
Niente di più volatile delle parole e della musica: nel momento in cui risuonano sono già scomparse e sostituite da altre frasi e così via. Però entrambe vengono seguite e ben ritenute se formulano un percorso logico che desta attenzione e lascia tracce di sé in chi ascolta.
La musica di Mozart, Beethoven, Mendelssohn, Brahms seguono un filo logico espresso attraverso il rispetto delle regole proprie della forma sonata, in un susseguirsi concatenato e ricorrente di temi, incisi, sviluppi e variazioni, il tutto con melodie cantabili.
Durante e dopo l’ascolto delle loro musiche si avverte un senso di pienezza e di gioia, perché si è vissuta un’esperienza spirituale: il loro genio e il loro animo hanno parlato al nostro cuore che ha trovato pieno appagamento da un discorso sensato e lineare, con una unità tematica, un ordine chiaro e una logica connessione tra le frasi che permettono di gustare quelle piacevoli sorprese musicali che Andrea Grillo ha definito “spezie”: repentini ma ben ragionati cambi di ritmo e di dinamica, intelligente scambio di piani sonori e interventi strategici di famiglie strumentali.
Il canto liturgico, se frutto di un’autentica ispirazione e se composto ed eseguito nel rispetto delle regole, conduce alla stessa esperienza. Tutti, assemblea e ministri a vario titolo, devono essere aiutati a entrare in contatto spirituale col Signore, anche se attraverso i segni. Il segno, però, deve essere vero, autentico, non artefatto, non di basso profilo.
Esso svolge una funzione ministeriale: elevare l’anima a Dio facilitando la preghiera e il giubilo. Chi esercita un ministero nella liturgia con intelligente creatività e rispetto dei fondamenti, deve essere poco visibile, non deve occupare la scena mettendoci eccessivamente del proprio: basta la liturgia con la nobile semplicità dei suoi riti.
Ritorno alla sacralità?
Si tratta di trovare un giusto equilibrio che sappia unire fedeltà e creatività, capacità di non confondere sacralità con solennità, senza dimenticare le urgenze del tempo e la situazione di chi partecipa: «Donaci occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli: infondi in noi la luce della tua parola per confortare gli affaticati e gli oppressi» (PE V /C).
A proposito, trovo molti pertinenti le osservazioni di Louis-Marie Chauvet:
«Nonostante le sue gravi ambiguità, la sacralità è comunque ineludibile, nel cristianesimo come in qualsiasi altra religione. Le sue manifestazioni, in particolare nella liturgia, possono essere l’espressione di una bella relazione personale e comunitaria con il Dio del vangelo. Bisogna evitare gli eccessi: pizzi e incensi, gesti e atteggiamenti ieratici oppure canti dominati dall’io della prima persona singolare, le cui parole mancano della dovuta distanza rispetto al mistero; rifiuto “purista” che porta inevitabilmente a liturgie piatte, persino scadenti. Alla freddezza di un cerimoniale ritenuto troppo costrittivo si sostituisce allora il “calore” di una soggettività che scade subito nella banalità della familiarità o nella esplosività di una liturgia urlata. Le derive in questa direzione che si sono verificate nel passato, rivelano che la cura è peggiore della malattia» (cf. La Messa detta altrimenti. Ritornare ai fondamenti, pag.16 seg.).
Si va dal voler rimarcare la sacralità con canti in prevalenza polifonici appesantiti però da un’esecuzione lenta e da una sillabazione a volte non spontanea – come se le sillabe fossero incollate le une alle altre –, a canti in linea con i cliché standard della musica leggera.
Dilettantismo
Restando nell’ambito del canto, è da notare un particolare fra i tanti: se una sinfonia scorre fluida perché, a parte le pause, non c’è iato tra una battuta e l’altra, la linea melodica è chiara, bella e cantabile; troppo spesso, invece, capita di sentire canti in cui manca proprio la cantabilità, e la continuità del discorso musicale è interrotta da battute scollegate fra loro – quasi dei getti di geyser autonomi – e da pause arbitrarie.
Bisognerebbe lasciarsi educare dall’ascolto dei Lieder di Schubert che sono esempio di un connubio intelligente tra musica e parole. Un’esecuzione frutto di un’accurata riflessione sulla partitura e sulle parole saprà trovare il tempo giusto nel rispetto delle elementari regole del canto e anche solo del buon gusto, e farà sì che il canto risulti nobilitato, conservando la sua identità e la sua vivacità e fluidità. Spesso, invece, prevale il pressapochismo, in modo particolare riguardo al repertorio musicale e all’esecuzione.
Però – passi il paragone – nei laboratori di biologia, di chimica farmaceutica, di fisica e nell’uso delle strumentazioni sanitarie, ci sono regole precise, formule e procedure alle quali attenersi. La liturgia si realizza attraverso riti che educano perché hanno un senso ben preciso e un retroterra teologico. L’OGMR (Ordinamento generale del Messale romano) dà indicazioni rituali da seguire con creatività intelligente ed equilibrata, senza dimenticare che il tutto è finalizzato a creare le condizioni perché si venga aiutati a entrare spiritualmente in sintona col mistero pasquale.
Nel versante musicale, ogni animatore musicale dovrebbe avere come punto di riferimento autorevole il testo di Daniele Sabaino Animazione e regia musicale delle celebrazioni, che aiuta a contestualizzare il tipo di canti per ogni celebrazione attingendo da vari repertori.
Nella liturgia non occorre certo il perfezionismo e l’estetismo, come fa giustamente notare Th. O’ Loughlin:
«Buona parte della nostra liturgia può sembrare attraente non perché ci parla di Dio, bensì perché appaga il nostro senso di ordine e di bellezza. Ci riuniamo in un’assemblea liturgica per essere profetici e per alimentare il nostro discepolato, non per vivere un’esperienza estetica» (Quale mensa per noi tu prepari, pag. 54).
Non si può costringere la liturgia in una armatura blindata fatta di regole. Nell’ultima Cena, a parte le regole della Pasqua ebraica, c’era poco da fare “etichetta”; e tanto meno sul Calvario. Se, però, quegli eventi si fanno nostri contemporanei per ritus et preces che, nel tempo, hanno preso la loro forma, occorre che chi svolge un ministero abbia consapevolezza di ciò, evitando anche l’eccesso opposto: la spettacolarità che «spegne il mistero e impedisce di cogliere che l’evento sacramentale viene da Dio. La liturgia sia insieme seria semplice e bella, sia veicolo del mistero, rimanendo al tempo stesso intelligibile, quale luogo educativo e rivelativo della fede» (CEI, Il volto missionario delle parrocchie in un mondo che cambia, n. 8).
La liturgia non è il luogo dell’esibizione personale e della ricerca estetica, ma il momento in cui esibirci in tutta la nostra verità davanti al Signore, perché alla mensa della Parola e del Pane ci lasciamo trasformare. «Lo scopo della liturgia e della sua riforma non è la gratificazione dei vari ministri, né quello di attirare “clienti” desiderosi di novità spettacolari, ma la riforma del nostro modo di essere cristiani» (Sirboni). I riti, canto compreso, nella misura in cui sono vissuti con decoro, sono segni performativi.
Manipolazioni
Se il canto è legato strettamente alla liturgia per compiervi una sua ministerialità, deve comunque essere eseguito bene, senza additivi arbitrari.
Mogol, in riferimento alla musica leggera, dice ai suoi allievi che alterare la melodia e le note di una canzone rappresenta una mancanza di rispetto nei confronti degli autori e dei compositori. Egli considera la melodia come parte integrante e indivisibile dell’opera, frutto di un atto creativo: dev’essere rispettata nella sua forma originale, perché qualsiasi modifica sostanziale, a suo avviso, ne snatura l’essenza. Il grande Fabrizio de André resta un modello valido di interpretazione fatta di precisione nella pronuncia, fedeltà alla partitura e intelligente immedesimazione. Tanto più ciò vale per il canto liturgico.
Invece, capita frequentemente di vedere suonatori con grossi raccoglitori zeppi di canti con le sole parole e gli accordi, spesso chiaro indizio che ci si affida a ciò che si ricorda della melodia: di conseguenza. si sentiranno note cambiate o aggiunte arbitrariamente. Posso capirlo nel contesto di un revival televisivo in vena nostalgica in cui certe canzoni della musica leggera del passato vengono eseguite con una certa libertà, ma la liturgia non è il momento di revival, esibizioni e interpretazioni soggettive con portamenti esagerati di tipo nostalgico-sentimentale da parte del solista che si esibisce.
Il maestro Riccardo Muti, nel denunciare quello che per lui è «il malcostume di suonare in chiesa canzoncine banali, accompagnate da strimpellatori, con testi vuoti di significato dove sarebbe meglio il silenzio per parlare con Dio», mostra un’evidente, comprensibile e motivata intolleranza per certi strumenti.
Si tratta, in mancanza di altro, di saperli usare: conosco un giovane animatore del canto liturgico che preferisce con intelligenza adattare l’accompagnamento con la chitarra alle caratteristiche del brano. A seconda della tipologia, alterna arpeggi e pennate (strumming), facendo sì che l’esecuzione strumentale non scavalchi le parole cambiando la natura della canzone. Un canto contemplativo è più opportuno eseguirlo con un delicato arpeggio, un canto gioioso e vivace invece richiede uno strumming intelligente.
Se le percussioni nelle orchestre sinfoniche non condizionano il ritmo, bensì sottolineano con autorevolezza e dignità momenti e passaggi forti, quelle incorporate nelle tastiere rovinano tutto. Bisogna suonare con educazione musicale e attenzione al canto che dev’essere preghiera. «Suonate la cetra e cantate inni con arte» ci esortano i Salmi 32 e 47.
Capita, a volte, di sentire i canti di Frisina accompagnati con la chitarra: quelle melodie assumono una certa qual deformazione ritmica, quasi dinoccolata, certamente estranea alle intenzioni dell’autore.
In molte diocesi esistono Scuole o Istituti diocesani di musica sacra per un’adeguata e non improvvisata formazione di organisti, direttori di coro, chitarristi e cantori.
L’organo, comunque, resta lo strumento musicale di elezione per la liturgia: «Nella Chiesa latina si abbia in grande onore l’organo… il cui suono è in grado di aggiungere un notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti. Altri strumenti, poi, si possono ammettere nel culto divino…, purché siano adatti all’uso sacro o vi si possano adattare, convengano alla dignità del tempio e favoriscano veramente l’edificazione dei fedeli» (SC 120).
Buongiorno tristezza
Recentemente, scambiando con un amico teologo i nostri pareri sui canti di chiesa, gli dicevo della mia sensazione che certi canti siano un po’ tutti uguali e avvolti da un velo di malinconia. Con mia sorpresa, mi confidò di provare la mia stessa sensazione. Forse anche a lui capita di partecipare a messa con la famiglia «aspettando però ogni volta pazientemente che il canto di turno finisca» – come diceva il maestro Carlo Maria Giulini, per tornare a vivere la liturgia senza distrazioni.
Forse sto calcando i toni e sto generalizzando, non tenendo nella giusta considerazione tante belle realtà in cui il canto liturgico condotto a dovere conduce la mente e il cuore a Dio. Comunque, E. Brignano, in uno dei suoi esilaranti monologhi, ha imitato con esattezza la maniera deformata, lenta e malinconia con cui viene eseguito il bellissimo e vivace Alleluia di Taizè, mimando anche l’immancabile strumming della chitarra.
Il giubilo
Il salmo 99, nella versione per canto di Gelineau, a partire dal ritornello di Stefani, è un canto di gioia: «Venite al Signore con canti di gioia. O terra tutta, acclamate al Signore, servite il Signore nella gioia, venite al suo volto con lieti canti».
Da dove scaturisce la gioia nel celebrare? Certamente dal «clima festoso della celebrazione motivato dalla consapevolezza dell’incontro con il Risorto. Il banchetto eucaristico nutre anche la speranza dell’incontro definitivo con lo Sposo. Perché la festa sia vissuta così, occorre che l’assemblea si riconosca nel Signore come nel suo capo. È l’assemblea che crea la festa, perché incontrandosi fraternamente gli uni e gli altri, può diventare la sorgente di una gioia più grande (san Girolamo); ma è anche, inversamente, la festa che crea l’assemblea, perché celebrare la morte e la risurrezione del Signore è già anticipare nell’oggi la festa futura, quella degli ultimi tempi» (Enzo Lodi, Liturgia della Chiesa, pag. 118-119).
In tanti canti si nota piuttosto un’allegrezza affettata e un certo tono giulivo che spesso sembrano in contrasto con «l’infinito dolore di cui è pieno il creato» (S. Quinzio) e il grido degli oppressi. Altra cosa è invece il giubilo come esperienza spirituale della presenza di Dio, frutto spontaneo e non artificioso di melodie e parole che, parlando al cuore dell’assemblea, hanno la capacità endogena di creare un’atmosfera frutto anche di “lieti canti”.
Un’idea di giubilo musicale possiamo farcela ascoltando la Toccata, adagio e fuga di Bach (BWV 564), subito dopo l’assolo del pedale nel primo movimento, oppure i suoi 5 concerti per pianoforte e orchestra.
Molti canti eseguiti nel giusto tempo (non certo in modo tendenzialmente smosciato che puntualmente elimina le sincopi) creano un clima festoso senza forzature e, sebbene un po’ datati, hanno la capacità di parlare al cuore.
Giusto per dare qualche indicazione necessariamente incompleta e rimandando comunque al vasto campo dei vari Repertori (Nazionale, Gen, Rinnovamento…) da cui scegliere le perle, penso a canti quali Siamo riuniti Signore, Jubilate Deo, Nella Chiesa del Signore, Popolo santo di Dio, o Luce radiosa, Signore sei venuto fratello in mezzo a noi, la messa per i fanciulli “Alla tua festa”, Questo pane spezzato, Frutto della nostra terra… Sono canti che, comunque, nel tempo risultano sempre attuali ed emblematici per la loro pertinenza rituale e per la loro capacità intrinseca, dal punto di vista musicale, di coinvolgere tutti in un clima gioioso e senza forzature.
Un pizzico di humor
Manuel Belli, teologo e liturgista, che ci sa fare con i giovani ed è impareggiabile nel fare i suoi “scherzi da prete”, ci offre i criteri per un buon canto liturgico, a partire da affermazioni banali che egli ovviamente contesta: «Basta che sia un canto nuovo, basta che sia molto chitarrabile, ritmato e che piaccia ai giovani». Enumera poi altri tre principi o criteri sbagliati: «Se è nuovo va bene, nuovo è bello, chitarra contro organo vince chitarra». Invece, «nuovo sì, ma con stile!» (e non è certamente in stile gridare le finali e in maniera sguaiata).
Manuel denuncia, infine, una forma di consumismo e invita invece a «spendere qualche energia (e soldi) in meno a cercare tutti i canti nuovi che si trovano su YouTube (o sul prolifico mercato editoriale), e provare invece a raffinarci l’orecchio per un canto sacro magari di una grinta un tantino superiore. Educarsi alla musica sacra per andare in profondità nella liturgia».
Invita, infine, a raffinare il gusto ascoltando «certi canti di Taizè e… il gregoriano».






Capisco il senso generale dell’articolo, ma nell’articolo mi pare non venga presa in considerazione la partecipazione dell’assemblea e l’inculturazione nella comunità nella quale ci si trova.
Vero che in alcuni casi l’esibizionismo travalica il servizio, ma sarebbe importante provare a spostarci al di la dei canti e provare a ragionare sull’assemblea, compreso il modo ed il senso di educarla.
E ha detto tutto, cioè niente.
Articolo che, sinceramente, non appare costruttivo in tema di musica nella liturgia. Si assiste a un’elencazione, travolgente, di citazioni, posizioni, sensazioni prese in diverse direzioni, condivisibili o non che lo siano; da alcune di queste citazioni non emerge, a mio parere, un’adeguata e completa comprensione del contesto, tanto da rendere l’articolo uno strumento che mi pare foriero di confusione.
Pare, persino, che questa confusione sia voluta o comunque egoisticamente accettata …
Detto questo, condividendo pienamente il pensiero espresso da Marco M., mi permetto di aggiungere come la questione musicale, in ambito liturgico latino, trova soluzione esclusivamente accostandosi al Messale attualmente compendiato nell’edizione di Giovanni XXIII del 1962. Con quanto dico voglio sottolineare come in quell’edizione (in quanto fatta nell’ambito della viva tradizione della Chiesa) sussiste un meraviglioso equilibrio di azione, tempo, ruoli, attenzione e comune centralita’ che la musica sostiene mirabilmente e che e’ condiviso da tutti i partecipanti alla Liturgia.
Nel rito detto di Paolo VI questa situazione non e’ stata prevista; vi ci si e’ approcciati sotto un errato – ma comodo – ombrello chiamato “creativita’” o con altri termini ben conosciuti e ormai chiaramenti privi di significato (a motivo del loro abuso) e … il risultato e’ sotto gli occhi di tutti…
Anche se nelle intenzioni della riforma di Paolo VI, forse, non era cosi’, la conseguenza effettiva e, diciamolo pure e prendiamone atto, non recuperabile … e’ questa!
Di fatto, si tratta di una riforma che, priva di fondamenta, vacillera’ e traballera’ sempre …; penso che tutti – anche chi si riconosce nell’articolo in commento – non possano negarlo.
Direte: le Scuole diocesane di musica sacra fanno un ottimo lavoro: e’ vero!
Ma invito tutti a coinvolgere un parroco a far seguire, da coloro che cantano ordinariamente nella sua o nelle sue parrocchie, i principi che dovrebbero essere coltivati nelle Scuole diocesane …
Se ne guarderebbe bene, difronte alla supponenza, mascherata da buonismo e visibile come sciatteria, di tanti protagonisti (li chiamano “animatori”…), sostanzialmente, culturalmente vecchi, fermi agli anni’70 (anche se magari nati dopo: vere vittime delle riforme post-conciliari, ai quali i padri conciliari e post- conciliari hanno sottratto la bellezza e la verita’…) e altrettanto “clericalmente sicuri” nel loro orgoglio, che – peraltro come ammette anche l’autore dell’articolo – la fanno da padrone in ambito liturgico (musicalmente inteso), ma non sanno nemmeno, per esempio, la differenza tra musica in generale, musica sacra e musica liturgica …
Questa e’ la realta’ e l’impostazione dell’articolo, nonche’ l’approccio di tanti citati nell’articolo (in primis, mi pare, Chauvet – cosa c’entrano i pizzi con la musica? e Belli – mi pare sopravalutato, chiedendomi perche’) che rischiano solo di perpetuare l’odierna situazione di completo disastro liturgico e musicale-liturgico.
Grazie.
Quando si intona un canto tradizionale come la Salve Regina o il Venite Adoremus a Natale , tutti ma dico proprio tutto si uniscono commossi al canto mentre con le musichette pop anni 70 stanno tutti muti .
Ma gli “esperti” di musica sacra non hanno occhi per vedere ne’ orecchie per sentire .
Non entro nel merito delle musichette pop anni 70…ma non credo neppure che il canto liturgico debba provocare commozione.
Sono d’accordo con lei
A proposito del gregoriano. In molte chiese è ormai considerato come una pestilenza da cui guardarsi. E ciò è un ulteriore sintomo della corruzione del gusto musicale in atto. Il gregoriano è un canto che nella sua semplicità, compostezza e afflato mistico eleva veramente lo spirito a Dio. Il motivo principale per cui lo si ostracizza è che il testo latino non è comprensibile alla maggior parte della gente. Ciò può essere vero per molti canti, ma davvero un “Sanctus…benedictus qui venit in nomine Domini…” un “Agnus Dei qui tollis peccata mundi…” un Pater noster, un’Ave Maria ecc. sono incomprensibili? Si tratta di un latino trasparente e comunque, avendo recitato o cantato tante volte questi testi in italiano, anche il testo latino è comprensibile. Ma anche qualche altro canto il cui testo è più difficile da capire diventa comunque preghiera con il semplice ascolto di un’esecuzione che eleva l’anima. Con questo non voglio dire di usare abitualmente questo linguaggio musicale, ma qualche assaggio ogni tanto, almeno, penso che sia più che accettabile, anzi, auspicabile. In un coro, poi, esercitarsi a cantare il gregoriano aiuta anche a migliorare la tecnica vocale, a modulare la voce e rispettare il fraseggio.
Bello quasi tutto l’articolo, anche se di difficile applicazione nelle parrocchie, ma la citazione di M. Belli proprio non ci voleva, perché è impropria e fa perdere lo spessore a tutto il resto.
E il gregoriano?
Nella sua semplicità è stato la colonna sonora di secoli di ritualità latina.
Niente?
Non merita neppure una citazione?
Eppure proprio SC raccomanda di conservare e onorare il canto gregoriano.
Ma lasciamo stare, sono io un inguaribile passatista.
Molte delle istanze della Sacrosantum Concilium non sono applicate e una di queste è la scomparsa almeno nelle parrocchie, del canto gregoriano.