La passione per il Cristo migrante

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Due aspetti del carisma scalabriniano si presentano quotidianamente nella mia esperienza in Maghreb, in terra d’ Islam: vivere a contatto con la differenza religiosa e culturale dell’altro, per cui l’autoeducarsi al rispetto dell’alterità. Poi, l’incontro con il Cristo migrante, cioè il contatto continuo, ininterrotto, con giovani migranti subsahariani e le loro ferite fisiche, interiori e psicologiche. Ferite fresche, sanguinanti, in senso fisico e metafisico.

Li chiamiamo «aventuriers» per quella tremenda avventura, che li porta ripetutamente a tentare di passare vivi o morti in Europa, inchallah! Alla barriera di Ceuta, in «patère» a Tangeri o nel Sud del Marocco a Dakhla e Laayoune. Dimostrano un coraggio che trasporta le montagne. Sanno di essere la speranza delle loro famiglie. Sopportano violenze, vessazioni più diverse, percosse, fatiche, umiliazioni a non finire, penurie (di cibo, vestiario, alloggio), mostrando una resilienza che stupisce.

Sanno che solo Dio li accompagna e che solo da Lui dipende il buon esito dell’avventura. Sono autentici Abramo dei nostri giorni. La loro religione li rende fatalisti e per questo, paradossalmente, oltremodo coraggiosi. «Se Dio ha scritto che passo, io passo… Se Dio ha scritto che non passo, non passo!», vi ripetono con fede.

Umile, coraggiosa, fraterna e … minoritaria

La comunità cristiana nel Marocco si è rinnovata nel tempo, dopo la partenza degli europei e ha preso una nuova energia con l’arrivo di tantissimi giovani universitari subsahariani. Hanno una borsa di studio offerta dal Marocco, presso le Università di Casablanca, Rabat, El Jadida, Marrakech… Sono in tutto circa 15 mila giovani, spesso cristiani: in questo modo si formano i leaders di domani per l’Africa subsahariana. Coltivando sapientemente, così, le relazioni internazionali del futuro: è la chiaroveggenza del Marocco nel costruire ponti, un’autentica best practice.

La Chiesa in Marocco è una Chiesa umile, coraggiosa, fraterna. E minoritaria, cioè insignificante per numeri, ma significativa. Papa Francesco nella sua visita del 2019, ricordava che «non è un problema essere pochi, ma piuttosto essere sale che non ha sapore, luce che non fa luce!».

Ed è una Chiesa fatta nella sua totalità di stranieri, ma non straniera a questo popolo. A servizio del Regno di Dio, della giustizia, della pace, del dialogo. E non di se stessa, non ripiegata su di sé. Realmente cattolica, perché di un centinaio di nazionalità differenti. Appassionata e appassionante, nel costruire ponti e passerelle con una società tanto differente, in terra d’Islam. «Buona samaritana» con le migliaia di giovani migranti che, in viaggi estenuanti, tremendi e disumani, provengono dai Paesi subsahariani con in testa un sogno: l’Europa.

La sfida più grande, affascinante ed evangelica di questa Chiesa è «essere sacramento dell’incontro» come scrive la CERNA (Conferenza episcopale Nord Africa) in un suo recente documento «Serviteurs de l’espérance».

In una sua visita, qualche mese fa, mons. Mogavero, vescovo emerito di Mazara del Vallo commentava che la Chiesa è rimasta troppo ancorata alla territorialità. Non ha costruito muri, ma neppure ponti. Al contrario, l’insistenza della Chiesa del Maghreb di lavorare per il Regno, senza ripiegarsi su se stessa è particolarmente benefica per tutti. Richiama la forza escatologica e la grandezza iniziale, fondante, della Chiesa di Tertulliano, di Cipriano e di Agostino.

Infatti, nella sua visione della realtà musulmana non considera l’altro come rivale, concorrente, o tantomeno nemico. Ma come fratello o sorella, con cui costruire insieme il Regno di Dio. Una lettura originale del rapporto con il mondo musulmano. Anzi una prassi direi rivoluzionaria ed esemplare: se qui è possibile, perché non altrove?

Pastorale di strada

«Il Regno di Dio è il nostro scopo, la nostra missione, il nostro orizzonte e la nostra speranza, – scrive il Cardinale – è il frutto del nostro lavoro, ma più ancora il dono di Dio». Mons. Delpini, arcivescovo di Milano, in pellegrinaggio alla Chiesa del Marocco, agli inizi dell’anno scorso, con cento giovani preti ambrosiani affermava: «Le alleanze costruttive sono la buona pratica che coinvolge le persone e rende abituale condividere pensieri, risorse, attività nella logica della sussidiarietà e della solidarietà».

A Rabat esiste per i migranti una struttura parrocchiale alla Cattedrale, di tipo Caritas chiamata «Cigognes»: accoglie il mercoledì mattina i migranti subsahariani, il sabato le donne migranti. Ma il fenomeno migratorio è una realtà fluida. Necessita flessibilità, disponibilità, efficacia di intervento, attenzione alle urgenze. Ed è quello che svolgo, insieme a Modeste, un giovane missionario congolese. La nostra attività la chiamiamo «pastorale de rue» svolta praticamente ogni sera per le strade, nei dintorni della stazione ferroviaria, per incontrare i migranti.

Durante il giorno, invece, si visitano i quartieri popolosi e poverissimi di Takadoum, Youssufia e Kamra. Si affrontano per quanto possibile i più differenti problemi sanitari, alimentari, abitativi o altro. Ammassati in piccole stanze in affitto, i giovani subsahariani in 5, 6 o più, presentano problemi di ogni tipo. Dormono vestiti a causa del freddo. Mangiano una sola volta al giorno, riso bollito come sempre. Affetti da infezioni o malattie non si curano per mancanza di soldi.

Generalmente mendicano, per cui spesso cadono in retate della polizia, e portati o dispersi a centinaia di km nel Sud del Paese. È questa umanità che incontro ogni giorno e sono portato a mostrare loro il cuore di Scalabrini. La sua passione e compassione per il Cristo migrante.

Lo scopo non è risolvere un fenomeno mondiale e complesso come questo. Ma essere, semplicemente, «una presenza che umanizza un’emigrazione giovane, selvaggia e disperata», come affermava il Vicario generale della diocesi. Un tocco di umanità. Come quello della Veronica o del Cireneo, lungo la via crucis dei nostri giorni.

Per una Chiesa samaritana

Da qualche tempo il cardinale mi ha affidato il compito di elemosiniere personale. Sempre più spesso, infatti, mi trovo investito nell’incontro di casi gravi, che ricorrono a lui con fiducia, essendo il suo cellulare conosciuto ovunque (con sommo stupore dei preti africani, prassi impensabile da loro).

«Il cammino di conversione sinodale ci ha mostrato che la Chiesa deve essere prima di tutto samaritana – scrive il cardinale negli Orientamenti pastorali 2023 – che sappia esprimere la sua compassione per tutti (senza eccezione), attraverso l’azione di tutti e in tutto. Per questo siamo chiamati a sviluppare le capacità di accoglienza e di ascolto delle nostre comunità».

In fondo, in una Chiesa in terra d’Islam, essa stessa migrante dall’ultimo arrivato fino al suo arcivescovo, il carisma scalabriniano ha belle pagine da scrivere, ponti interessanti da costruire, semi di speranza da spargere nella gratuità feconda del Regno di Dio.

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