
Sul numero 1/2025 del notiziario del Centro Pattaro di Venezia, Appunti di teologia, è ospitato un testo di Andrea Toniolo, già preside della Facoltà teologica del Triveneto, che, di fronte alla crisi che la Chiesa attraversa in Occidente, immagina una conversione della figura e del ruolo del prete necessitata dalla contestuale conversione sinodale della Chiesa promossa da papa Francesco. Un vero e proprio cambio di mentalità e di prassi che chiede una ricalibratura dell’azione pastorale e degli organismi di partecipazione per consentire l’esercizio di una vera corresponsabilità differenziata tra preti e laici. Riprendiamo di seguito la proposta di Toniolo.
«Dio voglia che non manchino ai nostri giorni i buoni pastori; Dio non permetta che ne rimaniamo privi» (sant’Agostino, Discorso sui pastori). La preghiera del vescovo di Ippona risulta quanto mai attuale: la preoccupazione diffusa nelle nostre terre riguarda il calo drastico del numero di ministri ordinati, che renderà impossibile garantire il volto di Chiesa finora delineato. La preghiera di sant’Agostino, tuttavia, non è semplicemente per avere pastori ma «buoni» pastori. Non è preoccupato dei numeri ma della qualità. Ad ogni modo, la situazione inaspettata della carenza forte di clero non solo oggi ma anche in futuro preoccupa, con il rischio che diventi ossessione.
Tale situazione chiede un buon discernimento teologico secondo la prospettiva dei segni dei tempi: che cosa significa una Chiesa con pochi preti o addirittura senza? Possiamo rassegnarci a non avere la presenza di pastori nelle comunità? Si può pensare a una ripresa vocazionale nel prossimo futuro? Quale idea di Chiesa e di pastorale è da pensare nel nuovo contesto? La figura di un prete diocesano, responsabile unico di zone pastorali o di molte parrocchie, può ancora essere un modello di vita significativo?
Nessuno prevede il futuro e la storia insegna che non sempre le previsioni sociologiche hanno avuto ragione, anche se la demografia non lascia molto scampo. Senza mettere ipoteche sul futuro, specie in ambito vocazionale (ci sono sempre stati momenti di crisi e di ripresa) uno sforzo di immaginazione sulla Chiesa che verrà è necessario. Non possiamo prevedere nei dettagli gli scenari prossimi ma siamo chiamati a preparare la strada perché possa essere tenuta viva la fede e possa esserci ancora l’annuncio del Vangelo.
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Almeno tre elementi sono da tenere presenti: il primo riguarda l’idea di Chiesa, il secondo l’idea di prete, il terzo l’idea di laico. La riflessione che segue intreccia questi tre fili.
Partiamo dall’affermazione che la Chiesa cattolica non è pensabile senza ministero ordinato, senza qualcuno che possa presiedere l’Eucaristia e, insieme, una comunità, perché non può esserci una Chiesa senza Eucaristia. Venendo da una pastorale fondata molto sulla quantità delle Messe, questo non significa che basta celebrare la Messa per formare la comunità. La pastorale tradizionale è costruita su questa illusione o pretesa.
L’Eucaristia non è più, specialmente oggi, il punto di partenza ma è il punto di arrivo della fede. Non si comprende l’Eucaristia se non c’è una frequentazione della Bibbia, che prepara la mensa della Parola, e non si comprende l’Eucaristia se non c’è una comunità che cura le relazioni soprattutto con i più fragili, relazioni che preparano la mensa del Corpo del Signore, del pane spezzato, e rendono «vera» l’Eucaristia. Se vale l’affermazione teologica che l’Eucaristia fa la Chiesa perché in essa c’è il DNA del cristianesimo, vale soprattutto nel tempo attuale l’adagio formulato al contrario: la Chiesa fa l’Eucaristia, nel senso che, senza una comunità di relazioni fondate sulla carità, la Messa rimane un rito esteriore, lontano dalla vita.
La cura delle relazioni e l’ascolto della Parola sono il grande e vero offertorio da presentare all’altare, che rendono vissuta la celebrazione Eucaristica, la quale a sua volta diventa nutrimento e forza. Per formare comunità capaci di relazione e di ascolto, ci vuole il contributo di tutti, data la pluralità delle condizioni spirituali; non basta avere preti, ma è necessario valorizzare i carismi di ogni battezzato e individuare ministeri in base ai bisogni pastorali. Questa è la prima conversione a cui le nostre comunità cristiane sono chiamate.
Evidenziato questo, non possiamo dimenticare, però, che nella Chiesa cattolica il ministero ordinato può essere sostituito solo dal ministero ordinato; la struttura sacramentale della fede esige che riceviamo la salvezza mediante dei gesti e persone che rappresentano sacramentalmente l’agire di Cristo (la salvezza non è un nostro merito, ma ci viene donata). Presiedere l’Eucaristia è proprio del presbitero o vescovo, non può essere affidata a un laico o a un diacono. Ma come poter garantire la realtà sacramentale della Chiesa e della fede con pochi preti, sempre più con i capelli grigi e stanchi? Il calo numerico del clero porterà a far scoppiare la figura del prete in pastorale, a renderne impossibile la vita e il ministero.
Per questo va ripensato superando la concentrazione clericale della pastorale ed essenzializzando il ministero dei presbiteri.
La seconda conversione riguarda l’idea e il ruolo del prete. Basta riprendere il dibattito del Vaticano II e la storia postconciliare sul ministero presbiterale per comprendere la fatica di mettere a fuoco la figura del prete pastore, nella Chiesa moderna. Non è un problema teorico ma pratico: riguarda il modo di esercitare il ministero, lo stile di vita, le relazioni con gli altri preti, con i laici, il modo di vivere la propria esperienza spirituale.
E non è questione di qualche aggiustamento della condizione esistenziale o pastorale, ma della rivisitazione di alcuni capisaldi del ministero ordinato, si chiama in causa l’immaginario, la valenza simbolica e sociale costruitasi attorno a tale figura, e, in particolare, la configurazione del “potere” del ministro ordinato.
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Il ministero specifico dei preti – quello della presidenza – andrebbe pensato e configurato non in forma individuale, ma relazionale, condivisa, «sinodale», e la novità sta nella relazione con gli altri preti e i laici. Il Codice di diritto canonico recepisce un’istanza di condivisione – rispetto al codice del 1917, che non menzionava i laici nella cura animarum del parroco – presentando l’importanza della collaborazione dei laici nella cura pastorale (canone 519). I laici collaborano nella cura della parrocchia: un parroco non governa più da solo; è responsabile dell’intera comunità, ma non da solo.
Da questo punto di vista, sarebbe importante ricuperare la dimensione sinodale e collegiale della presidenza, rispetto a quella individuale. Il Codice prevede la possibilità della guida in solidum con un moderatore di una unità pastorale o più parrocchie (canone 517), ma non mi pare abbia molta fortuna, perché il modo di concepire la guida pastorale è ancora fortemente gerarchico e individuale. La comprensione sinodale della Chiesa, costitutiva, come ha ribadito il magistero di papa Francesco, dovrebbe portare a una revisione giuridica e pratica dell’esercizio dell’autorità del clero.
Nel testo finale del Sinodo sulla sinodalità (ottobre 2024) emerge chiaramente la denuncia del clericalismo, che altro non è che una deformazione del potere del presbitero, una patologia. Antidoto a tale piaga è certamente la prassi della sinodalità, oltre a un lavoro di formazione spirituale, relazionale, psicologica e teologica.
Il potere è necessario per la missione della Chiesa, potere però inteso come capacità di amare, potenza del perdono e del servizio, resistenza al male, come forza della non-violenza, come capacità di tenere viva la speranza, come capacità di edificare una comunità nella fede, come coraggio e autorevolezza della profezia. Seguire Cristo servo e crocifisso non significa scegliere la debolezza, la pusillanimità, l’impotenza, la timidezza.
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Come si traduce tutto questo nello stile di un presbitero (o meglio più presbiteri) chiamato a presiedere?
La struttura sinodale della Chiesa permette di evitare due estremi: pensare la Chiesa come monarchia/oligarchia (il potere è solo nelle mani di uno o di pochi) oppure la Chiesa come democrazia (per votazione decide la maggioranza). Il potere nella Chiesa è solo quello di Cristo. La Chiesa non è una monarchia o un’oligarchia, perché il potere non è in mano a uno o a pochi, il potere (quello di cui sopra) è sempre di Cristo; il ministero ordinato lo rappresenta sacramentalmente, nella forma che Egli ci ha testimoniato. La Chiesa non è neppure una democrazia perché non è la maggioranza che decide la verità della fede.
Esprimere nel ruolo della presidenza questa comprensione di Chiesa, né monarchica né democratica, ma sinodale («camminare con») non è per nulla automatico; spesso ci si muove tra Scilla e Cariddi, nelle prassi pastorali, tra il rischio della concentrazione di potere e il rischio del semplice coordinamento. Il presidente di un’assemblea eucaristica o di un consiglio pastorale non è il semplice coordinatore dei fedeli o colui che fa il riassunto finale, ma colui che ha la responsabilità (il potere) di promuovere la partecipazione attiva di tutti per il discernimento pastorale. Chiudo con una considerazione su due aspetti importanti da promuovere per pensare una Chiesa con meno clero: la ministerialità laicale e le collaborazioni pastorali.
I ministeri sono come chiamate diverse per l’evangelizzazione, nei tre gradi rinvenibili: quello del cristiano, che partecipa in virtù del battesimo alla missione della Chiesa; quello dei ministeri istituiti e di fatto, che comprende quei servizi nella Chiesa che hanno una certa stabilità e riconoscimento; quello del ministero ordinato, con lo specifico della presidenza: il ministro ordinato presiede l’Eucaristia, in quanto presiede, guida la comunità; presiede alla vita di carità della comunità, facendo convergere i vari carismi presenti, promuovendo la comunione.
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La valorizzazione dei laici e dei ministeri laicali non dipende solo dalla scarsità del clero (questa è la causa contingente) ma dalla nuova inculturazione del Vangelo che, in un contesto plurale, chiede una pluralità di voci. C’è un grande lavoro di sensibilizzazione da fare con il presbiterio, che spesso fatica a condividere la responsabilità pastorale e dimentica che i battezzati possono fare molto, anche solo in base al Codice: possono amministrare validamente il battesimo, predicare, assicurare la catechesi, presiedere liturgie della parola, i funerali, distribuire la comunione, assistere ai matrimoni, esporre il Santissimo per l’adorazione, visitare i malati, amministrare i beni e molti altri compiti che sono in mano ai presbiteri.
Faccio un piccolo esempio. A molti parroci sono ormai affidate molte parrocchie con migliaia di abitanti. Un prete cui sono affidati 10.000 fedeli ha in media almeno 100 funerali all’anno, vuol dire che quasi un terzo delle sue giornate annuali è dedicato a questo. È un servizio importante e delicato ma non potrà fare molto altro. Non si può pensare – come avviene in alcuni contesti, ad esempio nella diocesi di Bolzano-Bressanone – di formare dei buoni laici per la pastorale dei funerali, liberando in parte il clero per dedicarsi alla formazione dei catechisti e degli educatori dei giovani?
Se, nel contesto italiano, dovessimo sbilanciarci di più nella promozione di figure ministeriali laicali nuove, un incremento rapido di figure stabili ministeriali, a causa della scarsità del clero, comporterebbe alcuni rischi, che non vanno sottaciuti. Innanzitutto, c’è il rischio che per urgenza vengano create figure in una prospettiva puramente funzionalistica, «tecnica», trascurando l’attitudine, la preparazione, la motivazione, la competenza, lo stile.
Un secondo rischio è quello della clericalizzazione dei laici, ossia il pericolo di affidare ai fedeli laici incarichi propri del ministero ordinato (come la guida di una comunità); il ministero ordinato, come si è già detto, può essere supplito solo dal ministero ordinato; e per altro versante c’è il rischio della «laicizzazione della pastorale», ossia il pericolo di relegare il prete solo ad amministratore di sacramenti, ad attività cultuali, mentre ai laici verrebbero affidate tutte le altre attività pastorali (annuncio, catechesi, pastorale giovanile).
Creare, in mancanza di preti, una Chiesa di esperti pastorali non sarebbe certamente la soluzione, anzi potrebbe indebolire l’identità del ministero ordinato, se non ci sono le debite distinzioni, e alimentare ancora uno schema binario dentro la Chiesa: non lo schema clero/laici, ma il binomio «Chiesa di esperti», da una parte, e gente comune, dall’altra. La mentalità della delega è il virus peggiore della ministerialità laicale.
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Un secondo contesto nuovo che obbliga un ripensamento del ministero ordinato è quello della collaborazione pastorale tra più parrocchie e soggetti. Il nuovo assetto, che si va delineando ormai in tutta Europa, comporta alcuni cambiamenti nel modo di concepire l’esercizio del ministero ordinato e il rapporto preti/laici. La nuova struttura pastorale viene di fatto a cambiare l’identità e il ministero del parroco: responsabile di più comunità, il pastore svolge il ruolo soprattutto di coordinatore di responsabili e di amministratore di sacramenti. La formazione di un prete per più comunità e per la pastorale di cooperazione, e di più preti che collegialmente guidano una unità pastorale, rappresenta il futuro della sua identità e attività.
Per concludere, siamo chiamati non solo a progettare ma anche a cambiare mentalità. La pastorale nel contesto attuale e futuro andrebbe maggiormente pensata nella logica della «prassi rappresentativa», del segno (e meno dei numeri), nella consapevolezza, ancora da acquisire, che la Chiesa non coincide più con la società: «E non dovrebbe essere consolante il solo pensarlo? L’inefficacia che tanti sacerdoti avvertono nella loro fatica di ogni giorno, le tante delusioni, frustrazioni, mancanze di prospettiva che essi provano ora si mostrano sotto una luce diversa. La convinzione di essere chiamati “unicamente” a “rappresentare” le cose che solo Dio produce, a conferire ad esse la dimensione della visibilità e sperimentabilità, non suona forse come messaggio liberante che sgrava nel senso vero del termine il ministero dei suoi pesi, per accollarli allo stesso Signore?» (G. Greshake, Essere preti in questo tempo).





Ringrazio il professor A. Toniolo per la riflessione che ha offerto: indubbiamente il calo numerico e qualitativo del clero fa pensare. Nella diocesi veneta in cui abito è però maggiormente avvertito quello della partecipazione alla messa festiva, anzi, pur riducendo il numero delle celebrazioni, si continuano a vedere chiese vuote. Quindi i preti al momento ci sono, mancano invece i fedeli. Pensando che quello della messa festiva è l’unico momento d’incontro settimanale dei fedeli col loro Signore, è da immaginare che non ci sarà in tempi brevi un salto di qualità e una crescita numerica né delle vocazioni di speciale consacrazione né di matrimoni religiosi. Se poi consideriamo che i fedeli laici considerano esaurito il loro compito di testimonianza cristiana con il solo assistere al culto festivo, senza parteciparvi e senza testimoniare nel mondo, possiamo immaginare in quale baratro ci troviamo.
Ho letto una bella raccolta di informazioni abbastanza comunemente in circolazione. Purtroppo rimaniamo al punto di prima cioè a un cammino non realmente governato nel suo insieme.
Forse è ancora tempo di semina, di speranza e poco più?
Dove sono grandi personalità spirituali e intellettuali? Anzi: che delusione vari “fondatori”!
Sono però sereno perché alle spalle di noi “cercatori di tracce” c’è Cristo comunque
Può essere che Dio si è stancato di questa chiesa. Ne vuole un’altra. Ma la struttura gerarchica non vuole cambiare e Dio la estingue. Qualcos’altro nascerà.
Quando si parla di ministero ordinato è chiaro che si tratta di vescovi, presbiteri e diaconi. L’autore dell’articolo non valuta completamente la presenza dei diaconi nelle nostre comunità. Oggi in Italia sono più di 4800 ed è l’unica vocazione in aumento in tutto il mondo. Il salto dai presbiteri ai laici credo non sia in linea con quanto si dice sulla sinodalità. Va bene il rapporto preti/laici, ma mi chiedo quale rapporto preti/diaconi, quale rapporto diaconi/laici? Purtroppo oggi bisogna constatare la poca valorizzazione dei diaconi per il ministero che rivestono. Una grande ricchezza pastorale su tutti i fronti della diaconia.
Allora bisogna forse valutare di fronte alla crisi che la Chiesa attraversa in Occidente, non tanto una conversione della figura e del ruolo del prete, quanto ad una nuova visone di Chiesa oggi, nel suo complesso. In una parola ad una conversione ecclesiale/cristologica dove dovrà trovare spazio anche la conversione del ministero ordinato nella sua interezza.
Penso che ci sia un’unica vocazione per tutti; diventare essere umani in pienezza sull’unico modello di umanità in pienezza che è Gesu Cristo. Tutto il resto è mestiere…che te ne fai d’un prete sub umano? Chi usa il privilegio, il prestigio, l’autorità, la forza, il potere, la violenza è ancora un subumano a qualsiasi categoria appartenga. Chi usa il servizio e l’amore è un umano. Prima bisogna essere umani come Gesù Cristo, poi di può fare qualsiasi mestiere, uomo o donna che sia….
Penso che l’intento dell’autore sia stato quello di scattare una fotografia sull’attuale situazione, indubbiamente partendo, soprattutto, dalla realtà del Triveneto. Questa direttrice è anche spiegata dallo stesso autore nell’incipit dell’articolo.
Pero’, al tempo stesso, ritengo che questo approccio non consente di trovare una soluzione o di Intraprendere una strada per trovare una soluzione; è l’analisi di una realtà. Di una realtà, tuttavia, in forte evoluzione e, come peraltro sottolinea l’autore, della quale è difficile conoscere adeguatamente i futuri, anche i prossimi, sviluppi.
Penso tuttavia che l’approccio giusto sia quello che suggerisce 68ina felice. L’approccio di 68ina felice è vincente perché è propositivo, è chiaro, è sicuro, e’ adeguatamente fondato. Penso che manchi proprio questo alla chiesa, sicuramente italiana, sicuramente oggi anche nel Triveneto, ovvero la probabilmente diffusa incapacità di rendersi conto che, prima di trovare soluzioni protestantizzanti, se siamo cattolici dobbiamo trovare delle soluzioni cattoliche e i cattolici hanno sempre investito, e in ciò sono sempre stati vincenti, in primo luogo, nelle vocazioni sacerdotali.
Tutto il resto potrà solo servire per riempire pagine di giornali, riviste o siti, ma non porterà giusta vita alle nostre comunità.
Ottima osservazione, che condivido, con qualche precisazione: se la preoccupazione che deriva dai numeri è quella di recuperare “risorse umane” per tenere in piedi le “strutture”, beh… allora buon “scouting” a tutti! Infatti ho la sensazione che quella preoccupazione stia deformando in senso “aziendale” parecchie riflessioni pastorali, proposte (imposte?) persino da alcuni vescovi diocesani: vision, mission, target e bla bla bla vari. Al di là di ricercare facili ricette risolutive, credo che il primo dovere di tutti sia abbracciare la fatica ed essere disposti al sacrificio: sa di biblico, no? “Appendere le cetre” e allenare il “viso duro” in direzione Gerusalemme.
Il Giubileo dei Giovani da tutte le risposte alle questioni sollevate da Toniolo
Questo articolo mostra tutta la fatica della Chiesa nel suo insieme e non solo dei preti del passaggio da una Chiesa clericale a una Chiesa sinodale.
Attualmente l’Eucarestia non è al centro della vita della Chiesa, ma al centro della vita della Chiesa ci sono vescovi e preti, visto che i diaconi contano poco o nulla, per cui è chiaro che attualmente la Chiesa va in crisi se mancano i preti. Se invece l’Eucarestia è al centro della vita della Chiesa, si possono permettere l’accesso al ministero ordinato a chi nell’oggi è impensabile.
Nella Chiesa cattolica c’è stata la iper esaltazione del sacerdozio ordinato e la sottovalutazione del sacerdozio battesimale e oggi è necessario equilibrarli nè esaltando e nè sottovalutando ma mettendoli al servizio gli uni degli
altri. Ai teologi spetta di approfondire il sacerdozio battesimale e la realzione con sacerdozio ordinato e ai noi fedeli laici e ai consacrati non chierici spetta di viverlo con o senza consapevolezza.
La soluzione a tutto questo esiste gia’ e da piu’ di cinquecento anni : di chiama riforma protestante. Nel luteranesimo non ci sono “sacerdoti” ma pastori , i riti della domenica sono solo una mensa fraterna e non c’e’ bisogno di un consacrato perche’ l’ Eucatestia e: solo una memoria , e non la riattualizzazione del sacrificio, la Bibbia e’ messa al primo posto, la conoscenza della Parola e’ uguale per tutti ,i laici possono predicare ,non ci sono sacramenti , eccetera eccetera. Esiste gia’ questa riforma protestante, quindi mi chiedo perche’ coloro che desiderano fare parte di una chiesa senza distinzione fra laici e sacerdoti,senza
Eucarestia in senso cattolico, senza dogmi e con interpretazione libera ed individuale delle Sacre
Scritture , non aderiscano ad una realta’ gia’ presente .
Lutero ha gia’ avuto tutte le vostre idee. Cinquecento anni fa .
P.S.: naturalmente preferisco lasciare da parte un commento per alcuni passaggi dell’articolo, per esempio quello in cui si sostiene “la struttura sacramentale della fede”: una espressione, come minimo, equivoca. Vale invece la pena di notare che in questo articolo, come in molti altri sul tema, si fa silenzio sul tema della imposizione del celibato nella Chiesa latina. Mi sembra un silenzio grave. Gesù non ha imposto il celibato a nessuno, anzi ha scelto discepoli sicuramente tra sposati come Pietro e non sposati. La chiesa antica ha sempre conosciuto sposati anche tra i responsabili della comunità: ci sono i dati già nel N.T. L’imposizione sorta molto più tardi nella Chiesa latina è stata peraltro molto trascurata sino a età moderna: fatto rispetto al quale molti preferiscono guardare dall’altra parte. Al di là di quest’ultimo aspetto, va detto che oggi, in un discorso scientifico e storicamente corretto, non si dovrebbe mai tacere della questione della imposizione del celibato, imposizione ingiusta e che nulla ha a che vedere col presbiterato. Purtroppo oggi su questi aspetti regna però la confusione. L’errore o appunto la confusione storica sono in posizione di vantaggio, perché è diventato terribilmente oneroso ristabilire la verità e fare conoscere alle persone come sono evolute le cose. Comunque, il discorso del celibato non dovrebbe mai essere omesso, ma storicamente spiegato dagli storici.
Non vedo aprirsi nessuna prospettiva nuova per la Chiesa. Il titolo è fuorviante, varcare le soglie? Mi pare che comunque le si intenda, si rimanga molto al di qua. Trovo ci sia un abisso tra i Vangeli e la realtà della Chiesa. Ho smesso da un bel po’ di ricercare delle guide, a meno che non lo siamo tutti gli uni per gli altri. Ma è quantomai diventato molto pericoloso atteggiarsi a guide di altri o a propria volta lasciarsi guidare. Sappiamo bene quanto sia facile cadere nell abuso di coscienza. Proprio i tanti abusi perpetrati nella Chiesa dovrebbero aprirci gli occhi e darci il coraggio di un cambiamento. Ripensare la casta sacra del sacerdozio e responsabilizzare tutta la comunita’, senza trincerarsi dietro la facciata della vocazione. Anche ieri sera a Tor Vergata il papa ha parlato di vocazione al sacerdozio, alla vita consacrata e al matrimonio, in quest ordine naturalmente. Chi come me non ha seguito o potuto seguire nessuna di queste, come deve sentirsi? Una fallita? La moria di preti e la scarsa qualità di quelli che ci sono in giro ( con ovvie eccezioni) , non può essere un segno dei tempi? Sogno una Chiesa che quantomeno mi permetta di sognare. Ciò che non cresce e non evolve e soprattutto non dà la possibilità di cambiare e di evolvere finisce per ammalarsi.
Grazie Emanuele per la bibliografia. Leggerò questi testi, perché ho proprio bisogno di capire….
Meno nascite, meno fedeli, meno vocazioni al sacerdozio, meno religiosi e religiose, meno offerte e meno 8xmille… sarà, ma io ci vedo una qualche forma di coerenza! Penso che siano una serie di problemi “occidentali” nemmeno troppo significativi. Se poi vogliamo restare nell’immaginario comune in cui “più” è “meglio”, prepariamoci a correggere un centinaio di passi biblici. Tuttavia: il numero dei vescovi non è in crisi, anzi! A Roma (e non solo) croci pettorali pure per spostare candelabri… e il numero dei cardinali cresce continuamente! Meno male che almeno il Papa resta uno!
Bisognerebbe anche includere i diaconi in questa riflessione, almeno per quanto riguarda funerali, battesimi e matrimoni sarebbero una valida soluzione.
Certo non risolvono il problema dell’assenza dell’Eucarestia in tante chiese, per quello l’unica soluzione vera sono i viri probati, l’alternativa è avere parrocchie senza Eucaristia che, come argomenta bene l’articolo, è l’unico vero centro di una comunità cattolica
C’è da dire che se diminuiscono i sacerdoti non aumentano automaticamente diaconi e laici impegnati. Proporzionalmente al numero dei fedeli “generici” siamo sempre lì con il passato. Diminuiscono anche i giovani in occidente quindi è un fenomeno ancora più radicale di quanto si creda. Poi ci si adatta a tutto, esistono Chiese in zone di guerra, forse andrebbero relativizzate anche tutte queste discussioni su laici si clero no ecc. Sono figlie di una stagione ormai lontana. Per quanto non abbia alcuna simpatia per i tradizionalisti mi sembra che almeno facciano un certo sforzo per capire il presente e le sue difficoltà, i vaticansecondisti sono rimasti fissi ai favolosi anni ’60 e da lì non si muovono.
Fortuna lo Spirito Santo si diverte a scompaginare le carte rispetto alle nostre anguste debolezze…
Trovo quest’articolo, specialmente nella seconda parte, molto discutibile. “Il ministro ordinato presiede l’Eucaristia, in quanto presiede, guida la comunità”, dice l’autore. Questa equazione, erronea, è palesemente contraria al vangelo. Gesù – il Gesù storico – ha prescritto ai suoi discepoli divieto assoluto di logiche di guida: ‘non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra guida, il Cristo’ (Mt 23,8-9). Passi come questo – e potrebbero aggiungersene molti altri – smontano alla radice i discorsi di natura gerarchica in seno alla chiesa e qualsiasi pretesa di alcuni di sentirsi o essere “guide” di altri. Del resto, oggi, l’idea di un laicato da relegare in subordine rispetto a “guide” è insostenibile anche per fattori culturali: in Italia come in altri Paesi l’accesso all’Università ha permesso a tanta parte della popolazione di emanciparsi da ‘tutele’. Oggi molti laici godono di livelli di istruzione anche molto superiori ai presbiteri. Non mi pare che l’autore dell’articolo tenga invece conto di cos’è in realtà il sacerdozio nel N.T. Come ha invece molto ben detto G. Lorizio in una intervista televisiva che ho avuto modo di ascoltare – ma ne avrà sicuramente scritto – , nel N.T. “è la comunità che è sacerdozio, è la comunità che è sacerdotale”. La comunità è un solo corpo, non c’è il capo del sacro, quello che lo gestisce e “guida” gli altri (e come potrebbe mettersi a guida degli altri?). L’articolista non mi sembra abbia riflettuto sul processo storico di allontanamento delle Chiese rispetto al vangelo: processo per il quale alcuni si sono lentamente posti a guida della comunità in nome del sacro. Queste cose non appartengono all’orizzonte del messaggio evangelico. In Giovanni 14 Gesù afferma che se uno lo ama e osserva la sua parola il Padre stesso e Cristo verranno a lui e prenderanno dimora presso di lui. Chi osserva la sua parola ospiterà dentro di sé il Padre stesso. E’ uno dei passi che spiegano e giustificano l’idea neotestamentaria del sacerdozio: tutti lo sono, non c’è una casta mediatrice (altrimenti non ci sarebbe più il vangelo, che è appunta la buona notizia che rovescia le logiche del mondo, anche nel rapporto con Dio), perché Dio si è reso prossimo (Cristo e il Padre stesso) a chiunque. Ed è Cristo che si dona nella comunità riunita che lo celebra. Per chi non sa nulla di questi temi – e non è certo colpa del popolo di Dio, visto che per secoli non se n’è potuto nemmeno parlare – consiglio sempre due libri: uno di Manlio Simonetti (“Il vangelo e la storia”) e un altro di Romano Penna (“Laicità e sacerdozio”). L’ eucaristica rende consanguinei e pienamente fratelli tutti coloro che accedono al Calice. Tuttavia, a partire più o meno dalla fine del II secolo, si è avviato un lungo processo, che ha portato alla nascita della gerarchia sacerdotalizzata e a sistemi di potere basati sul sacro. Si è creata così in seno alla Chiesa una divisione gravissima tra un cosiddetto “clero” e i restanti, “laici”: una spaccatura gravissima, alla quale ha cercato di porre rimedio (ma non è stato facile ed è stato possibile solo in parte) il Concilio Vaticano II. Effettivamente per cambiare la mentalità su queste cose ci vuole tempo; serve la vita, l’esperienza, oltre che lo studio severo e libero da una visione prefabbricata che si è retroproiettata abitualmente, acriticamente, anacronisticamente all’antichità. Tuttavia i credenti sono chiamati oggi come sempre anche a questo: a un cambiamento di mentalità. L’inizio del vangelo di Marco parla di “conversione” intendendo non atti di culto, ma “metanoia”, cioè proprio “cambiamento di mentalità”: scandalizzava che un laico, Gesù il Galileo, annunciasse il regno, si accostasse agli emarginati della e dalla società e dal Tempio, mettesse in discussione le vie di salvezza fino ad allora ritenute valide, dicendo che invece il Padre stesso si fa prossimo a chiunque.
Molti riferimenti al Ministero Ordinato senza citare una volta il diaconato e il suo ruolo importantissimo per la Chiesa del futuro.
Mi ha sempre stupito questo elenco/classifica di Paolo in 1Cor 12
Alcuni perciò Dio li ha posti nella Chiesa in primo luogo come apostoli, in secondo luogo come profeti, in terzo luogo come maestri; poi vengono i miracoli, poi i doni di far guarigioni, i doni di assistenza, di governare, delle lingue.
Perché nella comunità della prima chiesa secondo il pensiero di Dio il governare è al settimo posto?
Un controcanto a rapido commento dell’articolo: 1. difetti predittivi o errori previsionali della sociologia accadono quando si prescinde dalla rigorosa ricerca sociale e la si abusa, oppure più frequentemente quando si considerano le opinioni sociali, comprese quelle dei sociologi, come se fossero dati della ricerca sociologica; diversamente, dalla sociologia correttamente applicata alla ricerca si possono derivare, anche in ambito religioso ed ecclesiastico, pertinenti predizioni di possibili e persino probabili futuri 2. per i cattolici, e l’universalità che li distingue, dovrebbe essere rilevante la demografia mondiale e non solo quella nazionale e locale; se così fosse sarebbe facile scoprire che non corrisponde al vero che “la demografia non lascia molto scampo”, e non solo perché l’incremento a progressione geometrica della popolazione mondiale sopperisce abbondantemente alla diminuzione aritmetica dei cosiddetti inverni demografici, ma anche perché la presenza del clero straniero può sopperire alla carenza di quello italiano. E qui emerge un curioso paradosso: il clero italiano, che tanto e giustamente si batte per l’accoglienza e l’inclusione degli stranieri in Italia, sembra colpito dal virus della xenofobia quando si trova a pensare alla possibilità di avere nelle parrocchie italiane più clero straniero che nazionale. Plastica dimostrazione di ciò è leggibile nel Report pubblicato da Settimana News il 22.2.2016, dove in vari modi e al massimo livello sono manifestati sospetti verso il clero straniero e la necessità di vigilare sulla sua presenza e attività in Italia, soprattutto in ambito parrocchiale. Il clero italiano non è indenne dalle critiche mosse al clero straniero, ma è reso immune dalla sua italianità, mentre la mancanza di questa condizione rende il prete straniero esposto a diffidenze, vigilanze, filtri e dissuasioni all’ingresso. Questa perversione non solo va denunciata a chiare lettere ma deve essere superata prima possibile per dare a tutte le parrocchie italiane un prete residente. Dalle diocesi straniere può venire in Italia il clero che occorre e questo clero, opportunamente formato, può agire anche in ambito parrocchiale come il clero italiano, se non addirittura meglio 3. pur riconoscendo che “il ministero ordinato può essere sostituito soltanto dal ministero ordinato” l’articolo afferma che “va ripensato superando la concentrazione clericale della pastorale ed essenzializzando il ministero dei presbiteri”. Lo schema è tanto noto quanto disfunzionale. Infatti, come si è già osservato in vari casi, la struttura e la vita della chiesa vengono meno sia quando vescovi e pochi preti, per difendere il loro stato clericale, lasciano sguarnite sempre più parrocchie, sia quando al posto dei preti sono collocate figure “clericali” minori, quali sono gli incaricati di ministeri istituiti o altri soggetti delegati. In questo modo in Italia forse si possono istituire sette religiose a cascata gerarchica ma certo non comunità parrocchiali unanimi, aperte al mondo e protese all’agape vissuta e alla spiritualità coltivata. I credenti cattolici, tuttora chiamati “gregge”, vogliono riferirsi ai “pastori” e mal sopportano che costoro agiscano tramite figure delegate. Allo stesso tempo chi si fa prete per autentica vocazione, a meno che non sia attratto dal fare rapida carriera come funzionario di una chiesa sempre meno dotata di risorse umane, si fa prete per rapportarsi direttamente ai fedeli e ai possibili credenti. Spezzare con disinvoltura e superficialità questo schema, come da qualche tempo accade invocando lo stato di necessità o le varie congetture pastorali-ideologiche che fungono da alibi, serve non ad affrontare e risolvere veramente i problemi, ma soltanto ad anticipare e rendere ancor più veloce e dirompente nella chiesa italiana quell’implosione preconizzata all’inizio del corrente decennio dai sociologi Danièle Hervieu-Léger e Jean-Louis Schlegel 4. il clericalismo non è soltanto deformazione del potere del presbitero, come vorrebbe l’articolo, oppure stile comportamentale pervertito e stucchevole, ma è soprattutto ossatura costitutiva del potere e della vita strutturata della chiesa. Ignorare ciò, oppure descrivere il potere nella chiesa e della chiesa con altri vocaboli, genera illusioni ottiche destinate ad essere smentite dal confronto con la realtà. Nella chiesa oggi forse si produce troppa ideologia, talvolta alimentata anche per via teologica, un’ideologia che invece di aprire e orientare la mente la ottunde, la paralizza e impedisce di dare ai problemi le giuste soluzioni, come risulta evidente nel caso dei preti stranieri che sono ignorati, tenuti a distanza e non cercati, mentre potrebbero realmente supplire i preti italiani mancanti.
nelle missioni da sempre si vive quello che Toniolo paventa: E la fede è ben diffusa e maggiormente eroica. Il sinodo l’hanno gia fatto senza tante riunioni. Toniolo che sembra vivere da sempre solo nel Veneto, osservi la vita ecclesiale della Francia. Diocedi di Tours, 300 parrocchie ora sette insiemi parrocchiale 30 preti . Eppure le parrocchie vivono, si fa catechismo, : poveri ma dignitosi e invidiabili
Mi viene da dire tanto meglio, senza sacerdoti almeno non avremmo più le critiche sul clericalismo.
Considerazioni interessanti. Una domanda: ma invece di pensare a una Chiesa senza preti (cioè senza pastori), non potremmo pensare a una Chiesa più attenta alle vocazioni? Una Chiesa più libera dal funzionalismo? Invece di pensare a una Chiesa che perde i pezzi (senza preti, quindi senza vescovi, ma anche senza seminaristi, senza suore etc) non potremmo pensare a una Chiesa contenta di crescere sulla roccia, che è Gesù?
Vero, certo bisogna anche pensare come fare senza quei “pezzi” che oggettivamente stiamo perdendo
La riflessione è davvero molto interessante. A mio avviso più che pensare la Chiesa in senso sinodale, occorre pensare im senso missionario. Ha scritto l’arcivescovo Delpini al termine del suo viaggio pastorale a Cuba: come è possibile che due preti in una parrocchia enorme quanto metà Milano siano tanti e a Milano invece siano pochi? Ecco la Chiesa deve sentirsi e strutturarsi in chiave missionaria.
Sono molto d’accordo. Però è vero che la liturgia della Parola non sostituisce l’Eucaristia domenicale.. Se crediamo che sia il centro, come possiamo credere che una comunità, una chiesa, cresca condividendo il pane saltuariamente se non raramente
Caro Paolo in molte parti del mondo questo avviene. Comunque ragioni pastorali dovrebbero portare a fare una cernita tra le parrocchie e sceglierne una dove si possa, anzi si debba fare una sana, decente liturgia eucaristica domenicale. I fedeli stesso dovrebbero capire che, se vogliono nutrirsi del pane eucaristico, nei prossimi decenni dovranno spostarsi. È impensabile un modello in cui in ogni parrocchia c’è il prete e, quindi, anche l’Eucarestia.
L’articolo auspica un cambiamento di mentalità, ma non riesca a superare il binomio clero-laicato. Vorrebbe lottare il clericalismo conservando l’identità clericalista dei presbiteri. Il contributo suggerisce alcuni spunti positivi, ma non affronta la radice dottrinale e giuridica che legittima il clericalismo.
Sono completamente d’accordo. Tra i tanti enormi rimossi visibili nell’articolo, mi sembra che il più evidente sia quello della pandemia, con il moltiplicarsi esotico delle messe online e l’azzeramento del senso di comunità che in molti luoghi ne è conseguito. Naturalmente il problema non è del singolo articolo né del singolo Autore. Eppure, davanti all’ennesima sommatoria di buoni auspici, che ancora una volta va a disegnare più che altro una Chiesa idealtipica, credo sia legittimo rimanere un po’ perplessi: “L’Eucaristia non è più, specialmente oggi, il punto di partenza ma è il punto di arrivo della fede. Non si comprende l’Eucaristia se non c’è una frequentazione della Bibbia, che prepara la mensa della Parola, e non si comprende l’Eucaristia se non c’è una comunità che cura le relazioni […]”. Boh.