
Mentre il Conclave si apre, riprendo in mano un piccolo libro, che ha appena compiuto 30 anni, in quanto venne pubblicato nel marzo 1995. L’autore è del tutto estraneo alla fantapolitica, ma avvezzo alla riflessione sapiente e fuori dal coro. Si tratta di Sergio Quinzio, lo scrittore autodidatta, di cui stiamo per ricordare i 30 anni dalla morte (era il 1996). I suoi numerosi libri tra cui un Commento alla Bibbia, vengono ristampati e regolarmente diffusi. Una longevità editoriale che fa riflettere.
Il suo ultimo libro, 30 anni fa, nel 1995, si intitola Mysterium Iniquitatis. Sottotitolo: le encicliche dell’ultimo papa (Milano, Adelphi, pp.112, euro 18).
Nasceva, nelle intenzioni, come un romanzo di fantapolitica. In realtà è un testo teologico-spirituale. Fulminante. Troviamo in queste pagine tutto Quinzio, cioè la ricerca del nucleo fondamentale e specifico dell’annuncio cristiano – la risurrezione della carne – nel rapporto con il mondo contemporaneo e il fallimento del cristianesimo stesso sotto il peso delle crudeltà della storia e delle debolezze umane.
Vale la pena di mettere a fuoco le caratteristiche di Pietro II, il papa che scrive le due encicliche. La prima si intitola Resurrectio Mortuorum e la seconda, appunto, Mysterium Iniquitatis.
Pietro II è il papa che «vive al chiuso del Laterano, la sede episcopale romana dove ha trasferito la propria residenza. Il papa sparisce dalla televisione e dai giornali (…). Nessuno ode da lui altre parole che non siano, all’omelia, il commento delle Scritture. (…) Quando il suo isolamento è completo anche all’interno delle mura ecclesiastiche, Pietro II si chiede se esiste ancora una possibilità di riconoscersi cristiani in un nucleo essenziale di cose in cui sperare e credere».
La sua prima enciclica
«definisce solennemente come verità di fede che i morti in Cristo risusciteranno nella stessa carne nella quale hanno patito nel mondo e che risusciteranno per vivere con lui una vita umana consolata dall’orrore del male e della morte. (…) Il Signore ci assista e ci dia la forza di crederlo».
L’enciclica cade tra l’indifferenza e la commiserazione e così Pietro II non vede altra alternativa che scrivere la seconda enciclica, per cercare di dare un senso a se stesso, al papato, al cristianesimo. Paradossale. Il «mistero dell’iniquità» prende le mosse dalle due lettere di Paolo ai Tessalonicesi, per segnalare il pericolo di un’umanità che vuole mettersi al posto di Dio e si dimostra implacabile nell’indifferenza verso la vita, implacabile nel difendere e attuare la banalità del male, nel trasformare la vita umana in oggetto di consumo.
Alla fine, Pietro II afferma:
«La presente enciclica Mysterium Iniquitatis svolge gli argomenti scritturali e le testimonianze tradizionali in base ai quali, a partire dalla più volte citata profezia paolina sulla trasformazione del tempio di Dio in sede dell’apostasia anticristica, definisco solennemente nei seguenti termini il dogma del fallimento del cristianesimo nella storia del mondo».
E ancora:
«In questa morte culmina, e si consuma, il mistero dell’iniquità che domina l’intera storia del mondo. Non esiste altra speranza, per ogni uomo e per la vicenda di tutti gli uomini e dell’intera creazione, al di fuori della croce e della risurrezione di Gesù Cristo. A lui affido tutti e ciascuno, insieme alla mia povera persona, nell’attesa dell’ultima Rivelazione, del giudizio finale e della vita senza fine».
E così Quinzio presta all’ultimo papa i suoi pensieri più profondi, il nucleo essenziale della sua ricerca interiore e teologica. Ed è difficile, oggi, per noi, cercare e cercare di trovare un equilibrio tra l’annuncio della verità ultima – la resurrezione della carne – e un impegno penultimo di fronte alle troppe ineguaglianze e ingiustizie che vediamo ogni giorno. Il rischio è di cadere nel disinteresse per il mondo dei nostri fratelli e sorelle; o di cedere all’impegno sociale su base religiosa.
Restare sul crinale è facile a dirsi. Ma una via d’uscita è indicata nella terza parte del libro, una riflessione su Il silenzio della Chiesa, una sorta di commento al testo.
«Ma quel che mi sembra del tutto inaccettabile è l’ormai consueta identificazione (…) di fede e mito, il tentativo cioè di ridurre i contenuti della fede a mito. Si sente comunemente parlare di ‘mito biblico’, e persino di ‘mito cristico’; ma questo significa non percepire la lontananza e la drammatica opposizione fra il mito, che è protologico, e la fede, che è invece escatologica, e quindi rivolta al futuro e non al passato».
Qui c’è davvero tutto.





