
Fatti anche recenti d’una certa gravità (ad es. il suicidio del prete 35enne della diocesi di Novara) inducono a porsi una serie di domande e riflessioni.
Ci muoviamo, e ne siamo consapevoli, in un terreno ormai fin troppo familiare, circa il quale abbondano analisi e ricerche, pure pregevoli,[1] ma sempre con l’impressione di trovarci di fronte a qualcosa che ancora ci sfugge, a una sintesi troppo presto contraddetta, a conclusioni che poi non reggono dinanzi all’ennesimo episodio sconcertante.
Accettiamo che sia così, e non abbandoniamo il campo d’indagine, perché non solo “de re nostra agitur”, ma perché questo tipo d’analisi va oltre i confini d’una categoria specifica, ma ci fa entrare in un più ampio orizzonte investigativo: la Chiesa col suo paradosso di santità e miseria, le sue crisi e speranze, il suo complicato dialogo col mondo dall’esito altalenante (ora al centro, ora insignificante)…
Indagare sul prete vuol dire capire un po’ di più tutto ciò. E non dobbiamo sentirci offesi o umiliati – noi della categoria – se il prete, in questo scenario generale, appare un po’ come l’anello debole. Non so poi se lo sia veramente, ma so per certo che per tanto tempo – semmai – ha rappresentato (almeno per molti) esattamente il contrario, il punto-forza del sistema-Chiesa, o la mediazione normale e quotidiana, dal basso, ma sempre indispensabile, del dialogo Chiesa-mondo, con tutti gli equivoci del caso. Così fosse, da un lato, la crisi d’oggi è inevitabile, dall’altro, è quasi benedetta (con tutto il rispetto, al di là dei meriti, per la sofferenza di tanti, troppi preti!).
Delimitiamo allora il raggio d’indagine. Vorremmo capire soprattutto se e quanto il prete di oggi (non solo quello giovane) sia in grado di reggere la tensione del suo ruolo, quella tensione che è legata al compito che gli è affidato (a volte forse in modo improvvido), che notoriamente non è né semplice né facile, anzi, forse non è nemmeno chiaro per ciò che implica, in tempi in cui la Chiesa stessa s’interroga (molto) sul senso della sua missione ma non decide con coraggio cosa cambiare.
La capacità di tenuta del prete
Con tale espressione intendiamo la capacità di vivere anche in situazioni di tensione, determinata da fattori esterni, in qualche modo oggettiva, ma in cui inevitabilmente un certo peso hanno pure quelli interni e soggettivi. Qui cercherò di riflettere soprattutto su questi ultimi, ben sapendo che occorre una seria indagine anche sui primi, sul sistema-Chiesa che sovente pare mandare il prete allo sbaraglio (per poi piangere sulla sua crisi).
Di cosa è “fatta” la capacità di tenuta? Mi sembra di poter/dover considerare due livelli d’analisi.
Livello psicologico: la resilienza
A tale livello la tenuta è chiamata con un termine divenuto familiare in questi tempi: la resilienza. Che indica, in sostanza, la forza di non cedere, di non lasciarsi troppo condizionare da eventi negativi e traumatici, inaspettati e che colgono di sorpresa, ma di opporre resistenza. Implica quella forza d’animo che viene – a sua volta –, da una positiva e stabile stima-di-sé, che consente di non subire la realtà o almeno di prenderne le distanze, di affrontare pure una certa solitudine, ritrovando in sé motivi e convinzioni che permettono di stare in piedi sulle proprie gambe, anche senza un certo consenso sociale e, soprattutto, senza rimettere in discussione la propria identità. La resilienza di cui parliamo è abilità, qualcosa che si apprende e a cui occorre esser formati, non un tratto della personalità, quasi dote innata.
Pazienza passiva e attiva
A un grado minimo la resilienza crea la sopportazione, o quella pazienza che permette di non soccombere, ma che sovente priva del gusto di vivere e di vivere la propria vocazione, specie quando la pazienza è passiva e non sollecita alcuna vera risposta o scelta personale. Allora si risolve in soggezione/rassegnazione più o meno sofferta/depressa (anche se persino “offerta” a Dio, come una certa spiritualità un po’ ambiguamente si limitava a raccomandare). Come non vi fosse nulla da fare.
La pazienza è invece attiva se l’individuo fa fronte alla situazione e alla sua sensazione cercando di reagire in qualche modo, quanto meno continuando a fare il cosiddetto “proprio dovere”, o a volte accontentandosi giusto del “minimo sindacale”, e cercando il più possibile di metter d’accordo attese della gente e pretese dei superiori (in concreto, correndo tutto il giorno – specie le domeniche – per tappare tutti i buchi, e non lasciar nulla d’incompiuto, ma per ritrovarsi alla fine col fiatone e un sottile senso di frustrazione).
È chiaro che, in tal caso e alla lunga, è il sistema che “non tiene”, prim’ancora del don.
Energia creativo-costruttiva
A un livello più alto, resilienza non è solo pazienza/resistenza, ma capacità di rispondere in modo creativo e costruttivo alle difficoltà e criticità incontrate. Ciò che cambia, rispetto a chi è solo paziente, è il rapporto con la realtà, assieme a un senso più forte e confidente dell’io. La realtà, infatti, non gli appare più come nemica e ostile, ma – pur nella sua criticità e in forza d’essa – diviene provocazione a rivedere il proprio assetto di vita, a cambiare qualcosa in sé e nel proprio stile ministeriale di meno funzionale, a pensarne/inventarne uno più capace di rispondere a quella criticità senza venir meno ai propri ideali e convinzioni. Anzi, ed è questo l’altro elemento decisivo, son proprio quest’ultimi – i propri valori – a sostenere il processo, assieme al desiderio di testimoniarli e renderli credibili.
Di fatto, allora, il resiliente non è una figura ideale che non perde la calma né avverte tensione e fatica, dubbi e cadute di tono, scoraggiamenti e persino episodi depressivi, ma è colui che non smarrisce la prospettiva di vita, è capace di rialzarsi dopo l’errore, non vede tutto buio, né s’accontenta di aggiustamenti parziali e poco incisivi, ma proprio perché sollecitato da ciò che sembra metter in crisi il suo mondo valoriale s’impegna a cercare un nuovo modo di viverlo e condividerlo, o a rivederne alcuni aspetti.
La sua fedeltà non è solo il resistere a tutti i costi, ma la volontà di metter uno (= il mondo d’oggi coi suoi cambiamenti) in dialogo con l’altro (= le sue scelte ideali di vita). Ed è sempre operazione creativa, che mette in moto la libertà e, se non riesce a eliminare depressioni e delusioni, permette quanto meno di fronteggiare con efficacia le contrarietà e dare nuovo slancio alla propria esistenza.
Livello spirituale: la docibilitas
Ovviamente nel caso del prete, come di qualsiasi credente, non c’è solo un dinamismo psicologico in atto, ma pure – e in modo profondamente significativo – un livello teologico-spirituale. I due livelli sono destinati a interagire tra loro, l’uno influendo sul grado di maturità dell’altro e, assieme, sulla maturità generale del singolo. Vale la pena distinguere per capire bene ove e come intervenire, ma anche per non caricarsi di pericolosi sensi di colpa.
Maturità teologica: una fede ricca di speranza
La maturità teologica di cui qui parliamo non è solo quella legata alla teologia come studio, ma a quella immagine/idea di Dio che abbiamo in cuore e nella mente e che ci portiamo dentro forse da sempre, e in cui crediamo.
È evidente che quanto finora detto sulla tenuta del sacerdote in situazioni critiche è legato anche a questa immagine. Per niente evidente, invece, è che questa immagine del divino sia stata sottoposta lungo la vita del prete a un processo di conversione, purificazione, evangelizzazione, come nel cammino credente di tutti.
L’esser capaci di resilienza è enormemente facilitato da una ben precisa idea del Padre-Dio, nel quale non solo credere, ma di cui fidarsi. Ma quale è, molte volte in questi casi, il problema del prete? Che la sua fede è povera di speranza! È fede intellettuale, come adesione della mente a un pacchetto di verità mai messe in discussione, ma che non genera abbastanza sguardo speranzoso, e rischia di non diventare mai fiducia.
Una fede così è un aborto di fede, è fede artificiale o finta, come una fake faith, non è fede vera. La quale suppone una relazione, un tu, un volto, la percezione d’uno sguardo su di sé, e la sensazione sempre più certa che ti puoi fidare di quel tu! La fede, alla fine, è un consenso della mente, mentre la fiducia è un’esperienza relazionale; di per sé non sono sinonimi fede e fiducia, così come non è scontato il passaggio dal consenso intellettuale all’esperienza di potersi fidare.
La virtù teologica della speranza è tutta in quel passaggio, e la speranza stessa diventa così una sorta di esame o verifica della fede autentica, quella appunto che genera speranza, abbandono, affidamento, resa…
È chiaro, e lo ribadiamo, che il problema della tenuta del prete a fronte delle criticità odierne è molto serio e implica un’analisi complessa a vari livelli, ma quello della fede e della sua qualità è senz’alcun dubbio al centro d’essi.
Oggi, paradossalmente, il prete ha più bisogno di speranza che non di fede, o d’una fede che diventi fiducia. E gli dia la forza d’affrontare ogni situazione con la certezza del “non confundar in aeternum”!
Maturità spirituale: dalla docilitas alla docibilitas
E siamo al passaggio che forse sintetizza quanto fin qui segnalato. Un passaggio che indica un cammino che dovrebbe iniziare nel tempo della prima formazione, e che indica come il problema su cui stiamo riflettendo possa essere risolto solo a partire da lontano, da una riconsiderazione degli obiettivi della formazione iniziale, e non certo con provvedimenti sull’immediato di tipo moralistico e vago sapore spirituale (e séguito di sensi di colpa che peggiorano la depressione).
Ad esempio, si tratta di non accontentarsi più di formare il futuro sacerdote alla docilitas, quale forma obbedienziale d’una vita che ha rinunciato all’autogestione e si rimette alla volontà d’una categoria particolare di persone chiamata “superiori”, quali mediatori e interpreti della volontà di Dio sulla persona.
Per passare alla docibilitas, alla capacità cioè di discernere in ogni situazione della vita, in ogni circostanza e stagione d’essa, in ogni contesto e relazione una mediazione preziosa, ancorché misteriosa, della presenza e del volere dell’Eterno, per lasciarsene formare.
La docilitas, per quanto umilmente virtuosa, è passiva e parziale come punto di riferimento, la docibilitas rende invece attivi e intraprendenti, indica il soggetto che ha imparato a imparare, libero di lasciarsi aiutare nelle sue fatiche come di lasciarsi provocare dalla vita, dagli altri, dalle crisi, dai suoi fallimenti… per tutta la vita, perché l’esistenza stessa, in ogni suo frammento, è la grande mediazione attraverso cui il Padre forma in noi il cuore del Figlio per la fantasia dello Spirito Santo. Ed è dunque molto, molto più anche della semplice resilienza o della sola fede.
Non basta resistere a tutti i costi, ma si tratta d’aver appreso e di continuare ad apprendere a sperare!
[1] Vedi, anche su SettimanaNews, le riflessioni di C. D’Urbano.






Chi pensa seriamente al suicidio non lancia segnali, soprattutto se sa che, a chi sta attorno, non interessano. Anzi la sua allegria prima del gesto sarà direttamente proporzionale all’indifferenza che lo circonda.
Molto vero quanto scritto da Cesare. Parlo per esperienza, passata, personale.
Poco prima del suicidio si prova quasi un’ebbrezza, ma solo a patto di non scorgere altre vie.
Anche un mio carissimo amico, che se ne è andato un anno fa – religiosissimo quanto solo – pareva essere più felice del solito. Nessuno avrebbe mai pensato. Specie da lui.
Credo che il buon Dio chiederà conto di questi drammi.
Mi reco a celebrare in una parrocchia di un altro prete impedito per motivi pastorali ( sovrapposizione celebrazioni). 150 persone circa. Alla consacrazione giusto 4 o 5 fedeli si inginocchiano profittando degli inginocchiatoi. Il resto dell’ assemblea in piedi. Forse è da qui che occorre ricominciare… Se i fedeli non scorgono più il Vivente e la modalità anche fisica della relazione con Lui ex Filippesi 2,10-11, a voglia discettare sulla crisi di alcuni preti…😥
https://www.laciviltacattolica.it/articolo/solitudine-e-disagio-del-prete-un-problema-strutturale/
Segnalo questo articolo letto qualche giorno fa. Trovo molto onesta questa affermazione:
“C’è infatti una dimensione di solitudine in ogni stato di vita, come ben sanno le persone sposate, un vuoto ontologico, che niente e nessuno può colmare; questa impossibilità, qualora non venga accettata, può portare a investimenti illusori sull’altro, a pretese irrealizzabili e al fallimento della relazione. È significativo che la crisi del celibato e la crisi del matrimonio siano comparse insieme.”
Come fare sinceramente non so, a parte accettare questa fragilità insita nell’essere umano stesso. Non fare finta che non esista, non illudersi di poterla schivare e nello stesso tempo non lasciare che annulli quanto di buono e di speranzoso rimane in noi.
Tante parole, nell’articolo, per evitare una domanda semplice: come mai nessuno si è accorto della situazione? Sarebbe interessante ricostruire la storia di questo sacerdote e chiederci anche se nella fase formativa fosse emersa qualche problematica psicologica seria. Senza affrontare queste due questioni, restiamo nelle chiacchiere e divagazioni poco utili…
Penso che un suicida non sia un condannato a morte dalla propria personalità di fondo. Anche a me ha colpito molto soprattutto la giovane età della persona coinvolta; è vero anche che la vita intorno in questi anni si è fatta più oppressiva e buia per tutti e in più le notizie che provengono dai teatri di guerra non scarseggiano certo quanto alla ripetitività e spietatezza dei lutti moltissimi alquanto precoci. È proprio davanti a ciò che la speranza trova il suo punto critico. Ci vorrebbe sempre la possibilità di ricorrere a quel minimo spazio / momento di distanza per rimettersi in contatto con i valori i ricordi che riaprono all’affidamento interiore che la tenuta di fronte fronte alle situazioni richiede. Certo, è facile parlare, finché Dio dà vita.
EC: dei lutti; le virtù i valori i ricordi
Sarà che non trovo sul vocabolario la parola “docibilitas” e ne riconosco invece la radice .. mi sembra la solita richiesta di obbedienza , umiltà , silenzio e andare . Complimenti , si cambiano le parole perché tutto resti com’è ! Gattopardiano nella migliore tradizione ecclesiale , come sempre 🙂
La soluzione è nella preghiera!
Preghiamo per i nostri Parroci, preghiamo per i nostri Padri spirituali, preghiamo per i nostri Sacerdoti!
Tutti i giorni dobbiamo pregare per Loro!
Ci sono stati affidati da Dio!!
E per le nostre preghiere Dio li custodirà!
Amen!
Il sacerdote deve ascoltare i Suoi superiori…ma deve anche sapere ascoltare i parrocchiani uomini e donne senza fare distinzioni.
E poi prendersi un po’ di tempo per sé stesso per fare sport o riposarsi.
Quello che si chiede a un sacerdote la gentilezza e la disponibilità.
A me piace sognare… con la familiarità delle Scritture ho acquisito una “simpatia” particolare per la comunità di vita, anzi la reputo l’arma vincente, se pure con le sue incognite, per la realizzazione più piena possibile del cristianesimo. Purtroppo con la Chiesa Imperialista è andata elusa come lo è tuttora. Sarebbe cosa giusta ammettere al presbiterato e all’episcopato soltanto chi è intenzionato alla comunità di vita. Intanto sogniamo…
Bella la riflessione, ovviamente aperta a tante altre domande, ma vola troppo in altro. Siamo d’accordo con alcuni concetti e categorie elaborate dal prof, ma andiamo al piano pratico: i rapporti del prete con il presbiterio, i rapporti con il vescovo, i rapporti tra prete e i fedeli? Occorre un accompagnamento costante, perseverante, dove i vescovi si dimenticano, rinchiudendosi con alcuni preti, proteggendosi. La pastorale vocazionale ala sacerdozio, non termina con l’ordinazione, dove sembra che l’importante sia aumentare il numero di preti e poi lasciarli soli. Questa è uan responsabilità grande del vescovo e del presbiterio, ma quando si parla di presbiterio e di vescovo, dobbiamo chiederci che maturità c’è all’interno oppure, si tende ad emarginare, mobbizzare o addirittura ad espellere quel o quei presbitero o presbiteri che fanno fatica, sopratutto quando non fanno parte di sistemi e gruppi elitari.
Bravissimo! Sottoscrivo,
Secondo il mio modesto modo di vedere l’autore dell’articolo incolpa il prete e prossimamente incolpera’ così è nelle premesse- l’istituzione Chiesa. In realtà il motivo dell’affaticamento dei presbiteri e della loro conseguente non tenuta psicologica risiede negli altri soggetti coinvolti nell’azione pastorale: i superiori (in particolare i vescovi diocesani) e il popolo “santo” di Dio.
Bisogna chiedersi quanto rispettosi siano i vescovi della dignità umana dei presbiteri, quanto li incoraggino, li guidino amorevolmente, li consigliono, li trattino da figli,… O quanto invece non li rimproverino, non li sminuiscano, non li maltrattino, non tacciano sui debiti lasciati nelle parrocchie dal predecessore, non prospettino loro realtà falsate, non li lascino in balia delle loro furbate…
E accanto ai superiori c’è il popolo di Dio con tantissime e anacronistiche attese, incapace di convertirsi alla mentalità del Vaticano II, alla partecipazione attiva, alla sinodalita’ missionaria, ma attento e capace solo di criticare e di lamentarsi, di brontolare e di ferire, non di perdonare.
E nel popolo di Dio ci sono i confratelli in carriera ecclesiastica, che non perdono l’occasione per parlar male, per denunciare i tuoi comportamenti ai superiori, per dirsi disponibili all’ascolto solo per farti lo sgambetto e per poi cadere dalle nuvole quando ti vedono stanco e depresso,… L’elenco potrebbe continuare, ma mi pare di essermi già espresso chiaramente e non vorrei tediarvi.
Le domande che si pone Giuseppe richiedono anche una risposta. Pur considerando che la soluzione non è nella risposta, bensì nell’onestà di individuare le cause di questa situazione.
Io penso che le cause di questa situazione siano, soprattutto, nella voluta tendenza, presente e propagandata negli ultimi decenni, consistente nella progressiva azione di “equiparare”, all’interno della Chiesa, i sacerdoti e chi sacerdote non è.
Per risolvere questa situazione, quindi, a parere mio, occorre che i sacerdoti siano e facciano i sacerdoti e gli altri fedeli siano e facciano gli altri fedeli e per fare questo è necessario ricordarsi ogni giorno che il sacerdote è, non uno autorizzato o semplicemente mandato, ma è consacrato e le sue mani sono “unte”, come quelle di Nostro Signore.
Penso che occorra ripartire da qui.
Poi possono seguire tutte le altre considerazioni di ordine umano e sociologico. ma queste ultime non si risolvono se non si parte dalla premessa che dicevo.
Infine faccio un’ultra riflessione.
Pensando all’Italia mi chiedo: ma ci sono ancora sacerdoti in Italia; io non ne vedo mai, perché non sono più riconoscibili. Penso che si comprenda a quale aspetto mi riferisco. È un aspetto che non è formale. È sostanziale, perché attraverso questo aspetto i sacerdoti sono immediatamente, da tutti (anche e specie dai non cristiani), percepiti e conosciuti come mirabili testimoni, tra l’altro, anche del fatto che il Signore Gesù è vicino a noi e che cammina con noi.
Sono sacerdoti; uomini piu’ degli uomini, ma non come altri che fanno altre, mi si permetta il termine, professioni.
Io vedo tutt’altro quadro. Al prete nessuna comunicazione negativa, né dal basso, né dall’alto, né tanto meno dai confratelli. E di correzione fraterna non c’è traccia
Il problema del sacerdozio in generale è che oggi manca in Italia (altrove non saprei) una sana e autentica formazione permanente. Si pensa che al sacerdote, una volta ordinato, tutto andrà per il meglio e invece. Non esiste una questione solo umana (psicologica nei termini di Cencini-Sovernigo), ma una questione spirituale (Dio che parla al cuore del sacerdote).
Nei Paesi in cui si è maggiormente investito in termini di “formazione” anche continua dei sacerdoti la situazione, dati alla mano, non sembra aver dato risultati incoraggianti, come sembrano indicare due esempi: Francia (nel 2023 meno ci cento nuove ordinazioni sacerdotali per tutto il Paese e crescita di casi di burnout e abbandoni sacerdotali) e Usa (meno di 400 nuove ordinazioni all’anno per un Paese più grande dell’ intera UE, e numeri non facilmente quantificabili di abbandoni). Credo che le ragioni di una tale debacle siano molto complesse (e diverse a seconda dei contesti geografici) e le possibili soluzioni ancora (a mio avviso) non ben identificate (sembra si proceda per esperimenti più che seguendo programmi definiti anche sul medio/lungo termine). Tenere conto dell’aspetto anche affettivo e psicologico nella formazione) accompagnamento dei sacerdoti penso sia ormai irrinunciabile, anche se ovviamente non basta. Pensare a soluzioni alternative tipo ordinare uomini sposati o donne potrebbe in ogni caso rivelarsi un palliativo, anche perché forse più che “clericalizzare” i laici, occorrerebbe oggi “sclericalizzare” la Chiesa (cominciando magari a smettere di ragionare per categorie, generi e ordini di persone). Ma per questo ci vorrebbe tempo e un’autentica conversione nella “forma mentis” di tanti uomini di Chiesa
I nostri preti non accetterebbero mai una formazione permanente. Loro sono lì per primeggiare