Penitenza, sacramento del cammino

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Nella prima monografia del 2024 di Presbyteri «la nostra attenzione va alla persona del presbitero, chiamato al ministero della confessione, ma anche a curare il proprio cammino spirituale, individuandone gli ostacoli e ponendosi anche lui in un cammino di conversione. È proprio il prete, come cristiano e quindi penitente, a sperimentare per primo, nonostante la sua fragilità, la grandezza della misericordia di Dio. Il sacramento della penitenza va inoltre ricollocato dentro il cammino di “penitenzialità” della Chiesa, attraverso una corretta conoscenza e uso del Rito e delle varie occasioni e strumenti di cui la Chiesa dispone per annunciare, celebrare e vivere la misericordia». Riprendiamo qui l’editoriale.

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Mercoledì 20 novembre 2013: apparentemente una data come tante, eppure nella catechesi di quel mercoledì papa Francesco, eletto pochi mesi prima (13 marzo 2023) riempì di stupore i fedeli presenti all’udienza, giornalisti compresi, rivelando qualcosa di molto personale nel modo semplice e spontaneo che gli è consueto: «Anche il papa si confessa ogni quindici giorni, perché anche il papa è un peccatore. E il confessore sente le cose che io gli dico, mi consiglia e mi perdona, perché tutti abbiamo bisogno di questo perdono».

Francesco aveva iniziato, nel mercoledì precedente, una serie catechesi sul significato della «remissione dei peccati», partendo dal battesimo e approdando al sacramento della penitenza e della riconciliazione.

A quella prima esternazione personale si aggiunsero altre riflessioni, in contesti diversi, in cui papa Francesco aiutava a comprendere il senso ecclesiale di questo sacramento e a riflettere sul fatto che esso è oramai un… «desaparecido» nella vita di molti cristiani e forse (mi auguro di sbagliarmi!) anche nell’esperienza di alcuni presbiteri.

Tante persone forse non capiscono la dimensione ecclesiale del perdono, perché domina sempre l’individualismo, il soggettivismo, e anche noi cristiani ne risentiamo. Certo, Dio perdona ogni peccatore pentito, personalmente (…) ma per noi cristiani c’è un dono in più, e c’è anche un impegno in più: passare umilmente attraverso il ministero ecclesiale. Questo dobbiamo valorizzarlo; è un dono, una cura, una protezione e anche è la sicurezza che Dio mi ha perdonato[1].

In una udienza di qualche mese dopo, Francesco usò ancora delle espressioni piuttosto provocatorie:

L’apostolo Paolo raccomanda al discepolo Timoteo di non trascurare, anzi, di ravvivare sempre il dono che è in lui. Il dono che gli è stato dato per l’imposizione delle mani (cf. 1Tm 4,14; 2 Tm 1,6) (…) Il vescovo che non prega, il vescovo che non ascolta la Parola di Dio, che non celebra tutti i giorni, che non va a confessarsi regolarmente, e lo stesso il sacerdote che non fa queste cose, alla lunga perdono l’unione con Gesù e diventano di una mediocrità che non fa bene alla Chiesa[2].

In una delle prime interviste, rilasciata da Francesco a padre Antonio Spadaro e apparsa su La Civiltà Cattolica, alla domanda «Chi è Jorge Mario Bergoglio?» il papa rispose: «Io sono un peccatore. Questa è la definizione più giusta. E non è un modo di dire, un genere letterario. Sono un peccatore».

In quel contesto spiegò anche il motto episcopale che aveva scelto per sé: «Sono un peccatore al quale il Signore ha guardato. Io sono uno che è guardato dal Signore. Il mio motto Miserando atque eligendo l’ho sentito sempre come molto vero per me». E aggiunse: «Il gerundio latino miserando mi sembra intraducibile sia in italiano che in spagnolo. A me piace tradurlo con un altro gerundio che non esiste: misericordiando»[3].

La via della Riconciliazione

La parola «riconciliazione», oggi, può essere interpretata e compresa a più livelli: da quello più psicologico ed esistenziale, dove la riconciliazione è uno stato di armonia e benessere interiore che nasce dal riannodare i tanti fili spezzati delle nostre vite, ad un livello più sociale e culturale, dove le tensioni ideologiche e politiche portano a lacerazioni profonde del tessuto relazionale e dei rapporti di convivenza. Per approdare a un piano più ecclesiale e sacramentale, dove il recupero del momento sacramentale della riconciliazione può divenire una via meravigliosa e feconda per un cammino personale e comunitario nella ricerca della verità e della pace del cuore.

Ciò comporta una profonda rivisitazione di tanti luoghi comuni sul modo di vivere la riconciliazione come «sacramento», spesso relegato nel dimenticatoio dell’oblio e trascurato nella disponibilità pastorale degli stessi presbiteri.

Non è un compito burocratico da assolvere, tipo certe confessioni legate al senso di un dovere demotivato e superficiale che molti cristiani affrontano in prossimità del Natale o della Pasqua.

Non è neppure una modalità di revisione della propria vita che utilizza formule di lettura di sé stessi ripetitive perché legate a modelli infantili totalmente scollegati dalla realtà che la persona vive. Ciò che dovrebbe maturare a livello di coscienza e di cuore è la necessità di una motivazione profonda di «confronto-stimolo» per la propria vita, non per un impegno generico di… cambiare qualcosa, ma piuttosto per ritrovare il coraggio e la fiducia di misurarsi con un quadro di valori attuale e maturo, capace di incidere su alcuni nuclei essenziali delle proprie scelte esistenziali, spirituali e morali.

La conversione del cuore

È un tema particolarmente coinvolgente e fecondo. Ci sono molte pagine della Parola di Dio che ce lo propongono come «specchio di vita»: dalla forza dirompente di alcuni profeti (basti pensare a Geremia, ad Ezechiele, ad Amos o Osea), al travaglio di personaggi biblici che intercettano anche la nostra sensibilità attuale, come Qoélet, Giobbe o Giona, fino a quei racconti straordinari del Vangelo dove Gesù crea un legame profondo tra la conversione del cuore e la guarigione totale della persona attraverso il perdono.

Senza dimenticare l’esperienza di san Paolo, che nei propri racconti autobiografici fa un continuo riferimento al proprio cammino personale, toccato dalla grazia della conversione, che segnerà in maniera indelebile la sua storia di maestro di conversione e di riconciliazione per le comunità cristiane da lui stesso fondate e alle quali era profondamente legato.

Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. Pertanto, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto (1Cor,15,10).

Sul senso autentico e profondamente attuale della conversione, troviamo delle intuizioni luminose e concrete in uno dei primi testi di un attento “scrutatore” della vita umana e spirituale, quale è stato Henry J.M. Nouwen: Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo[4].

Nouwen propone tre passaggi, tuttora molto incisivi:

  • dall’isolamento alla solitudine, come sorgente del vivere insieme;
  • dall’ostilità all’ospitalità, come espressione del senso vero dell’accoglienza;
  • dalla illusione alla preghiera, come purificazione di un rapporto con Dio, reso più libero e veritiero.
La riconciliazione via di positività

Un grande narratore e amante di Dio, quale fu s. Tommaso d’Aquino, aveva riassunto un principio fondamentale della vita spirituale in una piccola formula latina, ben comprensibile anche a chi oggi la lingua latina non la conosce proprio: Gratia non tollit naturam, sed perficit. Tradotta in parole semplici: la grazia di Dio non stravolge la natura umana, ma la aiuta a perfezionarsi e a crescere.

La riconciliazione è davvero un evento da recuperare o in cui perseverare se si ha a cuore la propria vita interiore. Essa rappresenta la mediazione concreta e semplice, in ciascuno, dell’azione di Dio e dell’armonia e pacificazione del cuore. In quest’ottica essa non è più un compito da assolvere per pacificare la propria coscienza ed eludere ulteriori sensi di colpa, ma è «un dialogo intimo di cuori che credono nell’amore e nell’abbraccio benedicente del proprio Dio».

Uno degli aspetti poco compresi, nel sacramento della riconciliazione, è la sensazione, anzi la convinzione diffusa che in esso si fa emergere, prevalentemente o esclusivamente, quanto c’è di negativo nella vita di ogni persona.

Il cardinale Martini, in un testo molto famoso dal titolo L’evangelizzatore in san Luca[5], evidenzia tre passaggi essenziali da vivere nel sacramento della riconciliazione:

  • confessio laudis, come espressione di lode e di gratitudine per il bene della propria vita;
  • confessio vitae, come rielaborazione e racconto di quanto crea tensione e lacerazione nell’esistenza;
  • confessio fidei, come affermazione e adesione del cuore alla forza risanante del fidarsi e dell’affidarsi a Dio.

La confessio laudis è fatalmente la più trascurata, perché si rimane aggrovigliati e confusi nella matassa delle proprie visioni pessimistiche e autolesionistiche.

Ci può essere di aiuto il ripercorre l’esperienza di Pietro così come viene raccontata nel vangelo di Luca (5,4-11). Pietro, per prima cosa, sperimenta che il Signore è grande, che ripone in lui una fiducia immensa e che lo ricolma di doni inaspettati.

Al vedere questo, Simon Pietro si gettò alle ginocchia di Gesù, dicendo: «Signore, allontànati da me, perché sono un peccatore». Lo stupore infatti aveva invaso lui e tutti quelli che erano con lui, per la pesca che avevano fatto; così pure Giacomo e Giovanni, figli di Zebedeo, che erano soci di Simone. Gesù disse a Simone: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini”. E, tirate le barche a terra, lasciarono tutto e lo seguirono» (Lc 5,8-11).

Questi sono i miracoli che avvengono nel cuore quando riusciamo a dirci: «So in chi ho riposto la mia fiducia: il Signore Gesù». Alla luce di questa professione di fede nasce uno sguardo nuovo e più sereno sulla realtà della propria vita, che favorisce la riscoperta e la valorizzazione delle positività dentro le fatiche del ministero, ma anche di fronte ai tanti problemi in cui la gente chiede di essere supportata e rincuorata. Nel valutare qualsiasi esistenza non è di alcun aiuto seguire la via della negatività e della colpevolizzazione. Non tocca a noi fare questo, ricordando quanto scrive Giovanni, nella sua prima lettera: «In questo conosceremo che siamo dalla verità e davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa» (1Gv 3,19-20).

Guardare con verità, ma anche con fiducia alla propria esistenza, pur nelle fatiche, nelle resistenze e nelle debolezze, può risultare più facile quando ci collochiamo con serenità all’interno dell’immensa schiera dei “poveri di Dio”, in perenne ricerca di Lui e della sua misericordia. La Bibbia li definisce anawìm: sono coloro che riconoscono la precarietà della propria esistenza e delle proprie scelte, ma ciò nonostante hanno il coraggio di… ricominciare sempre!

Sono da portare nel cuore le parole di un grande maestro di spiritualità del nostro tempo, il monaco e teologo belga Daniel Ange:

Questo tempo di grande miseria sarà anche un tempo di grande misericordia. Vedendo tante persone e soprattutto i giovani così turbati, se non addirittura traumatizzati, si potrebbe credere che la stoffa umana sia oramai ridotta a brandelli.  Forse questo non sarà un tempo di eroi, ma certamente sarà un tempo di santi; amici di Dio da ricevere come segni di misericordia e di consolazione[6].


[1] Papa Francesco, Udienza generale, 20 novembre 2013.

[2] Papa Francesco, Udienza generale, 26 marzo 2014.

[3] Cf. Papa Francesco, La mia porta è sempre aperta. Una conversazione con Antonio Spadaro, Rizzoli, Milano 2013.

[4] H.J.M. Nouwen, Viaggio spirituale per l’uomo contemporaneo. I tre movimenti della vita spirituale, (Titolo originale: Reaching Out. The Three Movements of the Spiritual Life), Queriniana, Brescia 1980, 16 ed. 2018.

[5] C.M. Martini, L’Evangelizzatore in san Luca, Ancora, Milano 2000.

[6] D. Ange, La piccola via per ritrovare il sorriso. Meditiamo con Teresa di Lisieux, Paoline, Milano 4 ed. 1994.

 

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