L’anaffettività è una categoria attraverso la quale viene descritto uno stato di freddezza affettiva, che si manifesta anche nelle posture e nell’uso del corpo. La psicologia identifica anche un meccanismo di difesa, denominato “isolamento dell’affetto”, che consiste nella separazione delle idee dai sentimenti originariamente associati.
È quella modalità difensiva che fa perdere il contatto col sentimento connesso a una certa idea, per cui una persona può descrivere accuratamente un evento traumatico senza più avvertirne il carico emotivo. Il risultato è quello di somigliare quasi a un “robot” e i conoscenti la giudicano come una persona “lucida e fredda”. Mostrano una facciata di algida impenetrabilità e hanno difficoltà a comunicare con chi sta di fronte a livello emotivo.
“Il freddo può investire, e talvolta in maniera più deleteria, la verità della vita. Può investire e riguardare le relazioni. Può anche caratterizzare il modo di spendere i propri giorni e le proprie energie. Sicché, il freddo dal quale è necessario ripararsi non è tanto o solo quello fisico dell’ambiente e delle realtà che l’abitano. Dal freddo registrato dalla colonna di mercurio ci si può difendere, almeno da parte di chi ne ha i mezzi. Diverso e meno facile da affrontare è il freddo che spinge sulla pericolosa china dell’indifferenza, figlia dell’individualismo. Diverso e meno facile da affrontare è il freddo del quale Alda Merini scriveva «Vorrei parlarti del freddo del cuore, del mio cuore di radice ferita»; come diverso e meno facile da affrontare è il freddo della ragione che finisce per negare la possibilità della fede, della gioia e quella di donare e di donarsi”[1].
Senza passione
È l’incapacità di entrare nella sensibilità dell’altro e degli altri. Tale incapacità rischia di essere la più estesa e profonda patologia che ammorba il corpo ecclesiale, in modo particolare i presbiteri e/o le persone consacrate. Gli ambienti ecclesiali spesso ruotano attorno a figure pastorali anaffettive, fredde.
Freddo infatti è chi non sente passione, chi si relaziona in maniera rigida e distaccata; freddo è chi si rifiuta di incontrare l’altro per verificare possibili vie d’intesa.
Il prete anaffettivo conduce una vita “da scapolo”, o da “scapolone”[2]. Scapolo è il prete che non ama stare tra la gente, si comporta da funzionario, che non si appassiona alle loro storie e alle loro sofferenze, che non si impegna per risolverle, che preferisce incontri pubblici e formali a quelli privati, che non abita nella casa canonica o in parrocchia, ma ci va ogni tanto per “prestare servizi” come un impiegato o che dice che è sempre stanco anche quando compie solo un po’ del proprio dovere e, in nome di quella stanchezza, organizza vacanze ed evasioni, in barba a tanti parrocchiani che quotidianamente fanno lunghi viaggi per raggiungere il posto di lavoro, che si fanno in quattro per crescere i figli, che accettano mansioni durissime (e spesso mal pagate) per “portare il pane a casa”, che vivono periodi massacranti quando una persona di famiglia si ammala…
E così la castità rischia di diventare come un’armatura affettiva di cui si è rivestito il celibe per il Regno oppure un’anestesia che gli è stata iniettata. Di conseguenza, non si riesce più a manifestare affetto ilare verso qualcuno, non si riesce più a decodificare i sentimenti dei pastori della Chiesa, e questi a loro volta non riescono a conoscere, a condividere le fatiche e le sofferenze dei fedeli comuni e anche degli uomini e delle donne non cristiani che incontrano.
Si rischia di diventare incapaci di sentire e condividere ciò che brucia nel cuore degli altri; anaffettività, perché il legame con Cristo è quello di un amore tiepido; anaffettività, perché i fratelli sono lontani e ormai non li si conosce più come il pastore conosce le pecore (cf. Gv 10,14.27).
Anaffettività addestrata
I preti o meglio tanti preti – diciamolo pure – rischiano, non per natura o per vocazione ma per l’educazione loro impartita nel cammino formativo, di essere degli “anaffettivi” che non riescono a provare né ad esprimere affetto in situazioni o condizioni in cui normalmente questo viene provato. Manca spesso nel loro percorso di formazione un’educazione sentimentale. Questa mancanza di formazione ai sentimenti incide ancora nell’animo dei preti e rivela una cattiva educazione emotiva.
La costante esaltazione della razionalità sull’emotività genera una sistematica incapacità di accettare ogni forma di attività emotiva e una totale assenza di empatia, una strutturale inabilità a mettersi nei panni degli altri immaginando cosa questi possono provare in conseguenza delle nostre azioni.
È un tratto costitutivo della “personalità clericale” di “anaffettività addestrata” che si manifesta anche come incapacità di mettersi, appunto, nei panni degli altri.
L’atteggiamento spesso prevalente nei preti che non sono riusciti a superare l’anaffettività è un voler sempre tenere le distanze, un aver paura di esprimere apertamente i propri sentimenti. II timore che l’espressione di un affetto o anche un contatto fisico nella quotidianità della vita di parrocchia possa essere male interpretato.
Ad amare si impara nella concretezza di situazioni determinate, non in astratto. Le amicizie sono una necessità per le persone, non un lusso. Invece l’ossessione dell’equidistanza genera freddezza emotiva.
Spesso nella Chiesa le relazioni appaiono occasionali, non diventano mai storia, si interrompono e si dimenticano presto, e la gratitudine, la sorpresa, il cuore che batte per la presenza dell’altro sono quasi impossibili da rinvenire. Perché? È una mancanza di qualità umana, di “stoffa” umana? È dovuto al fatto che si educano persone a essere diafane, a volte “senza carne”? È dovuto al fatto che la vita ecclesiale si è talmente burocratizzata che non c’è più tempo per l’amicizia trasparente e pura, per gli incontri gratuiti ma carichi di gioia?
A un giovane prete
È d’uopo citare a riguardo don Milani, nel centenario della sua nascita. Egli affermava: “Le maestre sono come i preti e le puttane. Si innamorano alla svelta delle creature. Se poi le perdono non hanno tempo di piangere”[3]? A un giovane prete che era solito andarlo a trovare diceva:
“Vedi, Mario, il prete deve crearsi degli affetti umani veri, carnali direi quasi. Altrimenti come può vivere lui che ha rinunziato a formarsi una famiglia col matrimonio? O va in cerca di donne o si attacca ai soldi. In ogni caso, è un disperato. Io ce l’ho la famiglia, non ho problemi affettivi e non soffro di solitudine. Invece che due, tre, cinque figli, Dio me ne ha dati a decine. Voglio bene a questa gente e loro vogliono bene a me. Se uno di noi si ammala, tutti ci preoccupiamo. È più che una famiglia. Dio non mi poteva dare di più. La sera si sente salire dalla valle, portato dal vento, il rumore dei motorini che riportano a casa gli operai o qualcuno dei ragazzi più grandi sceso al paese per commissioni. So distinguere se si tratta del motorino del babbo di Giancarlo o di quello di qualche ragazzo. Mi fanno compassione quelli della Curia quando mi offrono una nuova parrocchia, magari di città, più grande e più prestigiosa di questa; come se venissero a liberare uno che sta qui per forza e a dar vita a uno che sta per morire. Credono che mi farebbe piacere lasciare questi monti per la città. Sì, potrei anche farlo, ma in questo caso non andrei via solo, porterei tutti con me. Non sanno cosa vuol dire amare”[4].
Per don Milani la relazione è fondamentale. In primo luogo, è tale se vissuta nella massima trasparenza (criticando anche la «propria ditta») e nell’interezza della propria persona. Con l’intensità dei rapporti personali. Milani è contro la falsità di un amore universale.
L’intensità diventa a sua volta fedeltà alla relazione con cui si rinnova di continuo la fiducia, anche e soprattutto nei momenti di crisi e di fallimento, che un vero maestro non trasforma mai in senso di colpa o non trasferisce sugli allievi come giudizio e disistima, ma sa cogliere come occasione preziosa per lasciarsi interrogare. Sempre ritrovando al fondo speranza e sani equilibri.
In terzo luogo, la relazione non è mai possessiva. Per don Milani fine ultimo della scuola è la consegna alla vita di uomini e cittadini sovrani. Senza timidezza – come si insiste fin dall’inizio della Lettera a una professoressa. Sollecitando per questo (e non sublimando o incanalando) una sana aggressività.
Viene ancora una volta da pensare a Socrate, ma anche alla capacità di don Milani di dirci dove conduce una vera relazione, quale valore ha il conflitto, quanto sia importante la franchezza. E quindi come si educa veramente alla pace, che è tale solo se si realizza nella verità e nella giustizia. Tutto questo è il contrario dell’anaffettività.
Ricorda Giovanni Salonia, cappuccino e psicoterapeuta: «la relazione sarà la chiave del terzo millennio; […] essa si invera e rigenera quando ogni partner lascia progressivamente i calzari del potere e della seduzione, della dipendenza e dell’accusa, per entrare in una terra a lui sconosciuta: la “terra di nessuno” dove ci si riscopre – finalmente e unicamente – compagni di viaggio. Il cuore misterioso e inesauribile del vivere insieme si colloca là, dove si geme per generare l’unicità che alla relazione si consegna per dare vita ad una relazione che l’unicità accoglie e custodisce»[5].
Amore generico
I preti un po’ anaffettivi rischiano di amare tutti e nessuno e di ritrovarsi solo a nostro agio nel club dei pochi eletti. Questa modalità anaffettiva di relazione dovrebbe farci riflettere molto, perché davanti a un prete incapace di amore pastorale verso i fedeli, a volte, si nasconde un vescovo incapace di amore verso il proprio prete.
I legami cosiddetti verticali, dove la gerarchia ancora una volta non riguarda ovviamente il valore delle persone, ma la posizione intergenerazionale che esse occupano e il livello di responsabilità che esercitano, vivono e si nutrono anch’essi di una sostanza etico-affettiva. In questo caso, la dimensione affettiva si esprime nella protezione e nella fiducia e speranza nelle possibilità dell’altro e la dimensione etica si traduce nella responsabilità nei suoi confronti e nell’impegno educativo.
Non si può ignorare che la dimensione affettiva permea praticamente ogni ambito vitale di una persona. La comunicazione, la riflessione e la relazione implicano una perturbazione nella quiete affettiva; e questo accade anche nell’ambito pastorale, nell’evangelizzazione e nella liturgia.
Come il corpo è sempre coinvolto nelle azioni umane, così la psiche e con essa la dimensione affettiva di una persona. In tal senso è solo per l’attuazione di meccanismi difensivi che si può arrivare a una freddezza, a un’impassibilità da parte di un consacrato.
Affetto e celibato
Al contrario, il celibato trova la sua radice anzitutto nell’affetto o nella facoltà dell’amore, dove l’esistenza decide di manifestarsi come dono». Saper amare è avere la capacità di una benevolenza gratuita e di fare un passo anche prima che l’altro l’abbia meritato; è avere la capacità di essere attenti alle individualità, senza per questo scadere in esclusivismi; è avere la capacità di guidare in maniera ferma, mentre si accompagnano le persone, senza scadere in atteggiamenti solo consolatori.
Il celibato non è per persone anaffettive, per i polli freddi, ma per uomini e donne che sanno amare davvero e tuttavia, avendo rinunciato a se stessi, vivono in un dono continuo. Il celibato è a servizio dell’amore, non è certo roba per tacchini surgelati! Quei preti che, per paura, non si mettono in gioco nelle relazioni, non corrono il rischio sublime dell’amicizia, mi fanno tanta pena in effetti e penso che si perdono proprio il bello del celibato che, invece, serve a potenziare le relazioni, non a reprimerle, a renderci capaci di una tenerezza universale.
“Ogni vocazione cristiana, in questo senso, – ora possiamo allargare un po’ la prospettiva, e dire che ogni vocazione cristiana, in questo senso, è sponsale. Il sacerdozio lo è perché è la chiamata, in Cristo e nella Chiesa, a servire la comunità con tutto l’affetto, la cura concreta e la sapienza che il Signore dona. Alla Chiesa non servono aspiranti al ruolo di preti – no, non servono, meglio che rimangano a casa –, ma servono uomini ai quali lo Spirito Santo tocca il cuore con un amore senza riserve per la Sposa di Cristo. Nel sacerdozio si ama il popolo di Dio con tutta la paternità, la tenerezza e la forza di uno sposo e di un padre”[6].
Per questo mi piace citare una pagina di Romano Guardini che medito spesso in cui si parla di come Gesù viveva il suo celibato. Quello è il mio modello! È ciò che vorrei essere io, è ciò che chiedo ad ogni prete.
“Gesù non ha paura della sessualità, non la disprezza né la combatte. Non si trova mai neppure un segno che possa indicare che abbia dovuto reprimerla a forza. Perciò potrebbe sorgere spontaneo l’interrogativo se egli sia stato insensibile, come certe persone che non conoscono né lotta né superamento, perché sono in realtà anaffettive e indifferenti. Certo no! L’essere di Gesù è pieno di profondo calore, tutto in lui vive. Tutto è sveglio e colmo di energia creativa. Con quale partecipazione si accosta alle persone! Il suo amore per loro non viene da dovere o volontà, ma si effonde di per sé. L’amore è la forza fondamentale del suo essere. (…)
Ma nessuno scoprirà in questi rapporti qualcosa come un legame segreto o delle brame rimosse. Sono espressioni di una limpida e calda libertà. Quando riflettiamo su Gesù, troviamo che in Lui tutto è ricco e vivo, tutte le sue energie però sono assunte dentro il cuore, sono diventate forze dell’amore, volte a Dio e in un costante fluire verso di Lui (…) Ciò che appunto costituisce la dimensione inafferrabile della persona di Gesù sta nel fatto che la pienezza delle sue energie vada così, senza alcuna forzatura né violenza, senza distorsione, senza aggiramento malizioso verso Dio e da Dio poi vada verso l’uomo. Che tutto dunque sia così puro e trasparente. Da lui, che ha parlato così poco della sessualità, emana una forza che pacifica, purifica e domina queste potenze come nessun altro[7].
Rigidità ministeriale
Perché allora taluni preti sono così frigidi e tristi? Niente, neanche un sussulto? Ma che Dio avranno mai incontrato questi preti nella loro vita? Di chi mai sono testimonial questi presbiteri, se oggi si trova più convinzione e cura nel raccontare la bontà di uno yogurt?
«Pur con tutto il loro zelo, si ha tuttavia l’impressione che queste persone non irradino nulla dell’amore e della bontà di Cristo. Da esse non traspare neppure alcun entusiasmo. Tutto ha il sapore della pedanteria, della rigidità. Sono individui pignoli, privi di gioia, duri nel giudizio, pieni di sé»[8].
Inoltre, la rigidità cognitiva è una caratteristica delle persone che non osano cambiare opinione e non sono in grado di accettare nuove idee alternative. Sono prigionieri di una sorta di “monoteismo del sé”[9]. Questo spesso non gli impedisce di essere attraente e fascinoso, nella sua immagine di eterno adolescente che si sottrae a ogni legame e si fa da sé.
Essere preti anaffettivi è una bestemmia. Sì, la vera bestemmia, oggi, è tradire l’umanità, è non dare futuro, è non concretizzare la speranza. L’umanità del prete è il primo sacramento. Non si dimentichi che la freddezza, la distanza, l’anaffettività sono segni di clericalismo che a loro volta rivelano un’istituzione anaffettiva senza identità, dedita solo a compiti burocratici. L’anaffettività porta una grande rigidità. Molti preti sono affettivi virtuali e anaffettivi reali.
“Le tre parole che definiscono la vita di un sacerdote, e di un cristiano pure, perché si prendono proprio dallo stile di Dio: vicinanza, compassione e tenerezza”[10].
Impariamo a vivere con passione. Perseveriamo nella passione per l’altro, perché non ci sarà né collegialità, né sinodalità, se nella Chiesa permane la freddezza delle relazioni. L’Apostolo ammonisce: “Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù” (Fil 2,5), dunque resistiamo all’anaffettività.
E non lo si dimentichi: dove non c’è affettività, nasce e cresce il risentimento, la frustrazione del clero, il senso di inadeguatezza, la scontentezza. In definitiva, proprio ciò che nelle intenzioni vorrebbe incoraggiare la libertà interiore del prete e in fondo in fondo “anaffettivo”, e che si deve lavorare per una comunità o un gruppo “a fondo perduto”; dall’altra, fa divampare paradossalmente il carrierismo. Il risultato è che i sacerdoti anaffettivi sono speso portati a simulare e mentire.
Don Tonino
Contrario dell’anaffettività è il calore, “fatto di relazioni nelle quali non vengono annullate le differenze e nelle quali è possibile coltivare responsabilità vissute con grande passione. Non importa se «uno può avere un focolare ardente nell’anima e tuttavia nessuno viene mai a sedervisi accanto. I passanti vedono solo un filo di fumo che si alza dal camino e continuano per la loro strada» (V. van Gogh). Può capitare anche questo!”[11].
Mi piace concludere con una preghiera del venerabile vescovo Tonino Bello, bell’esempio di sacerdote appassionato, innamorato di Dio, della gente e dei poveri:
Spirito del Signore, dono del Risorto agli apostoli del cenacolo,
gonfia di passione la vita dei tuoi presbiteri.
Riempi di amicizie discrete la loro solitudine.
Rendili innamorati della terra, e capaci di misericordia per tutte le sue debolezze.
Confortali con la gratitudine della gente e con l’olio della comunione fraterna.
Ristora la loro stanchezza, perché non trovino appoggio più dolce per il loro riposo
se non sulla spalla del Maestro.
Liberali dalla paura di non farcela più.
Dai loro occhi partano inviti a sovrumane trasparenze.
Dal loro cuore si sprigioni audacia mista a tenerezza.
Dalle loro mani grondi il crisma su tutto ciò che accarezzano.
Fa’ risplendere di gioia i loro corpi.
Rivestili di abiti nuziali. E cingili con cinture di luce.
Perché, per essi e per tutti, lo sposo non tarderà[12].
[1] N. Galantino, Freddo. Senza amore, in “Il Sole 24Ore”, 14 maggio 2017.
[2] Papa Francesco, Discorso ai partecipanti al Simposio “Per una teologia fondamentale del sacerdozio”, 17 febbraio 2022.
[3] L. Milani, Lettera a una professoressa. Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 1996, p. 10.
[4] M. Landi, “Tutto al suo conto”. Don Lorenzo Milani con Dio e con l’uomo, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), 2023, pp. 68-69.
[5] G. Salonia, Sulla felicità e dintorni, EdiArgo, Ragusa, 2004, pp. 111-112.
[6] Francesco, Udienza del 31 ottobre 2018.
[7] R. Guardini, Il Signore, Vita e Pensiero – Morcelliana, Milano-Brescia 2005, p. 121.
[8] Rulla M. – Imoda R – Ridick J., Struttura psicologica e vocazione, Torino 1977, p. 88.
[9] P. Sequeri, La cruna dell’ego. Uscire dal monoteismo del sé?, Vita e Pensiero, Milano 2017.
[10] Francesco, Discorso ai partecipanti al Simposio “Per una teologia fondamentale del sacerdozio”, 17 febbraio 2022.
[11] N. Galantino, Freddo. Senza amore, in “Il Sole 24Ore”, 14 maggio 2017.
[12] A. Bello, Omelia per la messa crismale, 12 aprile 1990, in Id., Omelie e scritti quaresimali, = Scritti di Mons. Antonio Bello 2, Mezzina, Molfetta 1994, p. 76.
Ottimo articolo e complimenti all’autore. Il prete è colui che è umano, amante del Signore Gesù e desideroso di far conoscere l’amore concreto e maturo del Figlio di Dio. Tra le diverse caratteristiche importanti per il prete, due è bene che primeggino: una forte spiritualità radicata in Cristo e la vicinanza di una donna equilibrata e matura che condivida consapevolmente la missione del prete.