Qualche idea sul “dopo Francesco”

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Un artista di strada ritrae Francesco davanti alla Cattedrale di Buenos Aires (AP Photo/Natacha Pisarenko)

Papa Francesco è morto, ma non prevalgono nel mio cuore sentimenti di tristezza e di lutto, come se la fine della sua vita coincidesse con la chiusura definitiva di un ciclo della storia della Chiesa, sorprendentemente ricco di novità e di gioie inedite. E come se, di fronte al progetto di voltare pagina che viene sottilmente tessuto, non ci fosse altra scelta alternativa all’accettazione, serena e rassegnata, del ritorno alla normalità.

Il tentativo di confinare Francesco nei dodici anni del suo ministero è destinato a fallire, perché i suoi gesti, le sue abitudini, le sue parole e i suoi documenti hanno sospeso, in modo indimenticabile e irreversibile, riti e tradizioni secolari. E questo è avvenuto, sorprendentemente, nonostante innumerevoli contraddizioni, nello spazio anteriormente intoccabile e inviolato della Curia Romana, con disobbedienze e rotture di ispirazione evangelica.

La radicalità del Vangelo

La radicalità del Vangelo e l’inquieta ricerca del volto storico e sempre aggiornato di Gesù di Nazareth sono eventi che hanno sempre segnato la storia del cristianesimo e della nostra Chiesa. In questa incessante ricerca, quasi sempre, testimoni e profeti coerenti hanno pagato la loro audacia con la Croce dell’incomprensione e dell’esilio praticata dal potere dei custodi della tradizione.

Mai, però, prima di Giorgio, la sovversione di Gesù giunse al punto di evangelizzare e di scandalizzare dal centro della cristianità cattolica. E questo è il kairòs che infonde in noi gioia e speranza.

Potrebbero, con la secolare e collaudata diplomazia clericale, cercare di convincerci che non hanno dimenticato Francesco, e potrebbero persino accettare che la convinzione e il consenso popolare della sua santità siano ufficialmente decretati da Roma. Diventerà così un santo venerabile, offerto alla devozione del mondo cattolico.

Questo tradimento non rappresenterebbe novità alcuna, se ricordiamo ciò che fu fatto dopo la morte di Francesco d’Assisi: un progetto, indubbiamente riuscito, in cui un movimento profetico diventa Ordine e il controllo della rivoluzione francescana si stabilisce attraverso la venerazione del santo fondatore. Il profeta Francesco è ridotto a un intercessore, oggetto di devozioni popolari nel santuario della sua sepoltura.

Questa collaudata strategia finisce, infatti, per escludere deliberatamente la possibilità di accogliere san Francesco – e papa Francesco – come modelli di discepolato, un’imitazione che non si risolve nel copiare e ripetere, tout court, le loro azioni, ma sarebbe solamente la ricerca e l’ascolto della persona e della parola di Gesù di Nazareth, che sempre ci parla in modo rinnovato e aggiornato. Ognuno con la sua biografia, con i suoi limiti e i suoi peccati, ma incorporando nella sua vita il “come lui fece”, seguitori imperfetti, come imitatori del Figlio dell’Uomo.

Jorge Mario Bergoglio è eletto papa e sceglie il nome di Francesco, il santo povero dei poveri, rivelandoci subito la sua intenzione di lottare per una Chiesa povera per i poveri, la Chiesa sognata da Helder Câmara e da Lercaro e da una quarantina di padri conciliari nel Patto delle Catacombe, il 16 novembre 1965, pochi giorni prima della chiusura del Concilio Vaticano II. Francesco, un nome che interrompe le sequenze numeriche e la mera fedeltà ripetitiva a consuetudini obsolete.

L’imprudenza di “andare oltre”

Francesco decide, inaspettatamente, di recuperare due profezie che furono interrotte in passato, riprendendo, in compagnia di Francesco e Chiara, l’unico segreto del Vangelo, quasi sempre dimenticato e rimosso: la radicalità sovversiva di Gesù di Nazareth, povero, fratello e amico dei poveri; e, riprendendo il sogno di Giovanni XXIII, la profezia del Concilio, che contesta l’immobilismo ecclesiastico, che si oppone a ogni aggiornamento e alla violenta presunzione condannatoria del Sillabo e alla crociata antimodernista del tempo di Pio X. L’unica “ermeneutica della continuità” di Francesco è, dunque, la fedeltà a questo passato samaritano dimenticato dei santi della misericordia, dei profeti e dei martiri

È andato ben oltre la condanna ideologica del liberalismo, perché ha saputo alzare la voce contro «l’economia che uccide», la «globalizzazione dell’indifferenza», la violenza genocida del sistema che oggettifica e scarta le vite dei poveri. Per la prima volta, e ben oltre la Dottrina sociale della Chiesa, assistiamo ad una opposizione radicale al sistema capitalistico. Francesco è stato attaccato dall’estrema destra, accusato di comunismo o di peronismo da chi confida nel privilegio dei ricchi e nella violenza dei più forti.

Non ha cambiato la dottrina, ma ha voluto favorire una Chiesa che accoglie, ascolta, accompagna, dialoga, anche in situazioni che sfidano la dottrina e il moralismo ecclesiastici, come con i cattolici divorziati risposati e le persone LGBTQIA+. Ha difeso i migranti, i poveri, i popoli indigeni, i popoli dimenticati. Ha denunciato l’estrattivismo, il razzismo strutturale, la violenza ambientale che ferisce la fraternità e la sororità di tutti gli esseri viventi.

Con gesti e parole eloquenti, ha scelto di desacralizzare e smitizzare il Ministero Petrino, senza mai nascondere l’influenza del suo temperamento, dei suoi limiti e dei suoi difetti umani. Non ha permesso che il ruolo istituzionale annullasse o nascondesse l’umanità di Giorgio, che ha rinunciato profeticamente a mimetizzarsi dietro il ruolo sacrale del Santo Padre o del Sommo Pontefice. Ha cercato di essere un testimone indimenticabile della libertà e del coraggio evangelico. È stato un critico spietato dell’autoreferenzialità e del clericalismo che ancora oggi continuano a corrodere l’identità e la missione samaritana della Chiesa.

Ha vissuto la tensione conflittuale, drammatica, dall’estrema periferia dello spazio ecclesiale, con il potere millenario, ineludibile, indistruttibile, monarchico, sacerdotale e patriarcale della Chiesa cattolica.

Ci ha lasciato in eredità il lungo e sempre incompiuto processo della sinodalità, quasi a ricordarci che «il tempo è superiore allo spazio», che vittorioso è il cammino, il processo, il dialogo, il confronto fraterno, e non l’esercizio dispotico del potere clericale.

Papa Francesco ci insegna l’imprudenza di andare “oltre” e la disobbedienza al potere del Tempio, pur sapendo che è costitutivo della configurazione ecclesiastica e sarà sconfitto solo alla fine dei tempi.

Così siamo costretti ad assumere una tensione drammatica permanente, che non accetta né la pacifica convivenza con lo status quo, né promuove rotture che nascono dalla presunzione di avere ispirazioni e intenzioni evangeliche pure e incontaminate. In questo modo, possiamo capire che le biografie e le teologie di tutti noi sono fatalmente segnate dai limiti umani e dalla nostra condizione di peccatori perdonati.

Per questa nostra Chiesa, che convive con il grano e la zizzania che crescono insieme nel suo giardino, soprattutto in questo tempo di marcata polarizzazione, la misericordia e il perdono sono i rimedi. E questo è vero anche quando coloro che sembrano credere più nella Chiesa che in Gesù, perseguitano, condannano e crocifiggono coloro che vanno “oltre”, come quei fratelli e sorelle profeticamente ribelli e i disobbedienti. E se la sventura o la sconfitta possono diventare il nostro pane quotidiano, sappiamo che, nel silenzio di Abbà, nessuno potrà tenerci lontani dalla compagnia del Crocifisso abbandonato e vittorioso.

Il peccato originale dell’Occidente

Ma non tutto si risolve in accenti positivi.

Papa Francesco, la sera in cui lo abbiamo incontrato per la prima volta, ha detto che erano venuti a prenderlo «quasi alla fine del mondo», una delle periferie, che lui cercò di valorizzare e rendere visibile nel suo ministero. Veniva dal Nuovo Mondo, dall’altro mondo delle alterità inventate, negate, violentate, stuprate, conquistate e colonizzate, materialmente e spiritualmente.

Tuttavia, come nipote di migranti, non è stato in grado di affrontare il peccato originale dell’Occidente, il colonialismo, che è anche un peccato delle Chiese. Per questo motivo, la tesi che descrive Jorge Bergoglio come rappresentante della periferia dell’Europa, di un Sud del pianeta sfruttato e inferiorizzato dal sistema capitalista, appare contraddittoria e persino falsa. È un modo goffo di esonerare la Chiesa dalle responsabilità coloniali. Cioè, di un colonialismo imperiale che continua ancora oggi, fomentando tutte le guerre e i genocidi in corso, peccato originale dalla modernità occidentale, di cui il cristianesimo, cattolico e protestante, è stato promotore, garante e incauto complice.

Lasciate che lo dicano i popoli indigeni e i popoli deportati e schiavi dell’Africa, che ancora oggi vengono attaccati e decimati. Lasciamo che lo dicano gli ucraini colonizzati dall’impero panrusso e gli arabi della Palestina, vittime del colonialismo israeliano. E i tanti popoli ed etnie dell’Africa vittime di dispute, conflitti e guerre. Non si può negare che siano il risultato di una continuità coloniale in cui l’Occidente controlla direttamente o indirettamente tutte le risorse naturali, i minerali, i combustibili fossili, l’acqua, la terra, sostenendo i dittatori, cavalcando le divergenze tra i gruppi etnici, le dispute territoriali nelle regioni di confine e stimolando crisi politiche interne in territori che sono sempre stati caratterizzati dall’instabilità del governo e dai colpi di Stato.

Solo attraverso questo riconoscimento sarebbe possibile scalfire l’alleanza, intessuta di complicità millenarie, tra l’Occidente degli imperi coloniali e la Chiesa. Solo in questo modo Roma, la Prima e la Terza, potrebbe convertirsi a un’autentica universalità: il papa non sarebbe più obbligato ad essere il cappellano dell’Occidente e il patriarca di Mosca rifiuterebbe definitivamente il ruolo di garante e mentore delle guerre richiesto dal sistema coloniale slavo, ortodosso e panrusso.

Insomma, dopo Francesco, l’inventario della sua eredità spirituale non si farà a partire dal centro, a Roma, in Occidente. Cercheranno di convincerci che l’eventuale continuità o rottura dello stile pastorale di Francesco sarà un compito riservato a papa Leone XIV e alla Curia romana. Al contrario, sono convinto che il coraggio e la libertà evangelica di Francesco continueranno, come sempre, patrimonio delle periferie colonizzate, i luoghi privilegiati da cui, per decreto evangelico, emergono profezie esistenziali e cammini di salvezza e di liberazione.

Come si dice qui in Brasile, con una frase di Sandro Gallazzi che ormai è diventata un proverbio: «La salvezza non viene dal Planalto,[i] ma dalla pianura».


[i] “A salvação não vem do Planalto, mas da planície”. Planalto, in portoghese, significa altopiano, ma in questo caso, ci si riferisce al Palazzo del Planalto, in Brasilia, che è la sede del potere esecutivo federale e lo spazio in cui lavora il Presidente della Repubblica. Insomma: la salvezza non sta nelle mani del potere, ma sorge dal protagonismo popolare.

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20 Commenti

  1. Marco 21 giugno 2025
  2. Angela 21 giugno 2025
    • Angela 21 giugno 2025
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  3. Giuseppe 20 giugno 2025
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  4. Una donna 20 giugno 2025
    • 68ina felice 20 giugno 2025
      • Pietro 20 giugno 2025
    • Lucio Croce 20 giugno 2025
      • Pietro 20 giugno 2025
  5. Angela 20 giugno 2025

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