conto. Questa deformazione del sacerdozio deve essere contrastata fin dalle prime fasi della formazione, grazie a un contatto vivo con la quotidianità del Popolo di Dio e un’esperienza concreta di servizio ai più bisognosi» (Dalla Relazione di sintesi della prima Sessione della XVI Assemblea Generale del Sinodo dei Vescovi Una Chiesa sinodale in missione, par. 11, lett. c).
«Il clericalismo pone delle domande serie che vanno ascoltate, capite, interpretate per essere radicalmente affrontate e rimediate. Se il clericalismo prospera, se raccoglie sempre nuovi seguaci, anche nelle nuove generazioni, è perché, a suo modo, risponde a delle attese, calma delle tensioni, rassicura incertezze, semplifica la complessità. L’analisi del clericalismo permette così di gettare un fascio di luce sulle contraddizioni del nostro presente e sulle difficoltà della Chiesa postconciliare».
Lo scrive Domenico Cravero – presbitero della diocesi di Torino, parroco, psicologo, psicoterapeuta, sociologo e scrittore, fondatore di comunità terapeutiche – nell’introdurre (p. 15) il suo ultimo libro intitolato La ferita del clericalismo (Edizioni Sanpino, Pecetto Torinese 2023).
Preceduto da una stimolante prefazione di Matteo Maria Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana e arcivescovo di Bologna, il saggio è strutturato in tre soli e densi capitoli il cui titolo (“La grazia del presbiterato”, “La disgrazia del clericalismo”, “Come si contrasta il clericalismo”) rivela l’obiettivo dell’autore: a fronte della grazia del presbiterato vissuto come radicalizzazione della vocazione battesimale fino a dare la vita al servizio del Vangelo (p. 58), stigmatizzare la disgrazia del clericalismo «inteso non come mera forma di devianza ma come sistema viziato di vita ecclesiale» (p. 15) e indicare i passi concreti da compiere per contrastarlo.
Un testo, quello di Cravero, che offre davvero molti spunti per curare la malattia del clericalismo in profondità, suscitando anticorpi tali da contrastarla ogniqualvolta tenda a riproporsi. La storia, infatti, insegna che il clericalismo è un male che, nella Chiesa, ha radici antiche e si manifesta in forme diverse e più o meno acute a seconda delle epoche: esso può essere paragonato a un’idra sempre pronta a rinascere (Agnès Desmazières, L’ora dei laici. Prossimità e corresponsabilità, EDB, Bologna 2023, p. 55).
Il clericalismo: che cos’è e cosa fa?
Richiamando spesso il ricco magistero di papa Francesco, l’autore offre un’ampia disamina degli elementi che caratterizzano il clericalismo che, semplicemente, «non dovrebbe aver nulla a che fare con il cristianesimo» (p. 28).
Il clericalismo atrofizza l’espressione della vocazione battesimale (p. 29). È una deformazione dell’inestimabile dono del sacerdozio battesimale e ordinato (p. 39): in particolare non riconosce realmente quello comune dei battezzati e delle battezzate (p. 25). Delle tre funzioni attribuite a Cristo (profetica, regale, sacerdotale) valorizza in modo spropositato quella sacerdotale a scapito delle altre due (p. 16). Fa male ai preti, perché genera una distorsione della loro missione, e fa male ai laici, perché impedisce la loro crescita come cristiani adulti (p. 58). È un abuso di posizione dominante, dove l’autorità – termine che deriva da augere, che significa appunto far crescere (p. 29) – è costruita sul sacro (p. 131) e non come strumento di crescita (p. 94) verso l’umano e il divino (p. 29). «Trascina la Chiesa in un rapporto asimmetrico: quello dei preti che assumono il ruolo di guida della Chiesa, e quello del laicato visto come mandatario» (p. 29).
Il clericalismo mortifica il discepolato missionario quando, oltre ad essere fomentato e alimentato dal clero, è accettato e cercato dai laici (p. 23). Prospera perché a qualcuno fa comodo, mentre altri difettano di coraggio e di forza per contrastarlo: in esso «si annida sempre un’ambivalenza di conformità e di deviazione» (p. 32). Il presbitero clericale ama comandare, dare ordini, dimostrare di sapere sempre tutto, chiudersi in sé stesso, mentre è poco interessato a fare in modo che «altri collaborino nella missione della Chiesa» (p. 72).
Il clericalismo dimentica che, fra tutti i fedeli, vige una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune nell’edificare il corpo di Cristo (p. 38). Misconosce la vocazione laicale e utilizza i laici in ruoli funzionali per rispondere a necessità o riempire vuoti (p. 84). Usa in modo squilibrato i carismi femminili (p. 55). Difetta di sinodalità (p. 64): anzi, spegne la sinodalità e fa dei laici delle «comparse» (p. 110), dei replicanti (p. 23 e 146) o degli spettatori (p. 62) invece che delle persone creative (p. 146) e corresponsabili (p. 62). Manca di apertura allo Spirito (p. 29). Manifesta una cura ostentata della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, senza preoccuparsi del reale inserimento del Vangelo nel Popolo di Dio e nei bisogni concreti della storia, contribuendo a fare della Chiesa un pezzo da museo o un possesso di pochi (p. 153).
Il clericalismo realizza un modello di comunità che tende a coincidere con gli operatori pastorali e la cerchia dei partecipanti regolari (p. 69). Ama ripetere spesso, a monito di chi frequenta gli ambienti di chiesa, che «tutti sono utili, ma nessuno è indispensabile» e «chi non serve, non serve» (chi viene in parrocchia, ma non si adegua, frequenta inutilmente): considera così le persone in modo strumentale senza accoglierle veramente e senza riconoscere la loro vita (pp. 62–63). Non avverte l’urgenza pastorale di intercettare i molti assenti (p. 40) o di relazionarsi con quelli che ci mancano» (p. 177), cioè con i non credenti e i non praticanti, con i critici e i perplessi, con gli agnostici e gli indifferenti, con chi sta sulla soglia della comunità cristiana o l’ha abbandonata in punta di piedi.
Interpretando e vivendo il fatto religioso come spazio del sacro, luogo separato dal mondo e dal popolo (p. 80), il clericalismo pensa in piccolo e si ritrae davanti alla complessità del mondo (p. 175).
A causa della mentalità schizoide che mette in fuga dalla vita reale e rimuove la pesantezza del quotidiano, nel clericalismo troviamo spesso tante esperienze misticheggianti nelle quali ci si sente identificati con il divino (p. 155).
Il clericalismo prospetta al laico un ideale religioso fuori dal mondo, guidandolo a cercare Dio negli intervalli piuttosto che nella fatica quotidiana (p. 42), dimenticando che «la vocazione cristiana si compie raso terra» (p. 156) nelle attività profane che sono «il luogo in cui si compie l’opera di Dio» (p. 157).
Numerosi sono i rimedi suggeriti da Cravero per contrastare il clericalismo. Mi limito a segnalarne due riferiti alla figura di presbitero e alla realtà della parrocchia.
Servizio, lo stile evangelico del presbitero
Contro il clericalismo si sente la necessità di un nuovo modello di presbitero (p. 171) che va liberato da ogni retaggio estraneo alle chiare indicazioni del Vangelo (p. 173). Il presbitero non clericale è profondamente consapevole che «dal battesimo prende origine non il potere su una comunità di credenti, ma il servizio ad essa» e che «il Sacramento dell’Ordine non sacralizza la persona sulla quale vengono imposte le mani, ma ne radicalizza piuttosto la vocazione battesimale concentrandola sul dare la vita al servizio del Vangelo» (p. 58).
Quando avrà fatto tutto ciò che deve, il presbitero dirà «sono un servo inutile» (Lc 17,10). Non un leader, non un carismatico, non un sovrano, ma piuttosto «un povero contributore all’unità di una comunità» di fratelli e di sorelle convocate non dalla simpatia ma dal Crocifisso risorto (p. 169).
Mentre il sacerdozio dei battezzati consiste nel loro essere cristiani, «il presbiterato trova la sua identità nella speciale particolarità del suo ministero, esercitato come servizio» (p. 67). «Gesù, istituendo l’eucaristia e il presbiterato, ne ha prescritto anche il modello secondo la metafora del lavare i piedi che ha lasciato come esempio e comando» (p. 173).
Il presbitero «vive con la sua gente per accompagnarla nella fede, senza eccessi di rigorismi e moralismi, affrontando insieme, nelle diverse competenze, i problemi e gli ostacoli di un mondo sempre più complesso» (p. 172).
Quattro virtù caratterizzano il presbitero non clericale: la semplicità, la devozione, la gentilezza e l’amabilità.
«La nobile semplicità non è solo una regola liturgica; può modellare tutta la vita del presbitero e anche il suo abito civile» (p. 92).
«La devozione è l’insieme degli atteggiamenti del corpo, dei pensieri, delle emozioni che esprime l’attenzione, la cura, l’attaccamento alla lode a al servizio di Dio» (p. 104).
La gentilezza, associata all’empatia, alla sollecitudine e alla cura, «qualifica il servizio del presbitero» (p. 115).
L’amabilità, in quanto «segno della vocazione alla donazione totale» del presbitero «riposa nello sguardo, traspare dagli occhi e dalla modulazione della voce, si realizza nella spontaneità del sorriso, si coglie dal movimento e dal portamento liturgico» (p. 130).
Un nuovo modello di parrocchia
Contro il clericalismo si sente la necessità anche di un nuovo modello di parrocchia: da parrocchie «mute, impotenti, impaurite» a parrocchie «profetiche, attive, gioiose» (p. 52).
Dal momento che oggi, nella nostra società occidentale secolarizzata, «si rimane credenti solo se convinti e si resta convinti solo se in continua formazione» (p. 37), alla parrocchia non clericale, «non centrata sul gruppo chiuso ma modellata sulla missione al mondo», è richiesta, unitamente ad un particolare impegno nel cammino di conversione e nell’offerta di sistematiche e robuste iniziative formative, una riserva inesauribile di creatività e di scelte pastorali coraggiose (p. 133), come quella di laicizzare l’annuncio della fede, facendolo risuonare in termini religiosi non autoreferenziali (p. 84). «L’antidoto al clericalismo è l’affermazione della laicità, dimensione propria del cristianesimo: essere riconosciuti come discepoli di Cristo nel proprio stile di vita. La qualità umana della vita del cristiano diventa il distintivo dell’identità del credente. L’autenticamente cristiano è anche autenticamente umano, secondo l’umanità vissuta e insegnata da Gesù» (p. 134) e «la pienezza dell’umano è il vero criterio di verifica della maturità della fede» (p. 159).
Per essere all’altezza della sua missione e per abitare in modo creativo la condizione della postmodernità, la parrocchia non clericale deve ritornare alla via originaria del Vangelo esprimibile «nella metafora di un indisgiungibile triangolo: Gesù, i discepoli e la folla» (p. 44).
La Chiesa in uscita di papa Francesco non è altro che la riproposizione nella società di oggi di questo indisgiungibile triangolo evangelico.
I discepoli, scelti a rappresentanza delle folle, fanno vita comune e itinerante con il Maestro e, pur tra esitazioni e timori, ne ascoltano la Parola e cercano di credere.
Le folle, invece, sono un insieme di gente incuriosita e interessata all’insegnamento del Nazareno perché ne sperano un aiuto ma non necessariamente lo seguono.
I discepoli, partecipando all’opera di Gesù, sono invitati a mettersi a servizio della folla. C’è stato un tempo in cui curiosità della folla e sequela del discepolo coincidevano nella cristianità. Ma oggi, venuto meno il costume cristiano, non è più così. Oggi, perdere la folla, destinataria del discepolato, potrebbe significare la fine della Chiesa (p. 47). Ne consegue che è da mettere al bando la logica del «piccolo è bello» e dei «pochi ma buoni» perché la parrocchia non può mai essere sinonimo di campanilismo o di mentalità chiusa (p. 80). «La responsabilità della parrocchia come popolo di Dio è collegiale» e chi la rappresenta «non è solo il presbitero ma la comunità nel suo insieme, corpo di Cristo» (p. 64).
«La Chiesa come popolo di Dio, inteso secondo l’immagine della folla evangelica alla quale i discepoli sono ordinati, non è ancora stata sufficientemente indagata. Sono ancora pochi i modelli di comunità in stato di missione, di parrocchie pensate in vista dell’evangelizzazione. Meno è evidente la priorità missionaria, meno la comunità trova le forme per comporre in armonia i diversi carismi. Solo ritornando alla centralità di Cristo si trova modo di intendere evangelicamente la distinzione tra popolo e ministri» (p. 172).
Nella parrocchia non clericale la liturgia è caratterizzata da «nobile semplicità», «libera da tutti i fronzoli» (p. 91), basata su un «linguaggio accessibile e capace di accordarsi con l’uditorio» (p. 92).
L’accusa che oggi giovani e meno giovani fanno alle celebrazioni liturgiche è quella di essere «semplicemente noiose»: non sono percepite, cioè, come «esperienze vitali» e «riti di speranza» (p. 163).
È necessario immaginare proposte efficaci, perché la domenica sia vissuta come una festa, bella, vera, ricca di emozioni (pathos) e di significato (logos) […]. Il cristianesimo rinasce nelle nuove generazioni quando sono sollecitate non da un movimento astratto dell’intelligenza, ma da una passione del cuore» (p. 165). Una celebrazione cristiana che si arrende al basso profilo del rito devozionale non è in grado di generare speranza: «sarebbe solo un inganno» (p. 53).
Solo il popolo delle beatitudini può sconfiggere il clericalismo
Strategia efficace per sradicare il clericalismo è mobilitarsi per nuovi stili di vita e di società (p. 155), stando con i vulnerabili, i poveri, i sofferenti, gli emarginati, gli sconfitti dalla storia, «i quali appartengono alla Chiesa per diritto evangelico» (p. 38). La loro frequentazione «libera la comunità dalla presa del clericalismo, ne dissolve i motivi di innesco, riporta costantemente al cuore del Vangelo» (p. 150), cioè alle «beatitudini del monte» che – come ebbe a dire papa Francesco nell’udienza generale del 20 gennaio 2020 – «contengono la carta d’identità del cristiano perché delineano il volto di Gesù e il suo stile di vita».
Coglie, pertanto, nel segno Domenico Cravero quando, nelle pagine conclusive del suo saggio, scrive che «a battere il clericalismo sarà solo il popolo delle beatitudini». Un popolo formato non «dai perfetti e dai puri» (p. 173) ma da «persone predisposte all’incontro con l’opera della Grazia» (p. 93) che, incarnando nella loro vita «virtù di solidarietà, di sacrificio, di apertura», possono diventare segni evangelici nelle comunità disposte ad accoglierle (p. 174).
E allora, come dire oggi le beatitudini del monte nella versione di Mt 5,3-12? Ispirandomi ad una bella pagina di Angelo Casati (Innamorarsi, Qiqajon, Magnano 2016, pp. 19-20), a me piace dirle nei termini che seguono.
Che bello che…
Che bello che, in un mondo che idolatra ricchezze e tornaconti personali, ci siano donne e uomini che confidano in Dio e si mettono in ascolto del grido dei poveri: Dio assicura loro che sono sulla giusta strada.
Che bello che, in un mondo di gente che pensa per lo più ai propri comodi, ci siano donne e uomini che sanno piangere con chi è nel pianto mettendosi nei loro panni e considerano carne della loro carne chi è nella sofferenza e nell’angoscia: troveranno in Dio sostegno, sollievo e incoraggiamento.
Che bello che, in un mondo di gente arrogante, ci siano donne e uomini che reagiscono con umile mitezza ai torti, alle inimicizie, alle liti, alle critiche impietose, ai comportamenti indisponenti e discriminatori: Dio farà loro sognare cieli nuovi e terra nuova.
Che bello che, in un mondo di codardi e indifferenti, ci siano donne e uomini che alimentano la fame e la sete di giustizia, contribuendo ad assicurarla ai deboli, agli indifesi e a coloro che contano poco o nulla sulla scena sociale: in ogni tempesta Dio sarà al loro fianco, argine alle loro paure.
Che bello che, in un mondo di gente rancorosa e arrabbiata, ci siano donne e uomini che cercano di testimoniare il perdono e la misericordia di Dio, non si lasciano vincere dal male, ma vincono il male con il bene: Dio, che vuole misericordia e non sacrifici, avrà un occhio di compassione nei loro riguardi.
Che bello che, in un mondo dove spesso si premiamo i corrotti, ci siano donne e uomini dal cuore limpido e dallo sguardo luminoso, che non conoscono la doppiezza, onorano la parola data e praticano l’onestà anche nelle piccole cose: Dio rivelerà loro il suo volto.
Che bello che, in un mondo dove ci si illude di risolvere i problemi con la guerra e la violenza, ci siano donne e uomini che costruiscono la pace, prevengono incomprensioni, disarmano il cuore, aboliscono l’idea stessa di nemico, compongono contrasti, portano a compimento processi di riconciliazione, fanno prevalere l’unità sui conflitti: Dio sarà per loro Padre amorevole che tratta tutti come sue figlie e suoi figli.
Che bello che in ogni parte del mondo ci siano donne e uomini che non si rassegnano alle ingiustizie, ai soprusi e alla violazione della dignità umana: Dio assicura loro che sono sulla giusta strada.
Che bello quando a tante donne e a tanti uomini anche oggi riesce di percorrere con coraggio, determinazione e umiltà la via del Vangelo di Gesù di Nazaret diffidando delle scorciatoie, degli aggiustamenti o dei compromessi.
Che bello se, nella nostra vita, avremo occhi e cuore rivolti alle beatitudini del monte. Ne sarà allietata la nostra casa e, per qualche misura, per la misura che ci tocca, la nostra terra.
Il libro è sicuramente interessante ma l’altra faccia della medaglia del problema del clericalismo è l’assenza di una vera e autentica autorità (https://iltuttonelframmento.blogspot.com/2020/11/cattolicesimo-borghese-4.html). Ci sono in giro nella Chiesa tanti piccoli “dittatori” che fanno danni. Basta pensare a come esercita l’autorità in un Seminario il Rettore: Lui dà, attraverso le sue parole e i suoi gesti, l’imprinting ai futuri preti. In più il problema è anche legato all’attuale Codice di diritto canonico che, per come ora è, genera con le sue contraddizioni rispetto al CVII una tendenza clericalista.
Negli ambienti conservatori si teme che le riforme nella chiesa e della chiesa possano spingersi a contraddire il deposito ricevuto. A mio avviso trattasi di un ulteriore dispositivo di blocco (per usare un’espressione di Andrea Grillo) che viene escogitato per lasciare tutto immutato. Viene da chiedersi: cosa è il “depositum fidei” ? E’ possibile isolarlo in una sostanza astratta, immune da ogni rivestimento culturale ? Io credo di no. Io credo che solo in una forma adeguata alla cultura dell’epoca è possibile esperire la sostanza della nostra fede. Ecco quindi che s’impone una continua riformulazione del “deposito”. La tradizione è viva nella misura in cui riesce ad esprimere la perenne novità della fede in Cristo. Un magistero che non riesce a farsi garante di questa novità, finisce per contraddire la sostanza della fede perché la sigilla in una formulazione che può essere vivificante in un dato periodo storico, ma che finisce per non essere vivificante in un altro periodo storico. Le riforme ecclesiali hanno proprio questa funzione: quella di rendere vivificante, cioè esperibile, la sostanza della fede in ogni epoca.
Ma c’è di più. Mi chiedo: chi sinora ha elaborato, riformulato e definito il deposito della fede ? È stato il clero, ossia una minima componente del Popolo di Dio che si è autoassegnato questo compito, escludendo ogni contributo proveniente dalle donne e dagli uomini laici. Il risultato è stata una formulazione dottrinale inficiata di astrattismo, disincarnata, avulsa dalla realtà. Una dottrina inevitabilmente portatrice di una visione del mondo clericalista. Lo afferma anche papa Francesco: “ogni volta che abbiamo cercato di soppiantare, mettere a tacere, ignorare, ridurre a piccole élites il Popolo di Dio abbiamo costruito comunità, programmi, scelte teologiche, spiritualità e strutture senza radici, senza memoria, senza volto, senza corpo, in definitiva senza vita” (Lettera al Popolo di Dio). E quindi, il “tradere creativo” oggi deve avvenire coinvolgendo l’intera chiesa (e non solo il clero). Le riforme devono coinvolgere tutti sin dal momento in cui vengono determinate. Non è sufficiente che i fedeli vengano ascoltati. I fedeli sono stati resi partecipi sin dal battesimo del munus profetico di Cristo. Il Popolo di Dio possiede quindi una autorità magisteriale e deve quindi poter codeterminare le decisioni ecclesiali. E non si opponga la trita obiezione che la chiesa non è una democrazia, perché nella chiesa si vota eccome: si vota nel conclave per eleggere il papa, si vota nei concili, si vota nei sinodi, si vota anche nei capitoli delle famiglie religiose. Perché non potrebbero votare anche le donne e gli uomini laici in un qualsiasi organismo ? Perché “concedere” loro solo un ruolo consultivo ? Perché continuare ad imporre una chiesa “societas inaequalis” dove la personalità dei fedeli è annullata ?
Il processo sinodale in corso non può eludere queste domande. L’auspicata riformulazione dottrinale deve poter avvenire anche con il concorso delle donne e degli uomini. Nonchè delle discipline moderne (antropologia, psicologia, economia, filologia, fisica, …). Il clericalismo va seriamente combattuto. Gli abusi che provoca vanno contrastati con una decisa opera di bonifica dottrinale e giuridica che non può escludere a priori i battezzati. “Quod omnes tangit ab omnibus approbari debet”, letteralmente “quello che riguarda tutti, deve essere approvato da tutti”.
Dire che negli ambienti conservatori si teme che le riforme nella chiesa e della chiesa possano spingersi a contraddire il deposito ricevuto è veramente riduttivo.
Sosterrei invece che con la scusa delle riforme e dell’inculturazione determinati ambienti (si può dire che il contrario di conservatore sia modernista?) stanno seriamente provando a contraddire il deposito ricevuto.
Finora pochi si erano accorti del pericolo.
Grazie alla Provvidenza è arrivato papa Francesco che con il suo comportamento veramente goffo ha reso evidente il pericolo a molti.
Moltissimi hanno capito, vedremo quanto saranno coraggiosi.
Non capisco se secondo lei il cliericalismo deve continuare ad esserci o no? A me sembra che sia stato per anni il male della Chiesa, e ancora continui a creare problemi. Per quanto riguarda i presbiteri non mi interessa da dove arrivano, se vivono secondo lo spirito del Concilio Vaticano II. O lei è contro anche quello? Ma allora cosa ci fa qui?
Cosa ci faccio?
Dico quel che penso.
E quel che penso è coerente con circa duemila anni di cristianesimo.
Poi se duemila anni di cristianesimo non le piacciono io non posso farci niente.
È mio dovere però farlo presente.
Adelmo li Cauzi, no, non è come dice lei. Quel che dice non è affatto “coerente con circa 2000 anni di cristianesimo”. Quel che dice è totalmente incoerente con 2000 anni di cristianesimo. Il deposito della fede non p qualcosa di astratto che è possibile conservare in una teca di cristallo, immune ad ogni forma culturale storica. Ma è qualcosa che per poter essere esperito dalle donne e dagli uomini di ogni cultura e di ogni epoca, ha bisogno di essere rivestito di una adeguata formulazione culturale. Si chiama sviluppo dottrinale e rende possibile l’incarnazione della fede nella storia. Sappia che il Dio in cui crediamo è un Dio che si fa carne, che cammina in mezzo a noi, che assume la nostra umanità. Lei dovrebbe conoscere la dinamica dell’Incarnazione, visto che dice di essere un discepolo di Cristo. Se la fede non si fa storia rischia di diventare ideologia. Quella ideologia che blocca ogni riforma e limita la diffusione del Vangelo. Il clericalismo continua a fomentare tale ideologia per una ragione molto semplice. per mantenere il sistema di potere basato sul sacro che affligge la chiesa da circa 1600 anni.
Fortunatamente il problema del clericalismo è in via di risoluzione.
La scomparsa dei preti, cosa che avverrà prima di quanto si immagini, sarà il rimedio.
Sarà però importante non favorire l’immigrazione di presbiteri africani.
Gli africani, come dice papa Francesco, sono dei rigidi tradizionalisti pelagiani intrisi di preconcetti.
Per le nostre gioiose e gaie parrocchie in uscita non andrebbero bene.