
Nel suo precedente libro – Un autunno di agosto – Agnese Pini aveva già cominciato a scavare nel proprio passato. Ma in un passato lontano, per lei quasi remoto: quello della strage nazista di San Terenzo Monti (soltanto una di quella bestiale catena di morte che insanguinò molti luoghi toccati dalla ritirata dei tedeschi dall’Italia) in cui la bisnonna Mira/Palmira era stata una delle 160 vittime.
Agnese aveva rimandato per tre anni l’invito di un collega giornalista, originario del paese, a visitare quel posto dove non era mai stata. Una sorta di ripulsa a fare i conti con una storia dolorosa che, per quanto lontana nel tempo, la riguardava e della quale tante volte aveva sentito raccontare in famiglia. «Una vicenda – ha detto in un’intervista – che mi è stata raccontata più volte da mia nonna, da mia madre e da mia zia. È come se mi fossi voluta mettere alla prova con quel libro, per capire se sarei stata in grado di scrivere La verità è un fuoco».
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Si tratta di un’altra storia familiare, che la interpella molto più da vicino e la coinvolge: scopre, all’età di tredici anni, che suo padre è stato un prete. Nel fondo di un cassetto dell’armadio dei genitori trova un album di foto sulla cui copertina c’è scritto, su un nastro scuro con caratteri bianchi in rilievo: don Pini.
Non un parente prete, ma suo padre. «Non ho mai più rivisto quell’album, in vita mia. Mai più, dopo quel pomeriggio. Eppure: non c’è un’immagine che io non ricordi con precisione intatta». Foto del giovane seminarista, dello studente di teologia ventenne, foto del giovane prete con i paramenti sacri delle celebrazioni, foto di una gita con i parrocchiani in Piazza San Pietro.
All’età di trentanove anni, lei giornalista – direttore del Quotidiano Nazionale, che riunisce le tre testate de Il Giorno, Il Resto del Carlino e La Nazione e adesso anche presidente della casa editrice Longanesi – che ben conosce il mestiere di fare domande e raccontare storie di vita, sente di non aver alternative rispetto al necessario, inevitabile racconto di questa storia. Quella di lei e di suo padre, del quale ha scoperto che era un prete. Scoperta faticosa, che genera la sua ribellione di adolescente (ma tale da non accompagnarla più): «Non volevo essere la figlia del prete. Non volevo quel segreto anche perché sentivo – sapevo – che non avrei mai potuto condividerlo. Era troppo sproporzionato per la mia età, per i miei orizzonti, per la mai capacità di comprensione».
Subito la fatica del confronto con i genitori. Prima alla mamma, che dice al marito: «Agnese deve chiederti una cosa». E poi di fronte al padre: «Tirai fuori le parole che oggi si fermano sul filo delle mie labbra, la voce incatenata e impotente: “Papà, è vero che eri un prete?”. E vidi il suo viso spezzarsi, e il mio viso si spezzò con il suo: vidi il viso di un padre colpevole e immediatamente sentii quella colpa su di me, come fosse la mia.»
Non subito nel racconto, ma parecchie pagine più avanti, Agnese racconta la risposta del padre: «La voce gli uscì rauca dalla bocca: “Sì, ero un prete. Ma poi ho conosciuto tua madre e ho lasciato la Chiesa”. Nient’altro? Nient’altro».
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All’età di sedici anni, durante l’estate dopo la seconda liceo, Agnese vive una tappa di un ininterrotto percorso sulle tracce del padre: catalogare i libri della biblioteca del seminario di Sarzana, dove lui aveva studiato. Gli fa da guida un prete anziano amico di famiglia: ha imparato a conoscerlo come «zio Enzo», che la accoglie e l’accompagna con grande disponibilità.
Incontra un altro prete ancor più anziano, don Crovara, per il quale dirà «di aver provato un affetto sincero». Agnese, che sta catalogando un lascito del sacerdote alla biblioteca, lo trova cordiale e premuroso, era stato insegnante di suo padre al liceo e le racconta la vita dei seminaristi e che suo padre era bravo in latino, e che «era un buon prete».
Una volta, nelle sue giornate in biblioteca, c’è un intenso dialogo con don Crovara a partire dal racconto evangelico dell’incontro di Gesù con l’uomo ricco a cui viene chiesto di lasciare tutto.
Ma incrocia anche don Claudio, che era stato compagno di classe del padre e a cui viene presentata come «la figlia del Pini»; la colpisce il tono con cui le si rivolge, «mi lasciò dentro una sensazione vaga e opprimente, di imbarazzo e perfino, in una certa misura, di rabbia… il tono di chi non è solo curioso, ma anche malizioso».
Incontri come questo alimentano il lei un senso di vergogna, anche se, a un certo punto, si vergognerà di essersi vergognata. Vergogna attribuita anche al padre, come possibile causa dell’occultamento ai figli della sua vicenda.
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Nel libro ritorna più volte e intensamente il senso del legame di suo padre con la Chiesa, come in questo passaggio:
«Era vergogna o era obbedienza? La Chiesa vuole obbedienza, i preti sono obbedienti. E tu non hai mai smesso di essere prete: i sacramenti non si sciolgono mai, nessun uomo può dissolverli. Possono umiliarti e tacitarti, cacciarti e dimenticarsi di te, ma non toglierti ciò che sei».
Per mettere mano alla scrittura del libro e soprattutto per metterne a conoscenza il padre, ritiene necessario rivolgersi a uno psicanalista per fare ordine nei propri pensieri, nei sentimenti che la investono e sconvolgono, in quello che sa e in quello che vorrebbe sapere di suo padre e quindi nella loro relazione: un insieme turbinoso di cose che vive come «un segreto inconfessabile, o una colpa insostenibile… pensai che lo psicanalista è come un prete, e se i vicari di Cristo non avevano saputo o voluto aiutarmi, forse avrebbe saputo farlo un vicario di Freud».
Perché qualche pagina prima aveva fatto cenno a due incontri, sui quali ritornerà quasi al termine del libro: con un prete di Milano ritenuto «particolarmente bendisposto dell’ascolto del prossimo suo» e poi con «un vescovo considerato di grande prestigio. Entrambe le volte e dopo i miei fiumi di lacrime, tornai a casa con il cuore freddo e tremante e la testa vuota».
I colloqui con lo psicanalista – leitmotiv sottostante all’intero racconto – la sostengono nella lotta interiore che affronta, nel cammino per superare lo sconcerto, il disagio, i numerosi silenzi tra lei e il padre. In punta di piedi e con il cuore spesso in tumulto, Agnese ripercorre altre tappe attraverso cui ricostruisce la storia d’amore dei suoi genitori, la frattura con la Chiesa che non è abbandono della fede, la celebrazione del matrimonio prima civile e poi di quello religioso celebrato solo dopo parecchi anni, per una sorta di ostinazione ecclesiastica ingiustificatamente punitiva (su cui torneremo dopo).
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La famiglia Pini va ogni domenica in parrocchia, i ragazzi frequentano il catechismo (Agnese ha un fratello e una sorella adottati) e dietro di loro c’è la madre nei primi banchi della chiesa. Il padre invece è in piedi «nelle panche in fondo, quelle accanto al portale, quelle dietro l’ultima colonna».
Parola ricorrente nel racconto è «vocazione», compare quasi subito e ritorna infinite volte: a partire dalla riflessione sulle diverse scelte di vita del padre, e anche per le sensazioni suscitate in lei dall’ambiente del seminario e dai preti che vi incontra. Con lo sviluppo di una ricerca personale, intima sul nesso tra fede e vocazione.
Anche qui Agnese Pini fa dono di pagine intense e profonde, come questa in cui interagisce con lo psicanalista:
«Se cercare è credere, allora sì, sono credente. La fede è una ricerca, la vocazione è una ricerca… in quel gioco di fughe e di specchi, di allontanamenti e di ritorni di cui è fatta l’esistenza umana, sta l’altrove che ci porta alla fede, perché lì sta il segreto del senso che possiamo attribuire alla nostra esistenza, al nostro essere vivi. Nascere, fuggire, cercare e poi, alla fine, tornare. Solo chi cerca può credere, solo chi crede può tornare, solo chi torna può avere fede, perché tornare è un atto di fede. Dio è tornare».
In un colloquio con lo psicanalista, lei afferma: «Non riesco a pensare che la vocazione possa essere qualcosa di tanto diverso dall’amore».
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Una delle tappe di avvicinamento alla storia del padre è la scelta dell’università. Giovane parroco, don Pini era studente alla facoltà di Lettere all’Università di Pisa, dove Agnese si laureerà brillantemente in lettere moderne: «la stessa facoltà, nella stessa città, in cui si conobbero i miei genitori, esattamente trent’anni prima… sì, l’ho scelta anche per i miei genitori, l’ho scelta anche pensando a loro». Anni intensi di studi e di amicizie, di dichiarata distanza dalla famiglia.
Ma è proprio lì, in una strada o una piazza della Pisa universitaria che i suoi genitori si incontravano:
«Che cosa vi siete detti, chi ha sorriso per primo a chi?… O invece l’amore è arrivato in silenzio, senza farsi notare, nascosto in una segreta felicità che vi palpitava nel petto, una felicità senza nome e senza perché…».
Iniziano a frequentarsi e studiano fianco a fianco, per le rispettive ricerche, nella biblioteca del Seminario di Sarzana.
«Si erano innamorati in un giorno d’autunno, preparando gli esami e la tesi di laurea, tutto quel tempo passato insieme, nella biblioteca del seminario di Sarzana, nelle aule dell’Università di Pisa. Due studenti, fianco a fianco. Lei ragazza, lui prete. Si separarono in un giorno d’inverno, dopo il Natale del 1975».
A quel punto, per un anno eviteranno di incontrarsi. Agnese medita anche su quella scelta e poi sul nuovo incontro tra i suoi genitori e sulla decisione di «riconoscere l’amore». E così
«lei, alla fine, tornò da lui, perché anche lei poteva lasciare tutto per lui… e si dissero che non avrebbero più avuto paura. E non fu coraggio, non fu trasgressione, non fu volontà, non fu forza, la loro. Le scelte d’amore rispondono solo alla fede e allo spirito, e non hanno parole per poter essere raccontate…».
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Cose della vita del padre che la figlia medita, ripercorre, collega in una sofferta e intensa sosta a Vezzano, nella chiesa di cui suo padre, negli stessi anni in cui studiava lettere a Pisa, era parroco.
«Pensai a mio padre, in quella chiesa, sotto quel crocifisso… Pensai quante volte doveva averlo guardato e pregato, a quante volte doveva averlo invocato. Pensai ai suoi dubbi, alla sua sofferenza, al suo senso di colpa, alla sua paura e al suo rimpianto. Pensai alla fatica, alle lacrime, alla tenerezza che io, con tutta me stessa, provavo per lui. Per mio padre».
Parole colme di affetto e anche di fede, di quella che Agnese sa esser stata ed essere ancora nella vita di suo padre (e in qualche misura, se posso permettermi, nella sua).
Gli anni vissuti in parrocchia a Vezzano erano quelli del dopo Concilio. A una domanda dello psicanalista Agnese afferma che nel rinnovamento conciliare il padre «ci credeva, moltissimo». Penso che avesse sperato che la Chiesa potesse cambiare molto più di quanto non sia poi effettivamente cambiata. E penso che questa speranza comprendesse anche il celibato. Tempi e scelte che Agnese ripercorre anche pensando a un incontro tra la sua famiglia e quella di un altro prete che ha lasciato, si è sposato ed è rimasto amico del padre, don Currarino.
Riguardo all’altra coppia – che vive in modo meno lacerante il rapporto con la Chiesa – si domanda:
«Furono più felici dei miei genitori? Riuscirono, rivendicando la loro scelta, a renderla meno dolorosa, meno violenta rispetto al giudizio degli altri? Della Chiesa, dei genitori, degli amici e non più amici. Dei figli, dei colleghi, dei parrocchiani e degli ex parrocchiani. Non so dirlo».
I due amici ricordano il teologo genovese don Balletto, che li aveva aiutati negli anni precedenti al Concilio ad aprirsi alle nuove prospettive soprattutto dei teologi francesi, in particolare Congar (un suo libro Agnese lo scopre in casa, in camera del fratello):
«Una Chiesa in cui gli ultimi potessero essere primi, perché a loro, e a loro più di chiunque altro, erano rivolti gli sforzi, le speranze e le idee, la fede e la preghiera, l’impegno e la misericordia, la giustizia e il bene. In questo fermento… mio padre completò gli studi necessari per il sacerdozio».
E poi si domanda: «Furono anni appassionati e complicati, vero, padre mio? Gli anni in cui il mondo cambiava e la Chiesa cercava di capire fino a che punto avrebbe potuto, o dovuto, cambiare insieme al mondo. Chi sognò troppo, chi troppo sperò, restò deluso. E tu, restasti deluso?».
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La lettura del libro, per me prete da ormai cinquantun anni, è stata motivo di riflessioni intime, occasione di ripercorrere la storia della mia vocazione e quella di altri amici preti, il mio impegno (non spetta a me dire quanto e come mantenuto) di essere fedele, il mio modo di stare nella Chiesa. Anche di conoscere, e talvolta accompagnare, altre vicende di amore.
Un grazie autentico, non formale, a una giornalista che «sa scrivere», sa raccontare, sa legare il lettore alla pagina (cosa già avvertita nel precedente «Un autunno d’agosto», ma qui ancor più assaporata e gustata).
Sono stato aiutato e, in qualche modo costretto, a riflettere sulla mia vocazione, sul mistero di quella che Arturo Paoli (cito a memoria) definiva «l’entrata violenta e totale del Signore in una persona». Aiutato e costretto a interrogarmi sulla mia vocazione, sui tanti possibili modi di esserle infedeli; oppure rispettosi di una regola sentita come inevitabile… col rischio di sorvolare sulla necessità/possibilità di fare i conti, prima o poi, con la scoperta della donna, dell’amore, di tutto un mondo da cui la Chiesa ha tante volte e in tanti modi cercato di «preservare».
Preservare è il verbo che ricorre in abbondanza nei testi liturgici della festa dell’Immacolata: l’amore tra un uomo e una donna troppe spesso visto come occasione di peccato, anziché di cammino verso una pienezza che risale al progetto del Creatore. Come se il peccato fosse soprattutto lì…
In una Chiesa governata da soli uomini e tutti celibi, che non si intendono – o non dovrebbero intendersi! – dell’amore umano, tra un uomo e una donna. E che comunque scrivono libri su libri e insegnano da cattedre prestigiose, ma spesso per parlare di com’è, di come dovrebbe essere l’amore degli altri. Nonostante che affermiamo, preparando i fidanzati al matrimonio, che «i ministri del matrimonio sono gli sposi». Ma poi quanta fatica quando si tratta di restituire il matrimonio, la teologia del matrimonio, l’etica cristiana del matrimonio ai laici cristiani, agli sposi cristiani!
Penso che sia necessario qualche passo deciso in questa direzione, tanto più che ormai ci sono e crescono – tra i cristiani sposati – fior di uomini e donne che ne sanno di teologia più di tanti preti! E forse, a partire da chi sta vivendo l’amore coniugale senza che sia ritenuto un tradimento o un ripiego, anche l’opinione e il giudizio sul prete che si sposa cambierebbe…
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Veniamo al libro, alle pagine più sofferte, alle domande che Agnese Pini – e come e più di lei suo padre e sua madre – hanno fatto fatica a porre alla Chiesa, oppure senza trovare convincenti ed empatiche risposte.
C’è una terminologia, ufficialmente bandita (e il racconto ne dà atto), per quelli che a un certo punto hanno lasciato. «Spretati». Ma Agnese e suo padre Adriano lo sanno: si è preti per sempre.
Poi alcuni scoprono un altro amore, ed è per una regola della Chiesa (di una delle Chiese) e non del Vangelo che le due strade e i due amori non possono convivere. Nel libro ci sono domande che tutti quelli che abbiamo scelto di essere «celibi per il Regno dei cieli» faremmo bene a porci, inclusa la provocazione (anche qui mi affido ad Arturo Paoli) se per qualcuno l’obbligo del celibato non possa esser vissuto come tassa da pagare per entrare in un club di privilegiati.
Dicevo già che parola ricorrente nel libro è vocazione, intesa come scelta di amore, per amore. Allo psicanalista che la interroga sulla vocazione, Agnese risponde di figurarsela «simile alla libertà: tutte le idee in cui crediamo e tutte le idee che amiamo sono simili alla libertà».
La percezione del legame tra amore, fede e libertà mi ha fatto pensare a don Milani, quando afferma che il fatto di diventare prete l’ha vissuta come una scelta di libertà, sentendosi particolarmente libero per essersi preso la «libertà di celebrare Messa».
Fede, amore e libertà ritornano più volte in queste pagine, unite a un altro concetto che lo studente di teologia ha appreso nel suo significato profondo da Bernard Häring, di cui è stato allievo: «Prima degli ordini e delle regole viene la coscienza… più importante di ogni regola… quando sa vedere il bene… a cui ci si allena per tutta la vita». Forse è proprio la libertà, nel suo valore profondo, uno dei vocaboli più assenti nel nostro vissuto di preti, di cristiani.
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La partecipazione a un’udienza papale ai giornalisti suscita una domanda sulla Chiesa e il potere, su Dio e il potere. L’imponenza e la magnificenza degli ambienti da attraversare per giungere al luogo dell’udienza Agnese li vive come «la rappresentazione di che cosa sia il vero potere».
E la rimandano al racconto di quando il padre si recò lì vicino, al palazzo dell’ex Sant’Uffizio, fiducioso di ottenere la dispensa per il matrimonio. Un incontro che non andò bene: «il funzionario lo aveva trattato con sbrigativa freddezza. Gli aveva posto tre domande; se ad almeno una avesse risposto sì, avrebbe avuto più possibilità di ottenere rapidamente la dispensa. Mio padre rispose no a tutte e tre le domande. (…) Gli chiesero se mia madre fosse incinta, o se avesse già avuto figli da lui… se si fossero sposati civilmente, fatto che avrebbe certificato l’irregolarità, per la Chiesa… se fosse stato per qualche motivo condizionato, o costretto, a farsi prete. Mio padre avrebbe potuto risponder di sì, avrebbe potuto dire una bugia: sarebbe stata sufficiente ad accorciare gli anni e le sofferenze, a soffocare le delusioni, a limitare il dolore».
L’attesa della dispensa sarebbe durata dodici anni. Tutte queste cose vengono in mente ad Agnese mentre sale gli scaloni vaticani, dove avverte di aver «visto il potere senza riuscire a vedere Dio».
A me, giovane di Azione Cattolica al tempo del Vaticano II (prima di entrare in seminario), ha colpito ed emozionato la parte del racconto di che cosa era stato il Concilio per i giovani preti della generazione di don Pini, e mi viene da fare un raffronto su che possa rappresentare quel Concilio per i giovani preti di oggi, per i seminaristi di oggi: una delle tante cose da studiare a scuola (sperando che abbiano come insegnanti dei teologi non nostalgici)?
Ci sono stati tempi di passione e di gioia perché la Messa cambiava, gli altari venivano girati verso il popolo, la Parola era proclamata nella propria lingua, ragazzi e ragazze non facevano più la formazione in percorsi separati… Oggi c’è il rischio di vivere queste e altre cose come una normalità (spero sia assente la nostalgia dei bei tempi in cui «qual falange di Cristo redentore la gioventù cattolica in cammino»).
Il racconto attesta come suo padre e i suoi compagni di seminario vissero con speranza «gli anni di don Milani e padre Balducci. Gli anni dei preti operai, gli anni delle chiese di comunità, delle aperture e delle illusioni».
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Tanti altri pensieri e ricordi evoca il libro e dobbiamo davvero esser grati all’autrice. Mi sento però anche di attestare come nei confronti dei preti che hanno lasciato il ministero siano cresciute nella Chiesa, sia a livello di fedeli che di pastori, l’accoglienza, la considerazione e, in vari casi, la valorizzazione.
Pur rimanendo zone d’ombra, oso pensare che siano assai diminuiti, anche se non scomparsi, gli atteggiamenti che sono stati motivo di sofferenza per Agnese Pini e per suo padre. Voglio sperare che ci siano altri preti diversi dal reverendo milanese che riduce la storia della scelta per amore del padre di Agnese alla domanda se la madre fosse o no incinta quando il padre lasciò.
Inoltre, so per certo di vescovi che, nei confronti di loro preti che hanno lasciato, hanno assunto atteggiamenti assai diversi da quello che promise ma non mantenne una visita ai due sposi ormai anziani, e si limitò a mandare loro un rosario di plastica benedetto dal papa.
So di qualche vescovo che, invece, ha benedetto le nozze di suoi preti che si sposarono. Anche il fatto che diversi di loro abbiano ricevuto dal rispettivo vescovo l’incarico di insegnare religione cattolica nelle scuole come non interpretarlo come un atto di fiducia? Guardando avanti altri spazi si apriranno per valorizzare, con le opportune attenzioni, la sensibilità e le competenze di coloro che in ogni caso «restano preti».
Con queste considerazioni non intendo rimediare al dato di fatto che uomini di Chiesa, e in qualche misura la Chiesa nel suo insieme, abbiano chiuso le braccia e il cuore verso dei figli che hanno percorso una strada diversa da quella in precedenza tracciata.
Quello che mi resta, della lettura del libro, è il bisogno di accogliere e non giudicare, di accogliere le sofferenze e rispettare la storia di ogni persona e di sapervi cogliere «le cose buone o riducibili al bene», come amava dire Giovanni XXIII.
Agnese Pini, La verità è un fuoco, Garzanti, Milano 2025, pp. 336, € 19,00, EAN: 9788811016434.






Non è un reato lasciare il sacerdozio o la vita religiosa per sposarsi e non c’è nulla di cui vergognarsi se si è figli o congiunti di ex sacerdoti o ex religiosi. Le scelte di vita privata sono sempre molto delicate e agli altri non dovrebbero riguardare. La chiesa dovrebbe riflettere sulla sua pretesa di imporre ai sacerdoti e ai religiosi una situazione contro natura. Io ammiro quelle persone che hanno il coraggio di abbandonare una situazione anormale. Io conosco diversi casi di ex sacerdoti che si sono formati una famiglia e ora sono felici. A loro vanno tutta la mia comprensione e i miei complimenti.
io conosco diversi ex-celibi o ex-nubili che si sono sposati e ora sono infelici
Gesu in Luca 9,62 dice: “Nessuno che abbia messo mano all’ aratro e poi si volge indietro è adatto per il Regno di Dio”. Chi ha orecchie per intendere, intenda…
Grazie Signora Giuseppina di avermi risposto! Ammiro la sua continua ricerca e il suo continuo meditare sul Regno dei Cieli, condivido la ricerca ,mi interrogo anch’io sul come su come aderire ,su come vivere… Per me Signora agli occhi di Dio tutte le perle hanno valore: quella raririssima e preziosa, quella meno bella, con qualche impurità, credo fermente che non ne sia scartata nessuna perché “La misericordia ha sempre la meglio sul giudizio”
È vero.. le impurità sono frequenti perché siamo nel mondo.. ma in ogni caso la perla può essere di grande valore con tutte le sue impurità.. può essere esclusiva..
Legga la Genesi.. il Signore Gesù mi ha insegnato che la ricerca della verità deve essere fatta all’origine delle cose.. degli eventi.. pertanto ho cercato la Verità all’Origine.. nel primo libro della Bibbia.. la Genesi.. ci sono due racconti della creazione dell’uomo e della donna.. ho meditato sul secondo racconto.. non è bene che l’uomo sia solo.. .. .. .. ecco.. la donna che corrisponde all’uomo è come una perla preziosa da cercare e trovare..
Sento nel cuore che già nella vita terrena alcune coppie si ritrovano.. altre si lasciano soffrendo molto.. altre ancora non riescono ma tendono all’incontro.. chissà..
Sono nomi scritti in Cielo e sono esclusivi l’uno per l’altra..
https://www.avvenire.it/agora/pagine/nata-da-un-don-verit-che-brucia-ma-matura-frutt-5d99acd1346f4ce7af1049da46344787
Oggi su Avvenire con qualche informazione in più. (Almeno sul perché dei riferimenti allo psicanalista.)
Predichiamo che il reale è più grande dell idea ( grande lezione di papa Francesco) , che dobbiamo incarnare il Vangelo, perché abbiamo un DIO che si è fatto carne. Poi invece tutto è governato dai lacci imposti da persone anaffettive che ignorano completamente il reale in nome di un ideale di chiesa esangue e immobile.
Ma anche no sinceramente. Ognuno di noi conosce persone che sono state in seminario e hanno lasciato, oppure erano sacerdoti e poi hanno fatto altro (tra cui sposarsi) così come conosciamo una valanga di persone che si è separata dopo sposata ecc. ecc. Nella maggior parte dei casi nemmeno commentiamo onestamente, posso capire che X anni fa facessero scalpore ma oggi mediamente interessa poco a tutti.
In questo caso l’articolo è un po’ particolare, forse chi conosce bene la storia delle persone coinvolte può giudicare meglio, su due piedi mi pare che manchi il contorno o una narrazione ulteriore per capire bene il tutto.
Seminarista fino alla 5ª ginnasio, ora settantenne.
Ho conosciuto alcuni sacerdoti che hanno lasciato e indipendentemente dalle ragioni suesposte pro e contro quella scelta e sul celibato, mi ha sempre negativamente colpito la poca carità dei confratelli nei confronti di chi, tormentato, lascia e vorrebbe continuare ad essere Chiesa con Cristo.
Che brutto veder pubblicamente rifiutare al mio ex prefetto in seminario, la Comunione. Ero in fila al suo fianco e solo il rispetto per Cristo nell’ostia mi ha trattenuto dal togliere la pisside da quelle mani indegne.
Aggiungo che mi hanno sempre insospettito i moralisti tonanti…
Buona serata.
Nella mia collana Scenari ho pubblicato una mia intervista ad Armando Poggi, prete felicemente sposato che parla del presbiterio di Napoli negli anni Sessanta
Il dolore che tracima dal racconto di Agnese Pini – e dall’ottima, rispettosissima ripresa di don Antonio Cecconi – è riflesso diretto dell’assurdità moralistica e legalistica che ha imperversato e purtroppo imperversa ancora in un certo tipo di chiesa. Nessuno si è mai sognato di criticare il celibato e scelte di vita ad esso improntate. Quello che è assurdo è il legame rigido – e ad oggi nei fatti inscindibile – tra celibato e ministero . Per non parlare delle patologie e dei complessi di chi predica con acido rigore certa castità e certe malintese abnegazioni perché ha dentro di sé un caos compresso, oscuro, negato.
Il “Deus est charitas” non potrebbe mai generare ciò che è all’origine del dolore di cui Agnese Pini (e con lei suo padre e non solo) testimonia: quel dolore è generato dagli atteggiamenti e giudizi di torbidi psichismi che non hanno nulla a che fare con la fede, perché se così fosse (e letteralmente grazie a Dio non è!) di un tale “cristianesimo” non sapremmo che farcene, anzi dovremmo tenerci ben lontani da esso o proprio apertamente combatterlo.
Quanto inutile dolore, quanta perdita di tempo, quante battaglie di retroguardia, in un mondo e momento in cui si smarrisce il senso del vivere e del morire. L’unico Vangelo della libertà e dell’amore non ha tempo da perdere con liquami psichici stantii e maleodoranti – purtroppo inconsapevoli e anzi ammantati d’altro – che si riversano sul prossimo generando dolore e oppressione, mentre sono questi stessi “liquami” (che tutti ci affliggono) ad aver bisogno di essere liberati e salvati da quel medesimo Vangelo della libertà e dell’amore.
Onore a quei preti, vescovi, laici ( e ce ne sono tanti!) che questo capiscono, vivono, esprimono.
Quante certezze, quanto integralismo, quanta durezza di cuore nella maggioranza dei commenti… A chi sa tutto (io invece so molto poco…) chiedo: siete così certi che questa è la strada per il Regno dei Cieli?
Le rispondo volentieri perché il mio cuore ha sempre cercato.. cerca e ricerca instancabilmente.. cosa? Chi? l’Invisibile nelle cose visibili.. e si fa trovare.. amo la Verità più dello stesso Amore.. cosa ne faremmo di un amore menzoniero.. ..
Ho tanto meditato sul Regno dei Cieli.. il Signore Gesù ama parlarNe in parabole e quando fa così non vuole arrivare a tutti ma soltanto a chi riesce.. non con l’intelligenza.. bensì con il cuore.
Amo questa preghiera di Gesù.. Ti rendo lode Padre perché hai nascosto queste cose ai dotti e ai sapienti.. e le hai rivelate ai piccoli..
I misteri del Regno dei Cieli sono tanti.. uno in particolare mi attira.. quello della perla di grande valore.. comprata dal mercante che la trova..
Spero che la Perla sia rispettata e amata.. è un dono di Dio molto speciale che origina dal costato.. non dalla polvere.
Grazie Don Giovanni! La sincerità del suo intervento, le sue parole di accoglienza mostrano il volto umano e misericordioso del Maestro che accoglie tutti e non condanna… come invece noi uomini siamo abituati a fare…
“ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco”
“Egli ha in mano il ventilabro, pulirà la sua aia e raccoglierà il suo grano nel granaio, ma brucerà la pula con un fuoco inestinguibile”
“Se il tuo occhio destro ti è occasione di scandalo, cavalo e gettalo via da te: conviene che perisca uno dei tuoi membri, piuttosto che tutto il tuo corpo venga gettato nella Geenna”
“mentre i figli del regno saranno cacciati fuori nelle tenebre, ove sarà pianto e stridore di denti”
“temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna”
Siamo sicuri che Dio perdona tutti?
Siamo certi che la giustizia di Dio non debba essere temuta?
Certamente la perdizione eterna è una drammatica possibilità per ciascuno, però la Chiesa che invece proclama santi e beati non ha mai sentenziato che alcuno sia sicuramente dannato. Nemmeno Giuda. Il grande teologo Von Balthasar, in uno scritto sull’inferno, afferma “il dovere di sperare per tutti”.
Penso che sia meglio un buon padre di famiglia che un prete non buono
Anch’io sono stato ordinato Presbitero il 13 maggio 1985 e, da Viceparroco, mi sono innamorato di mia moglie celebrando il funerale della nonna e vedendola teneramente commossa. Ho lasciato l’incarico e mi sono sposato con lei prima in Comune, il 13 maggio 1989, e poi in chiesa, il 13 maggio 1993, dopo aver ricevuto la dispensa dal Celibato ecclesiastico. La decisione di mantenere la stessa data (il 13 maggio) l’abbiamo presa per significare che sia Sacerdozio sia Matrimonio erano scelte d’amore in un Dio che è Amore. Mia moglie ha insegnato Religione Cattolica (nella sua Scuola era anche punto di riferimento per molteplici attività di raccordo con le istituzioni ed il territorio) ed io sono diventato Educatore Professionale e Psicologo/Psicoterapeuta. Abbiamo due figlie grandi laureate che lavorano entrambe.
Non vi sembra che avremmo potuto essere più utili in Parrocchia, e forse ancora potremmo esserlo, esercitando i nostri doni al servizio della Chiesa?
Ma che senso ha coinvolgere noi che leggiamo nel giudizio sulla sua storia? Soprattutto come psicoterapeuta poi, dovrebbe capire che non serve.
Perché ritengo, personalmente, profondamente ingiusto l’obbligo del Celibato che forse è anche uno dei motivi per cui si è approfondita, nei secoli, la separazione tra la gerarchia ecclesiastica ed i fedeli.
Imitare Cristo Gesù.. essere alla Sua sequela nella evangelizzazione e nel prendersi cura delle anime.. richiede anche questo voto.. la castità.. e la fedeltà al voto fatto.
C’è un Vangelo.. quello degli eunuchi.. in cui Gesù parla di tre categorie di questa tipologia di persone.. quelli così dalla nascita.. quelli diventati così per opera degli uomini.. e quelli che vogliono essere tali in vista del Regno dei Cieli.. ricorda questo Vangelo?
.. e perché Gesù associa la terza categoria al Regno dei Cieli?
.. perché lascia intendere che fa parte di questa categoria?
.. perché Gesù resta celibe nella Sua missione terrena?
La gestualità dell’amore tra un uomo e una donna è stata contaminata.. la comunione maschio femmina non è a somiglianza divina.. a causa del peccato dell’Origine.
Quando il Signore potrà dire Basta.. per i meriti infiniti del Figlio Unigenito Cristo Gesù.. solo allora potrà finire la tribolazione dell’Umanità e far ritorno al Giardino la Purezza del Primo Amore.
“La gestualità dell’amore tra un uomo e una donna è stata contaminata..” No, uomo e donna che si amano diventano una carne sola, cioè in grado di generare, atto divino per eccellenza. Non è questione di contaminare o meno, è questione di rimanere fedeli alla promessa, qualsiasi sia la propria vocazione. Altrimenti si finisce come il grano caduto ai bordi della strada che cresce rapidamente ma poi senza cure appassisce. Quando ero ragazza si diceva che con le convivenze sarebbero spariti i divorzi perché ci si sarebbe sposati convinti (si è visto) oppure che il piccolo gregge rimasto sarebbe stato saldo nella fede perché frutto di una scelta convinta. Fa ridere oggi, basta navigare per qualsiasi pagina cattolica (tradi o prog è uguale) per vedere litigi, odi, rancori, accuse reciproche di essere farisei, bigotti, fondamentalisti, no eretici, protestanti, fratelli maggiori, minori e mediani, ecc. ecc. ecc. per capire che siamo rimasti non pochi ma pochissimi e la qualità è sempre bassa. Con lo svantaggio che almeno prima per la forza dei numeri qualcuno in più di buono saltava fuori. Quindi si, resistere nelle difficoltà, saper tenere fede nelle avversità è un segno di maturità non solo di bigotteria. Del resto i papafrancesco con il nuovo papa sono evaporati come neve al sole ma Bergoglio è stato fedele al suo ministero e alla sua promessa. Se avesse lasciato alla prima difficoltà nemmeno lui sarebbe diventato Papa.
Come mai allora i preti cattolici di rito bizantino possono essere sposati e riescono a evengelizzare e prendersi cura delle anime, e pur contaminandosi sono degni di offrire il sacrificio eucaristico? Forse allora non è una questione dogmatica e teologica (o ideologica dal suo punto di vista), ma solo pratica e pastorale?
Da ragazza ci rimasi molto male quando una catechista che conoscevo bene lasciò il marito dopo pochi mesi per un altro. E uguale per un parroco che era stato fidanzato, diventato sacerdote avuto un figlio lasciato il sacerdozio e sposato. Tutto in pochi mesi. Fine anni ’80. Oggi sono 30 anni di matrimonio di 7 che ci siamo sposati nella mia piccola parrocchia siamo sposati ancora in due soltanto. Se ci penso bene credo che aver visto persone di cui avevo molta stima non tenere fede alla propria promessa mi abbia molto influenzato, mi rendo conto di utilizzare molto questo metro di valutazione da allora. Ha saputo rimanere? Se si mi pare buono. Non mi va di essere tirata in ballo nelle decisioni altrui, né da amici che si lasciano male, né altro. Se vuoi decidere decidi da solo non pretendere che lo faccia al posto tuo. Ogni giorno ai leggono paroloni contro i bigotti o i dogmatici ecc. Ma la realtà è che è difficile per tutti, non solo per chi se ne va, anche per chi rimane.
C’è però una strada che accontenta tutti.. laici e presbiteri.. la intravedo nel Vangelo.. sulla riva del mare di Tiberiade.. .. è scritto un numero – 153 – sono pesci.. grossi pesci.. che il Risorto fa “ripescare” invitando i discepoli a non desistere e a riprovare a Destra della barca.. trovarono.. e la rete non si ruppe..
Quanti segni.. lo stesso numero.. 1.. 5.. 3..
sono sacerdoti che hanno lasciato il ministero e che poi ritornano.. appunto ripescati.. in che modo.. quale sarà il cambiamento?
Vedere con gli occhi del cuore apre un orizzonte sconfinato.. nulla è impossibile a Dio.
Il senso? La sua obiezione denuncia un tentativo di difesa riguardo alla domanda che emerge dalla storia di don Pini e di quella simile di Maurizio Rufino. Domanda che interpella l’umanità residua e superstite dal tritacarne istituzionale e metafisico attraverso il quale ci fanno passare tutti, preti o non preti che siamo, rendendoci incapaci di abbracciare veramente l’altro. Purtroppo, non è solo un problema di chiesa.
Più che difesa ammetto di non capire dove vuole andare a parare questa pagina che mi pare sempre più una sorta di Timone, Bussola quotidiana liberal. Cioè si capisce che sono tutti infastiditi dalla Chiesa che detestano più o meno visceralmente i fratelli nella fede, ma alla fine sono problemi miei? Io sono una che ama rimanere ai bordi, sempre nella Chiesa, sempre in AC ma un passo indietro proprio per non essere coinvolta in queste lotte ferocemente fratricide. Facesse ognuno come vuole, più di così non so che dire.. (non lo so nemmeno per me stessa cerco solo di non perdere un filo di coerenza senza il quale la vita perde di significato). Oggi mi va di essere sincera..
Mio figlio ebbe uno choc enorme quando il sacerdote della parrocchia che faceva il catechismo ai bambini lascio’ la tonaca e si sposo’ con la aiuto- catechista , che per lui lascio’ marito e figli. Ovviamente entrambi non poterono rimanere nella parrocchia e continuare ad insegnare e i bambini del catechismo non li videro piu’ .
Buongiorno, sembra che sia in atto un sistematico a volte più diretto altre volte più subdolo, facendo leva sulla compassione e su un certo vittimismo . Non si può però prendersi gioco di Dio e chi si appresta a servire il Signore in qualsiasi stato di vita, deve essere preparato alla tentazione che spesso ha l’apparenza di cuore qualcosa di molto bello , come un sentimento d’amore. La virtù sta appunto nella rinuncia, seppur sofferta, altrimenti non richederebbe alcuno sforzo, a quella relazione o a quella gioia senza la quale ci sembra di non poter più vivere, sapendo che il Signore è fedele e mantiene sempre le sue promesse. Questo vale anche per chi è sposato e magari durante un lungo periodo di incomprensione e sofferenza matrimoniale, incontra qualcuno che gli fa battere il cuore, ma pregando, resistendo o fuggendo le occasioni , rimane fedele, anche nella cattiva sorte, come promesso davanti a Dio . Anche i santi canonizzati di tutti i tempi sono sicuramente passati attraverso queste tentazioni e le hanno superate , non perché fossero anaffettivi o repressi, ma perché hanno lottato per presentare il dono prezioso della castità che è necessario per progredire nella vita spirituale.
Dice San Paolo nella prima lettera ai Corinzi che Pietro e gli altri Apostoli portavano la moglie con loro, e l’influenza del Neoplatonismo sulla logica della castità a tutti i costi che ha influenzato l’etica religiosa, ma era estranea alla predicazione di Cristo, è accettata da tutti gli storici. Perché dover fare ciò che Dio non chiede?
Certo che l’ha chiesto , in più occasioni , a partire dal discorso di Gesù e poi l’ha fatto capire anche attraverso vari santi, basti pensare a Padre Pio, che vivevano esperienze mistiche, che non sono teorie filosofiche ma incontri realmente avvenuti , confermati da segni miracolosi, da testimoni e da virtù provate … Poi i dottori della Chiesa.. ..I santi sono quelli che confermano con la loro vita davanti agli uomini le verità della nostra fede , se non teniamo conto delle loro parole ed esperienze , non possiamo dirci cattolici ..
Perché quella foto antica a corredo dell’articolo?
Puzza… Anzi spruzza, per dirla con Francesco
Un delicato e intenso affresco su una storia al contempo bellissima e dolorosa.
Ringrazio per l’amore che ammanta tanto la riflessione del mio confratello che della scrittrice. Se potessi parlare cuore a cuore con questa “figlia del prete” le ricorderei di un grande teologo francescano che affermava:” anche Dio ha provato erotismo nella creazione del mondo”.
Le ricorderei e ricorderei a me stesso la voce fuori campo che chiude il Genesi in cui è scritto:” non è bene che l’uomo sia solo”.
Le ricorderei e ricorderei a me stesso le parole del Maestro sugli ” eunuchi che nascono tali, di quelli che sono fatti tali dagli uomini e di quelli che sono tali da Dio”.
Le ricorderei e ricorderei a me stesso che tutto il Sacerdozio Antico Testamentario dei Leviti ha come celibato la terra data in eredità alle restanti undici Tribù.
Le ricorderei e ricorderei a me stesso che dei Dodici forse solo Giovanni era celibe e che il Maestro si scelse Pietro come suo secondo e Vicario dopo averle guarito la suocera.
Le ricorderei e ricorderei a me stesso tutta la teologia paolina sul celibato e verginità della chiesa nascente ove nelle lettere pastorali a Tito e Timoteo ” vescovi e diaconi siano sposati una sola volta”.
Le ricorderei e ricorderei a me stesso che per più di un millennio la Chiesa ha accolto il Sacerdozio uxorato come un dono e una risorsa è come ancora oggi la chiesa cattolica di rito bizantino e la chiesa ortodossa abbiano la presenza di uomini sposati che sentono la violenza di Dio a chiamarli come Suoi ministri perché come disse Atenagora al Sommo Pontefice :” i Sacramenti dell’Ordine e del Matrimonio non si escludono a vicenda”.
Non mi dilungo; ma dono recenti le pubblicazioni delle lettere del cardinal Pellegrino sulla profezia di una chiesa che prima o poi riconoscerà nuovamente in Occidente il valore e la bellezza di un clero neotestamentario.
Per onestà intellettuale qualcuno riprenderà le mie parole:” uomini sposati che sentono la violenza di Dio nella chiamata al ministero”.
Capisco.
Ma mi domando se il.problema della chiesa oggi e ieri sia o sia stato seguire un’altra via del cuore continuando ad avere il Signore nel cuore e mai, come di questi tempi senza Dio e senza uomo, un padre sposato e prete sarebbe una doppia testimonianza.
Vorrei dire alla scrittrice:” il cuore ha delle ragioni che la ragione non può comprendere e che nel sacrario della coscienza anche Dio.di toglie i calzari”.
Stia bene e che Dio la benedica.
Scusi, ma più che ricordare alla sig.ra Pini ed a se stesso qua sembra che lei abbia colto l’occasione per manifestare il suo disagio nei confronti della vita della Chiesa. Tanti non hanno questo disagio, conosco dei preti che parlano del loro sacerdozio come di una unione sponsale; poi ci sono anche gli uomini sposati che si stufano della moglie, come anche i preti che si stufano del celibato… Dovremmo allora considerare la monogamia o il celibato come una costrizione fuori tempo? O non piuttosto ritrovarne le ragioni?
Rispetto la sig.ra Pini e suo padre (anche io conosco figli di ex preti, alcuni sono molto credenti ed altri praticamente atei), da ogni storia ci sono spunti di riflessione da affrontare con sincerità, ma forse sarebbe meglio considerare le storie personali per quello che sono, personali e non paradigma per la società.
In questi anni la mentalità è cambiata moltissimo, gli stessi presbiteri confratelli di chi lascia il ministero sono maggiormente comprensivi e misericordiosi, anche se qualche resistenza persiste soprattutto nei preti giovani; ma si sa, appena usciti dal seminario sono tutti un po’ fondamentalisti, poi s’inseriscono nella pastorale, entrano in contatto con i fedeli laici e coi confratelli di lunga esperienza e allora si umanizzano.
La signora Pini dovrebbe essere orgogliosa di aver un genitore due volte papà, perché contrassegnato da fecondità sia spirituale che naturale, coraggioso e responsabile; pronto a riconoscere i propri sbagli e capace di ripararli in prima persona.
Se posso, ho evidenziato la frase “Studiano fianco a fianco:. Nell’atto dolore proponiamo “di fuggire le occasioni prossime di peccato”. Secondo lei, un prete o un seminarista che studia Gianvito a fianco o ad una bella ragazza non è un’occasione prossima di peccato?
Ho etto da una rivelazione privata che Gesù desidera che i sacerdoti vivano in comunità e sperimentino la fraternità apostolica e la Provvidenza e che questa sarebbe stata la cura per evitare di cadere nell’élite…non credo nella libertà legata all’appagamento di sé stessi, anche se il mondo invita a fare questo e a vivere così, perché in questa direzione è ammissibile tutto…
Ho letto con rispetto e senza giudizio l’articolo, perché la fragilità umana va accolta con amore.
A mio avviso, se la divisione nella vocazione è forte, ci sono altre religioni che possono accogliere i sacerdoti che hanno desiderio di sposarsi e creare una famiglia.
Ma perche “altre religioni”, la religione cristiana e (toh, guarda che scoperta) anche la cristiana cattolica da la possibilità di essere preti sposati e sono presenti anche in Italia e fanno servizio nelle diocesi italiane; attenzione che sono fra di noi e non lo sapete…
Ho letto con interesse l’articolo che riassume il contenuto del libro di Agnese Pini. Da prete anziano che ha vissuto il tempo del 68 sia in Italia che in America Latina, capisco i rumori e difficoltà incontrate sia da Agnese che da suo padre. Ho incontrato ed accompagnati tanti confratelli che hanno lasciato . Alcuni hanno tagliato i ponti, i più sono rimasti fedeli al Vangelo, nonostante le difficoltà incontrate. Ora, grazie a Dio sia da parte della gerarchia come della gente che cose sono in parte cambiate anche se non del tutto. Per me sono cari confratelli con i quali quando posso mi confronto e chiedo lumi. Ringrazio Agnese Pini per questa testimonianza coraggiosa, che lo Spirito le ha suggerito di donarci. Io ringrazio il Signore che mi ha aiutato a camminare, a cadere e a rialzarmi per continuare ad essere in modo diversi discepoli del Maestro che tutti invita alla santità
Grazie don Giovanni, il suo dovrebbe essere il gesto di accoglienza che contraddistingue ogni battezzato, dalla ammissione dei lapsi in poi, nella chiesa cattolica. Anzi, direi, dalla risposta di Pietro alla triplice domanda del Signore risorto in poi. Il suo sí e la sua professione di fede, sbaraglia ogni meschino tentativo clericale di sentirsi migliori degli altri. Grazie.