Il ministero diaconale è una vocazione

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Abbiamo celebrato l’8 maggio scorso la Giornata mondiale di preghiera per le vocazioni che ha avuto per tema “Chiamati a edificare la famiglia umana”. È consuetudine ormai consolidata che il messaggio sia spesso rivolto a sacerdoti, consacrate e consacrati, fedeli laici.

Più volte ho sentito nei nostri convegni l’amarezza sul perché nelle nostre diocesi non si parli del ministero diaconale, che è parte del “sacerdozio ordinato”, come vocazione che va promossa e fatta conoscere nella sua identità. Non solo, ma credo che possa essere anche di supporto e di valorizzazione della vocazione presbiterale (forse è ormai il tempo di non usare più il sostantivo “sacerdoti” per identificare i presbiteri).

Pertanto mi permetto di offrire qualche spunto di riflessione sulla vocazione al ministero diaconale.

La vocazione al diaconato come fioritura del battesimo

Il diaconato, come tutte le altre chiamate, prima di ogni sua espressione, è fondamentalmente una vocazione, cioè una strada della nostra consegna personale a Dio. La vocazione al diaconato, se pure si può manifestare attraverso i suggerimenti e il confronto con alcune persone o attraverso l’indicazione della comunità, è e resta una chiamata di Dio, di cui bisogna rispondere a Dio. Una vocazione che, pur passando attraverso la comunità, viene da Dio e a Dio deve tornare.

I diaconi sono, innanzitutto, dei cristiani che il Signore, nel battesimo, ha chiamato e inserito nel suo corpo mistico. La loro vita, la loro vocazione, non è altro che la fioritura del battesimo che rimane la radice fondamentale dell’appartenenza a Gesù e alla sua Chiesa.

Ogni vocazione che nasce da un dialogo personale tra Dio e l’uomo, tra Dio e la donna, matura, si sviluppa e si compie nell’introduzione della persona nella comunità cristiana. Esiste infatti un profondo legame fra l’unità della Chiesa e l’unità di tutti gli uomini, come dice all’inizio la Lumen gentium quando definisce la Chiesa come segno e strumento dell’unità dell’universo.

Ma, per Dio, ogni uomo ha un solo nome e quindi una sola vocazione. E questa è per ciascuno quella battesimale, che matura in diversi modi, secondo le strade scelte dal Signore, secondo il proprio stato di vita.

Infatti – scrive Francesco nel messaggio di quest’anno –, «in virtù del battesimo ricevuto, ogni membro del Popolo di Dio è diventato discepolo missionario (cf. Mt 28,19). Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione» (Evangelii gaudium, 120).

Riandare al battesimo, perciò, vuol dire riandare a ciò che è essenziale nella vita dei cristiani: l’immedesimazione con la vita di Cristo (cf. Ef 4,5). Solo entrando in questa prospettiva possiamo comprendere come la vocazione originaria sia arricchita da nuovi doni (matrimonio, ordine, consacrazione a Dio…) che si innestano nella vita di ognuno in funzione dell’edificazione della Chiesa.

La missione del diacono

Come per ogni vocazione, anche quella al diaconato si specifica sempre in un compito che tuttavia non la esaurisce mai. L’essenza del ministero è la chiamata di Dio al suo servizio. L’espressione di tale servizio deve rinnovarsi continuamente nell’ascolto della volontà del Signore che parla innanzitutto attraverso il vescovo e i fratelli.

Afferma significativamente la CEI negli Orientamenti e norme rivolti ai diaconi in Italia: «La vocazione al diaconato non è semplice momento di organizzazione dei servizi ecclesiali, ma procede da Dio come avvenimento di grazia, che interpella il singolo soggetto e, insieme, suppone e domanda un cammino di fede da parte dell’intera comunità».

Servitore della comunione

I diaconi sono stati storicamente istituiti per il servizio della carità. In realtà, dietro questa espressione è possibile raccogliere tutti e tre i servizi (liturgico, caritativo e catechetico). Ognuno di questi compiti, infatti, è ordinato all’edificazione della vita ecclesiale, del Corpo di Cristo nella storia, della vita divina che Gesù ci ha comunicato che è essenzialmente carità. Quindi il diacono è chiamato a servire la comunione all’interno della Chiesa. La parola comunione, infatti, descrive la realizzazione e la testimonianza più grande della carità.

Tuttavia, se, da un lato, essa è una realtà realizzata in modo oggettivo dai sacramenti e quindi ricevuta come dono, dall’altro, è anche un evento dinamico, che richiede un cammino, un’educazione, una continua conversione del cuore.

Che cosa ha a che fare tutto questo con la nostra vocazione? Io penso che i diaconi hanno un compito fondamentale in ordine alla comunione delle nostre comunità. Comunione tra presbiteri e diaconi.

Una interazione pastorale tra presbiteri e diaconi deve ripartire dal vescovo e dal suo presbiterio. Pertanto è auspicabile che i vescovi assumano pienamente il ministero dei propri diaconi non delegando ad altri il rapporto con loro, ma accogliendo il desiderio di comunione e il bisogno di sentirsi inviati. L’eucaristia “del vescovo”, presieduta nelle singole comunità dai presbiteri, può ricucire lo strappo tra la prassi caritativa e la sua fonte sacramentale.

I diaconi, inoltre, proprio per questo loro status di “cerniera”, possono svolgere un grande ruolo nel necessario rinnovamento delle nostre comunità. Possono favorire la nascita di una nuova realtà nella pastorale, una realtà che si dipani dalla comunione vissuta tra presbiteri, diaconi e laici che, assieme, portano le responsabilità della comunità. In una parola, camminare insieme, costruire sinodalità.

Il diacono: presenza della Chiesa in mezzo al mondo

Quanto ho detto finora rispetto al cuore del compito diaconale nelle comunità ecclesiali non esaurisce certamente la preziosità della vocazione ministeriale. Lo scopo stesso delle comunità non è di concentrare dei fedeli attorno al campanile, ma di inviare dei discepoli nel mondo per evangelizzarlo (Mt 28,19-20).

Francesco, nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, è molto esplicito in proposito: «Attraverso tutte le sue attività, la parrocchia incoraggia e forma i suoi membri perché siano agenti dell’evangelizzazione. Le altre istituzioni ecclesiali, comunità di base e piccole comunità, movimenti e altre forme di associazione, sono una ricchezza della Chiesa che lo Spirito suscita per evangelizzare tutti gli ambienti e settori».

In questa prospettiva, il diaconato si rivela non solo come un dono in sé, ma come risorsa preziosa per l’evangelizzazione. Trait d’union tra Chiesa e società, il diacono non deve esaurire la sua responsabilità in compiti interni alla comunità ma, innanzitutto, attraverso la famiglia e il lavoro, diventare testimone di Cristo in una missione – quella della Chiesa – che ha i confini del mondo nelle periferie.

La responsabilità del lavoro professionale

Di solito, un diacono ha delle responsabilità di lavoro professionale. Si tratta di un impegno che non deve entrare in collisione con la propria vocazione; è, al contrario, un particolare dono di grazia che allarga e approfondisce il campo del suo ministero.

Infatti, i diaconi si trovano a vivere molto tempo della loro esistenza al fianco di uomini e donne che si incontrano sul posto di lavoro, uomini e donne che spesso non frequentano la vita delle comunità, ma i quali, attraverso testimonianza di vita dei diaconi, possono cogliere il valore autentico della comunità ecclesiale.

Il lavoro, quindi, non è solo una parte importante del tempo del diacono, ma è un campo privilegiato della missione diaconale, un luogo proprio della sua vocazione, dove il diacono esprime la sua identità ministeriale.

Oggi più che mai, in un contesto sociale segnato dall’individualismo, dall’edonismo e dalla ricerca del proprio interesse, è urgente la riscoperta del senso profondamente umano e cristiano del lavoro.

In questo enorme campo di evangelizzazione il diacono può giungere molto più in profondità di quanto, per esempio, non passa fare un presbitero, non fosse altro che per la credibilità che più facilmente gli può essere accordata da coloro di cui condivide dall’interno le medesime circostanze lavorative.

La testimonianza del diacono può rendere evidente, anche senza parole, quanto il lavoro sia connesso all’amore, per sé, per gli altri, per Dio. Attraverso il lavoro l’uomo, fatto a immagine di Dio, collabora all’opera del Creatore, esprime sé stesso e comprende il proprio posto nel mondo.

Non dobbiamo tuttavia ignorare che il campo del lavoro esige continuamente una serie di decisioni. Occupa molto tempo della persona, molte energie fisiche, mentali e spirituali. Può mettere a rischio i rapporti con la famiglia, con gli amici e le proprie responsabilità diaconali. La ricerca di guadagni più alti, di promozioni o, all’opposto, la perdita del lavoro, la necessità di un’improvvisa mobilità… sono situazioni che richiedono una grande maturità. Tutto nella vita di ogni uomo, e ancor più in quella del diacono, deve perciò essere tenuto insieme, ricondotto all’unità, vivendo cristianamente le proprie giornate.

Il criterio fondamentale attraverso cui guardare alle proprie scelte non può che essere, come per ogni uomo e ogni donna, la crescita della propria vocazione. Nel caso della vocazione diaconale e – nel caso di diaconi sposati – quella matrimoniale, è il bene della Chiesa a cui si sono affidati e che certamente li aiuterà nei momenti difficili. Sappiamo bene che i diaconi vivono le difficoltà e le fatiche di tutti. Anche i momenti di crisi della fede.

Conclusione

La vocazione al diaconato, soprattutto quella di un uomo sposato, è una vocazione complessa, ma può essere vissuta, con l’aiuto di Dio, in vera pienezza. Esige grande preghiera, un intenso amore alla comunione, soprattutto con la propria moglie, e comporta spesso grandi responsabilità.

Chiamati – i diaconi – a camminare, edificare e confessare (parole rivolte dal papa ai cardinali all’inizio del suo pontificato), possono offrire al mondo il volto delle cose semplici e autentiche. È una bella sfida quella che lancia il vescovo di Roma al ministero diaconale, non possiamo lasciarla cadere nel vuoto.

Il gesto della lavanda dei piedi compiuto all’inizio del suo pontificato – come era solito fare a Buenos Aires – indossando la stola diaconale è un segno molto forte che mette al centro i poveri e gli emarginati, è un segno di parresia evangelica per il mondo.

Per molto tempo, i teologi, i vescovi e gli stessi diaconi sono andati alla ricerca dell’identità del diaconato. Con il suo insegnamento, Francesco presenta alla comunità la visione chiara di una Chiesa diaconale.

Questa visione può integrare insieme il meglio del lavoro degli studiosi, della riflessione teologica e della ricerca storica. Essa include il servizio ai poveri e ai sofferenti nelle opere della carità cristiana così come l’opposizione profetica contro l’ingiustizia. Ma incorpora anche in sé l’avvicinamento di coloro che sono poveri spiritualmente, i cercatori della verità, i lontani da Dio, quelli che non sono mai stati cristiani e quelli che non credono più.

Significativa la lettera scritta a mano che il papa ha inviato in occasione dell’ordinazione di alcuni diaconi di Buenos Aires, nella quale ha voluto sottolineare come il servizio debba connotare l’esistenza e l’esercizio del ministero diaconale, un ministero che esprime e manifesta pubblicamente la vocazione al servizio stesso… e questo non solo per un tempo determinato, ma per tutta la vita, permanentemente.

La sfida, dunque, per un salto di qualità nella pastorale delle vocazioni sollecita questo auto-coinvolgimento di tutte le comunità parrocchiali. Di qui le due fondamentali caratteristiche della pastorale vocazionale: la coralità e la popolarità.

Il problema vocazionale va riportato sul terreno giusto, nei solchi pe­riferici delle nostre Chiese, in cui è urgen­te l’apporto di tutti, in cui la gente – e so­prattutto il popolo della domenica – va aiu­tato ad entrare nella logica del dono: le vocazioni sono da accogliere, ma pure da favorire per farne dono ad altre comuni­tà. Insomma, le vocazioni sono un proble­ma di Chiesa di popolo, luogo di annuncio esplicito di tutte le vocazioni.

La comunità cristiana è il luogo concreto in cui i credenti partecipano della comune dignità dei figli di Dio attraverso il batte­simo e maturano quelle vocazioni partico­lari che “insieme” esprimono il volto del­la Chiesa come comunità dei doni dello Spirito.

È sotto gli occhi di tutti che la vocazione alla diaconia, forse per la babele di linguaggi in cui viviamo, forse per il tempo di penuria vocazionale che attraversiamo, spesso è misconosciuta e il discernimento vocazionale avviene nell’inerzia di una semplificata prassi pastorale, a volte ingenua a volte anche pasticciona, incapace di affrontare con perseverante vigilanza l’arduo cammino della conoscenza del cuore di Dio e del proprio cuore.

Il riconoscimento di una vocazione diaconale deve essere considerato un’opera della grazia ma costituisce anche un avvenimento ecclesiale che di fatto coinvolge, o dovrebbe coinvolgere, a vario titolo, molti protagonisti: dalla comunità di origine, allo stesso candidato; dal responsabile della comunità ai delegati, dai diversi formatori preposti allo stesso vescovo.

Non è quindi una scelta affidata solo ai buoni sentimenti o lasciata all’intenzione personale dei singoli, ma una scelta ecclesiale vera e propria che, sapendo riconoscere i doni di Dio, opportunamente li utilizza per la crescita della comunità. Un corretto cammino di discernimento, premessa indispensabile per ogni fruttuosa ordinazione ministeriale.

Questo discernimento, ordinariamente, si configura come un riconosci­mento di diaconie già di fatto esercitate e riconosciute nella concreta edifi­cazione della comunità, e consiste in una serena ed equilibrata ricognizione del già esistente.

Il contesto più idoneo per una diaconia vocazionale è la realtà ecclesiale: la Chiesa è il luogo storico, pneumatologico della voca­zione, perché in essa ogni chiamata al servizio prende consistenza e riceve la sua conformazione ministeriale in ordine a Cristo.

Il discernimento vocazionale deve tener conto della concreta articolazione di questi elementi, senza cercare espedienti per soluzioni di compromesso e per equilibri ispirati ad un pragmatismo utilitaristico che privilegia le cosiddette “esigenze pastorali” a scapito della verità teologica del servizio ordinato, mortificando l’operato della grazia e contribuendo a produrre quei frutti penosi che tutti, a parole, continuano a lamentare.

Al di fuori di questa prospettiva ecclesiale, non c’è servizio ministeriale vero che il diacono possa offrire per aiutare il cammino diaconale dei can­didati al ministero; il suo impegno si qualificherebbe in senso solo soggettivo e personale.

Al termine di questa veloce carrellata dedicata al percorso della vocazione al diaconato, è evidente che il discernimento deve tenere conto della complessità di origine della vocazione diaconale. Non ci sono procedure rigide valide per ogni situazione, ci sono però esigenze chiare che vanno tenute presenti: quelle appunto che derivano da una corretta ecclesiologia e da una giusta teologia della vocazione cristiana.

PREGHIERA PER I DIACONI

Signore Gesù Cristo,
che hai mandato i tuoi discepoli
a proclamare a tutti il Regno dei Cieli, non solo con le parole,
ma anche con le opere di misericordia.
Ti preghiamo per tutti coloro che, nella tua Chiesa,
vivono il diaconato come una missione.
Rafforzali con il tuo Spirito,
incoraggia loro e le loro famiglie,
per annunciare la tua Parola
con ardore e manifestare la tua tenerezza
e la tua misericordia ai più piccoli,
ai più poveri e gli esclusi.
Dona alla tua Chiesa nuove vocazioni al diaconato (Papa Francesco).

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