
Il primo viaggio apostolico di Leone XIV, che lo porterà a Nicea ed a Beirut, forse può essere riassunto in due parole; «unità» e «pace». Nicea è la Sede del primo Concilio ecumenico, nel 325 dopo Cristo. Lì fu definito il Credo della fede cristiana. Dunque Nicea, oggi una piccola località turca, parla di «unità». È l’obiettivo di chi ha capito, grazie all’impegno per avvicinarla, che unità non vuol dire uniformità, meno ancora annessione, ma incontro nella valorizzazione dei diversi carismi, delle peculiarità. È un’unità opposta a quella proposta dai sistemi totalitari.
Se Nicea ci ricorda quanto accadde 1700 anni fa, Beirut ci parla di guerra da 50 anni, dal 1975, quando scoppiò la guerra civile libanese, una guerra durata tre lustri anche perché conteneva tante guerre: guerra d’indipendenza, guerra identitaria, guerra etnica, guerra comunitaria. Come anche una guerra tra Stati, e una guerra civile all’interno delle comunità. Moltissime altre guerre sono seguite.
Non è dunque fuori luogo che il papa visiti come prima metropoli questa città da mezzo secolo straziata da guerre. È dunque evidente che Leone da questa città invierà un messaggio di pace, un messaggio che con ogni probabilità sarà rivolto a tutta la regione: «Pace a tutti voi», ha detto presentandosi al mondo lo scorso 8 maggio.
***
Beirut, dunque, non è solo la capitale del Libano. La città che papa Leone XIV visiterà tra pochi giorni è anche il doloroso riparo di milioni di profughi palestinesi, siriani, iracheni, oltre che lo scalo del Levante che più a lungo di altri ha guardato al Mediterraneo come al suo orizzonte, all’interscambio non solo commerciale, ma anche economico, tecnologico e culturale. Questo orizzonte le ha fatto acquisire la terza fisionomia che la definisce, oltre che araba e mediterranea uno dei suoi figli più illustri l’ha definita anche occidentalizzata, ed è così.
Beirut è una città sorprendente: sembra diventare molto araba nel quartiere armeno, vicoli stretti e inestricabili, molto cristiana nel quartiere più famoso tra quelli musulmani, con l’enorme American University of Beirut, in origine Protestant University of Beirut. Mille quartieri, mille storie. Decisiva quella del centro: a inizio Ottocento una modesta fortificazione sul mare, alla fine del secolo rifatta con uno stile ibrido, un po’ Oriente, un po’ Occidente, con i tradizionali mercati arabi, i suq, e il Grand Théâtre.
Città cosmopolita, soprattutto per i suoi caffè letterari, per le sue infinite riviste. Beirut, soprattutto nel suo ricostruito centro storico, unisce le diciotto comunità di fede che popolano il Libano e che solo qui hanno un luogo comune, mentre altrove hanno strade o villaggi o quartieri identitari.
Beirut è una città con una vocazione mediterranea, una storia e tante culture. La dimensione di città solo nazionale le sta un po’ stretta. Così colpisce quanto sostiene, da un piccolo centro a mille metri d’altezza, ma pochi minuti di macchina dal porto, il professor Antoine Courban, ortodosso e docente all’Università Saint Joseph dei gesuiti. La visita di papa Leone propone a suo giudizio di vivere Beirut come la «nuova Antiochia». La città storica di Antiochia, sulla carta, esiste ancora. La storia l’ha marginalizzata e recentemente il terremoto l’ha distrutta. Ma ora, con l’arrivo del papa, Beirut, già sede di diversi patriarchi d’Antiochia, ospiterà insieme al vescovo di Roma anche cinque di loro, dando alla città e alla visita un tono e un senso diverso, assai più ampio di quanto possa apparire.
***
Da questa Beirut, riportata alla sua dimensione di epicentro regionale, il papa − a giudizio del professor Courban −, non parlerà solo al Libano o del Libano, il suo discorso orientato a costruire la pace sarà appunto quella della «Pace a tutti voi». Viene così da pensare che Beirut, insignita nel giorno del suo arrivo del ruolo di moderna Antiochia, rappresenterà con i drammi locali – incombenti – anche i drammi e le speranze, i dolori e gli auspici dei palestinesi, che sono qui da mezzo secolo, nei campi profughi, dei siriani, che sono qui assai numerosi dal 2011, degli iracheni, rifugiatisi numerosi in questa città dal 2003. Nel secolo scorso Beirut era rifugio dei liberi pensatori arabi, che non volevano perdere la loro libertà, ora di chi ha perso tutto.
Il discorso del papa a Beirut sarà al Libano come a loro e a tutta la regione e in modo particolare a quella terra desolata che io chiamerei Grande Levante e che va dal Mediterraneo alla Mesopotamia. Antiochia ha bisogno di tornare a parlare al mondo arabo di cui ha competenza e può farlo con i volti, le storie, che Beirut conosce. Davanti ai disastri susseguitisi negli ultimi anni molti hanno capito l’urgenza di riforme istituzionali. Ne sarebbe il migliore volano un cristianesimo aperto, che cerca di unire nel rispetto delle diversità, con Chiese tutte in uscita, tutte ospedali da campo per un mondo che oltre a imparare a soffrire deve però imparare anche a cambiare.
Dal palco in allestimento sul lungomare il papa pregherà in silenzio guardando quel che resta del porto distrutto dalla terribile esplosione del 4 agosto 2020, che ha cancellato l’infrastruttura globale di Beirut, la perla della sua storia di apertura, scambi e incontri. Un gesto che già esprime come quel momento di preghiera sarà certamente rivolto verso le vittime di quella terribile esplosione sulla quale il Paese non ha mai saputo indagare, anzi ha saputo mettere in difficoltà il magistrato inquirente e l’associazione dei parenti delle vittime. Ma sarà rivolta anche verso i quartieri, in gran parte cristiani, che furono resi inagibili dalla stessa terribile esplosione e che solo ora si vanno riprendendo da inabilità di vario tipo. E sarà rivolto anche verso il mare, verso quella naturale vocazione mercantile e mediterranea che costituisce il passato e il futuro e che senza apertura non può esserci.
***
Pochi qui a Beirut dubitano che Leone parlerà soprattutto di pace. Una parola impegnativa che in Medio Oriente non può circoscriversi ad armistizi o accordi sulla sicurezza, ma deve aprire i polmoni di genti che hanno bisogno di respirare. La sola voce cristiana che raggiungendo il mondo può dare speranze a tutti è la sua. Dunque la visita avrà una dimensione molto più ampia di quel che appare; Beirut saprà rispondere a questa offerta, a questa sfida?
Non si tratta di riscrivere la storia, di individuare nuove giurisdizioni, ma di valorizzare la pluralità preservando l’unità, ridare visione davanti a sfide enormi e comuni al cristianesimo, che è il tratto proprio di tutta quest’area, l’area di Antiochia. Il peccato sarebbe sottrarsi pensando ciascuno alla propria vallata, alla propria denominazione, al proprio clan, alla dimensione tribale che allontana, che divide. La mentalità che ha ridotto lo Stato al lumicino che è. Il confessionalismo libanese, che doveva garantire tutti, è fallito proprio perché ha eliminato il «tutti» e ridotto lo Stato a una sommatoria di interessi impropri, di clientelismi.
In questo modo il modello è diventato, per paradosso, Hezbollah. Al di là del gravissimo problema delle armi di Hezbollah, ogni partito, ormai tutti confessionali, guarda al leader come a un idolo, alla comunità come fosse uno spazio da occupare con un welfare proprio, un sistema finanziario proprio, lotti di Stato propri.
Purtroppo la tentazione settaria, la chiusura, si sente anche in questi giorni in cui si parla apertamente dell’urgenza di riformare la struttura della Stato, in evidentissima crisi: ma alcuni cristiani parlano di federalismo che in Libano purtroppo è parente prossimi di cantonalizzazione. Lo Stato va rifondato perché il confessionalismo è stato clanizzato, ma occorrerebbe tutt’altro che cantoni, ma partiti multiconfessionali per rendere l’equilibrio confessionale non tribale, il personale espressione dei territori e non dei capi-clan, come la consapevolezza che il consolidamento delle pari cittadinanza non arriverà in un contesto dove gli altri sono privi di cittadinanza.
Dunque la fratellanza che allarga le braccia ai «fratelli arabi, soprattutto i più vicini», nonostante la violenza feroce del passato, è una visione che potremmo definire «sul modello europeo», tra Stati che si sono combattuti e che ora si stimano, anche per impedire che l’astio con il vicino diventi conflitto interno. Questo consentirebbe anche un negoziato diverso con Israele, il problema più impellente, drammatico per un Libano che non riesce da una parte a recuperare tutte le sue terre e dall’altra a esercitare il pieno controllo delle armi sul suo territorio.
***
Il maronita Fares Souhaid, presidente dell’Associazione Signora della Montagna, ha le idee chiarissime al riguardo, ritiene che i cristiani debbano uscire dalle ridotte del vittimismo, dalla tentazione di rinchiudersi in sé stessi, di sognare piccole enclave cristiane, e proporsi come fattore decisivo di rinnovamento sociale e culturale. Per questo ha riunito un centinaio di leader e intellettuali cristiani di ogni denominazione e Paese arabo con i quali ha definito un documento che consegnerà al papa durante le solenni cerimonie.
È un testo breve ma molto significativo:
«1. La domanda che ci poniamo oggi, qui e in tutto il mondo, è la seguente: come possiamo convivere – tutte le comunità insieme – in modo equo e diverso, all’interno di una società pluralistica?
- Equo nella nostra dignità umana, nei nostri diritti e doveri. Diverso – vale a dire, variegato – nelle nostre affiliazioni religiose, etniche e culturali, pur rimanendo uniti nella ricerca di un futuro migliore per tutti.
- Nel mondo odierno, dove non esistono più società pure e omogenee, vivere insieme è lo stile di vita che ci permette di testimoniare la nostra fede cristiana all’interno di società eterogenee e aperte. Ci permette anche di realizzare i nostri interessi nelle nostre terre ancestrali.
- Lavorare per costruire Stati moderni basati sui principi della cittadinanza, della conservazione delle identità distintive e del diritto alla differenza.
- I nostri paesi sono patrie permanenti. La nostra lotta è diretta verso uno Stato “civile”, in grado di garantire i diritti individuali e collettivi a tutti i gruppi interessati, consentendo loro di vivere liberamente e in totale sicurezza, in conformità con le nostre particolarità culturali e religiose.
- Garantire la libertà e la giustizia in un mondo arabo in trasformazione.
- Ci troviamo a un punto di svolta importante nella storia della regione: una nuova speranza è emersa in Libano, Siria e Iraq. Insieme alla maggioranza dei musulmani, sosteniamo la libertà e la giustizia.
- La nostra lunga storia in questa parte del mondo ci insegna che nessuna società può sopravvivere senza rispetto per la libertà, l’uguaglianza tra uomini e donne, la libertà di credo, la libertà di espressione, la libertà di opposizione e la libertà di azione politica. Crediamo che solo l’istituzione di uno Stato governato dallo Stato di diritto possa salvaguardare sia il nostro ruolo che la nostra presenza.
Noi, cristiani arabi, firmatari di questo documento, abbiamo deciso di rimanere sulla terra della fede e della tradizione dove Gesù Cristo è nato, ha vissuto, è morto ed è risorto. Abbiamo deciso di difendere, insieme ai nostri fratelli musulmani, l’idea di vivere in pace.
Come tutti i popoli del mondo, rifiutiamo di vivere nella vergogna, nella miseria e nell’emarginazione.
Rifiutiamo la violenza in tutte le sue forme. Rifiutiamo la mancanza di rispetto dei diritti fondamentali dei popoli.
Condividiamo con l’Islam e le altre religioni un passato, un presente e un futuro comuni.
Chiediamo l’attenzione di Vostra Santità affinché sostenga noi, cristiani e musulmani, perché insieme saremo salvati, insieme periremo».





