Presbiteri: aggiornamento in corso

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ministero

La sesta monografia 2023 della rivista Presbyteri è dedicata alla tematica dell’aggiornamento. «Ci interroghiamo − scrive la redazione − se anche tra i preti, i vescovi e i diaconi l’esigenza di rimanere aggiornati è sentita, richiesta e favorita, quali sono gli strumenti attraverso cui ci si aggiorna e quali gli atteggiamenti necessari perché sia un percorso fruttuoso. Siamo convinti che l’ascolto della vita delle persone e degli eventi detti l’agenda non solo delle cose da fare, ma anche dei temi che hanno bisogno di approfondimento e conoscenza, per un servizio ministeriale sempre più attento e capace di comunicare la fede». Riprendiamo qui l’editoriale.

Aggiornamento in corso … non spegnere il computer. L’esempio con cui è stata presentata questa monografia è puntuale e significativo. Sono le parole che compaiono con una certa frequenza sugli schermi dei nostri PC, ogni qualvolta c’è bisogno di installare funzioni nuove o aggiornamenti al sistema operativo del computer.

Sarebbe utile, forse necessario, che di tanto in tanto comparisse anche per noi una indicazione di questo genere, che ci chiede di fare un «pit stop» per un aggiornamento teologico, spirituale, pastorale o, più semplicemente, per una ricarica di umanità.

Per i preti non sono previsti dei CFP, cioè dei «crediti formativi professionali» obbligatori per la formazione continua da rispettare, come in uso per la maggior parte delle categorie professionali. Il rischio è che ci si consideri esentati «a vita» da una formazione continua e da un costante aggiornamento, che tocca i tanti aspetti del ministero pastorale di un presbitero. Non significa diventare dei «tuttologi» che parlano di tutto e che presumono di sapere un po’ di tutto; ma non significa neppure pensare di vivere perennemente di rendita, alla luce della formazione avuta negli anni di seminario. Né è un impegno che riguarda solo i primi anni del ministero.

Piuttosto è un dovere di responsabilità e di coscienza per ogni prete saper cogliere quelle opportunità che vengono offerte nei percorsi della formazione permanente.

Una responsabilità personale e comunitaria

Nel discorso che Papa Francesco rivolse ai partecipanti al Convegno internazionale promosso dalla Congregazione per il clero, il 7 ottobre 2017, egli diceva:

«Il primo e principale responsabile della propria formazione permanente è il presbitero stesso» (Ratio n. 82). Proprio così! Noi permettiamo a Dio di plasmarci e assumiamo «gli stessi sentimenti di Cristo Gesù»(Fil 2,5), solo quando non ci chiudiamo nella pretesa di essere un’opera già compiuta, e ci lasciamo condurre dal Signore diventando ogni giorno sempre più suoi discepoli[1].

La parola «aggiornamento» è indicativa ma non esaustiva. Essa ha a che fare con un dinamismo temporale che richiama il «giorno dopo giorno», la quotidianità, la fatica della perseveranza. «Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita» – dice Gesù, seppure in un contesto diverso (Lc 21,19).

La perseveranza è un atteggiamento oggi un po’ desueto. Si tratta di un impegno vissuto con costanza e fermezza, con una pazienza attiva, libera e responsabile, che permette di «rimanere sotto», di «stare nonostante», attendendo con fiducia e speranza la venuta del Signore nelle nostre esistenze, ma cercando già nel «qui e adesso» i segni della sua presenza. La perseveranza è quella «modalità di stare-dentro alle situazioni di vita che implicano sofferenza, prova, ma anche accettazione e tenacia, senza negarle, senza rimuoverle, senza aver paura di chiamare in causa anche Dio, gridando a gran voce il desiderio di uscirne, la volontà positiva di portare avanti un progetto di vita che non si adagi nella rassegnazione» (Lino Dan).

È la vita stessa che richiede di abitare la realtà in cui si vive e si opera, di avere occhi attenti e vigilanti per leggerla e interpretarla. Di avere un cuore che si mette in sintonia con l’esistenza concreta e reale delle persone, ascoltandola e imparando da essa.

Questo ci proietta in una dimensione umana e spirituale che non può prescindere dall’essere costantemente «in ricerca».

Chiamati ad abitare il tempo presente

«Cari fratelli, se non formeremo ministri capaci di riscaldare il cuore alla gente, di camminare nella notte con loro, di dialogare con le loro illusioni e delusioni, di ricomporre le loro disintegrazioni, che cosa potremo sperare per il cammino presente e futuro?». Sono le parole di Papa Francesco ai Vescovi del Brasile nel 2013[2].

Che tempo stiamo vivendo, noi ora? Quali sono i criteri per comprendere le coordinate di questo tratto di storia in cui siamo chiamati a vivere e ad abitare?

Abitare non indica semplicemente qualcosa che si realizza in uno spazio; non si abitano solo i luoghi, si abitano soprattutto le relazioni. Oggi è più che mai difficile e inefficace presumere di vivere una staticità dentro ad un contesto fisso e ben definito. È necessario, invece, lasciare emergere la carica di coinvolgimento e di passione propria dell’abitare e del condividere ciò che la gente vive, anche se non sempre ne ha consapevolezza.

Gesù chiamò gli apostoli «perché stessero con lui» (Mc 3,14) e solo in seguito «per mandarli a predicare». Abitare indica familiarità, comunanza di spazi e di abitudini: ognuno è chiamato ad imparare dal Signore Gesù, passando del tempo con Lui, per assimilarne il modo di pensare, di parlare, di agire, di guardare gli altri.

Questo «training» permette poi di sentirsi più a proprio agio nell’abitare la quotidianità e i luoghi di vita dove si richiede una presenza solidale. Il rischio sempre in agguato nell’impegno pastorale è di lasciarsi risucchiare e spremere in un vortice di attivismo, che asciuga le energie e sottrae tempo e motivazioni per vivere le relazioni. Abitare ha una connotazione profondamente umana: evoca la casa, suggerisce quotidianità, dice accoglienza e intimità.

Come non pensare alla casa di Betania, la casa dell’amicizia in cui Gesù si recava per sentirsi in famiglia perché lì era accolto con un calore fraterno?

Lo Spirito Santo e la chiesa ci chiedono una reale attenzione a chi condivide anche un piccolo tratto di strada con noi.

Un’icona biblica richiama in maniera visiva ed immediata il senso del farci compagni di strada per un «dialogo di crescita». È un testo ambientato on the road, lungo la via: racconta l’incontro tra il diacono Filippo e l’eunuco Etiope, funzionario della regina Candace (At 8,26-40).

«Disse allora lo Spirito a Filippo: Va’ avanti, e raggiungi (accostati a) quel carro». Il carro arriva e passa. Filippo rimane sul fianco della strada. Lo Spirito gli suggerisce «Va’ e raggiungi quel carro». Non si tratta solo di affiancarsi fisicamente a quel convoglio in movimento, quanto piuttosto di affiancarsi a un uomo che sta percorrendo la strada della propria vita, che sta camminando dentro ai propri problemi, che cerca di elaborare la sua storia, il suo passato, il suo avvenire.

Abitare le relazioni significa viverle fino in fondo, con autenticità, con profondo rispetto e con libertà, perché l’altro possa sentirsi pienamente a proprio agio.

A volte immagino che il mio intimo sia come un posto irto di aghi e di spilli. Come accogliere qualcuno se non vi può riposare pienamente? Un cuore agitato di preoccupazioni, rabbia e gelosie, causa delle ferite a chi vi entra. Devo creare in me una zona libera per poter invitare gli altri ad entrare e guarire (Henri J.M. Nouwen)[3].

Un tempo per localizzarsi

Curare dei tempi di formazione continua e di aggiornamento, significa vivere con «consapevolezza». È sempre Papa Francesco a dire:

Per essere protagonista della propria formazione, il prete dovrà dire dei “sì” e dei “no”: più che il rumore delle ambizioni umane, preferirà il silenzio e la preghiera; più che la fiducia nelle proprie opere, saprà abbandonarsi nelle mani del vasaio e alla sua provvidente creatività; più che da schemi precostituiti, si lascerà guidare da una salutare inquietudine del cuore[4].

Il libro della Genesi ci propone un episodio interessante (cf. Gn 3,8-10).

Sul far della sera, il Signore scendeva nel giardino dell’Eden per incontrare Adamo ed Eva e dialogare con loro. Una sera, dopo che Adamo ed Eva avevano vissuto la loro disobbedienza, il Signore non trovò Adamo presente all’appuntamento consueto. Allora lo chiamò dicendo: «Adamo, dove sei?»

Anche per noi oggi risuona la stessa domanda: «E tu, dove sei?».

È importante dirci dove siamo, dove ci localizziamo, perché anche noi siamo continuamente tentati di vivere nella menzogna dell’auto-nascondimento, fatto di maschere e vari personaggi, che non ci permettono di raggiungere la verità e la profondità di noi stessi.

Sociologi e psicologi definiscono questa realtà come «la sindrome dell’uomo dislocato». In questa «dislocazione» rientrano tutte quelle persone che non sono a proprio agio né con sé stesse né con gli altri; che vivono perennemente insoddisfatte ed inquiete, in balia delle proprie paure e incertezze, cercando risposte che si rivelano spesso effimere e banali. Luigi Pirandello li definirebbe come … «personaggi in cerca d’autore».

La consapevolezza ci aiuta a ridefinire i passaggi chiave della nostra vita; ci permette di leggere in profondità il mondo delle nostre relazioni, attraverso i sentimenti e le emozioni. Ci aiuta a cogliere ciò che in noi può essere maschera, apparenza e ciò che è zona d’ombra, di limite spesso negato o represso, per imparare a riannodare i fili spezzati della propria storia personale.

La consapevolezza ci aiuta a trovare strumenti per imparare a rileggere i passaggi, le «interruzioni» della propria e altrui vita, come momenti privilegiati per fare verità su sé stessi e per aprirsi al dono della Grazia di Dio.

È questione di sguardi

Il tempo che dedichiamo alla formazione personale e comunitaria ci permette di acquisire uno sguardo capace di «guardare oltre» lo stretto perimetro delle necessità urgenti e contingenti.

C’è un personaggio biblico che ha questa straordinaria capacità di guardare oltre: è Giuseppe, il protagonista dell’ultimo grande ciclo della Genesi (37-50).

Questo adolescente-pastore, che ama i sogni e li sa raccontare e interpretare, è odiato dai suoi fratelli perché è il prediletto del padre Giacobbe e perché nella sua ingenuità giovanile racconta dei sogni che danno fastidio ai suoi fratelli. Giuseppe è un sognatore, anzi, la Bibbia lo definisce «il padrone dei sogni».

Questo singolare tipo di invidia, l’invidia per i sogni degli altri, è particolarmente dannosa e si attiva quando qualcuno ha la capacità di sognare cose grandi e poterle realizzarle. Ciò dà molto fastidio, perché mette in luce la propria resistenza e inerzia!

«Dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore» (Lc 12,34).

Il desiderio è profondamente radicato nell’essere umano, ma lo spinge con forza al di là di sé stesso. Diviene appello all’altro, invocazione dell’altro, preghiera e vocazione.

Gesù è il vero maestro del desiderio, colui che insegna ad «amare quelle assenze che ci fanno vivere»[5]; noi viviamo di assenze, di desideri, di vocazione, di ciò che ancora manca, non di cose già fatte.

L’aggiornamento paziente e costante, il cammino di piena adesione alla formazione continua diviene motivazione e appello per ritrovare slancio e creatività nella diakonia del ministero presbiterale, apprendendo e gustando l’arte del guardare «oltre», del guardare «più in là».

Tutto ciò è bene interpretato dalle parole del drammaturgo irlandese George Bernard Shaw[6]:

Alcuni uomini vedono le cose così come sono, e dicono:
“Perché?”
Io sogno le cose come non sono mai state, e dico:
“Perché no?”


[1] Francesco, Discorso ai partecipanti al Convegno internazionale sulla “Ratio fundamentalis”, promosso dalla Congregazione per il clero, 7 ottobre 2017.

[2] Francesco, Discorso ai Vescovi del Brasile, Rio de Janeiro, 27 luglio 2013.

[3] H.J.M Nouwen, Il guaritore ferito: il ministero nella società contemporanea, Queriniana, Brescia 2003.

[4] Francesco, Discorso ai partecipanti al Convegno internazionale sulla “Ratio fundamentalis”.

[5] Rainer Maria Rilke, (1875-1926) è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo austriaco di origine boema. È considerato uno dei più importanti poeti di lingua tedesca del XX secolo.

[6] George Bernard Shaw (1856- 1950). Drammaturgo, narratore e saggista, scrisse opere indimenticabili come Androclo e il leone (1913), Pigmalione (1914), Casa Cuorinfranto (1920). Nel 1925 fu insignito del Premio Nobel per la Letteratura.

 

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5 Commenti

  1. Romano Piras 4 gennaio 2024
  2. Mauro Mazzoldi 30 dicembre 2023
    • Anima errante 30 dicembre 2023
      • Mario 18 gennaio 2024
  3. Giuseppe 30 dicembre 2023

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