Il secondo papa Leone

di:
Papa Leone II.

Papa Leone II.

Chi, come noi, sta guardando alle vicende dei pontefici romani che assunsero il nome di Leone – vicende di grandi conflitti dottrinali e di pietre miliari quali sono i primi Concili ecumenici, come abbiamo visto nel pezzo su Leone Magno – non deve cedere mai a un criterio di lettura di tipo solo intra-mondano. Ciò tanto più quando ci si domanda, come noi, il perché di tante divisioni dottrinali ed ecclesiastiche tra Occidente e Oriente; esse ci vengono ricordate nell’Anno giubilare della speranza, molto attento, come sappiamo, al primo concilio ecumenico di Nicea (325 d.C.).

Un mondo senza speranza rischia anche di non discutere più della fede?

Al fenomeno del secolarismo avanzato – che sembra caratterizzare il nostro Occidente opulento – viene immediatamente unita una persuasione ampiamente diffusa, e certamente non senza l’intervento dei mezzi di comunicazione di massa e delle indicazioni della AI, che l’essere umano, come tutte le altre cose che esistono nello spazio e nel tempo, non sarebbe altro che materia e che, con la morte, svanirebbe totalmente: in tale contesto asfittico, a che pro discutere ancora di natura divina e trinità di persone, oppure, come avvenne nel 325 a Nicea, affermare che il Figlio eterno è della stessa “ousìa” del Padre?

Davvero la speranza può essere scossa dal pessimismo circa la stessa bontà della nostra natura umana, nella quale ha origine l’aumento di angosce e afflizioni: a ben vedere, non sono, queste ultramoderne, delle vere e proprie posizioni teoriche che generano conflitti e, talvolta, indifferenza di fronte a tanti dibattiti di tipo teorico? Ma tutto questo non ribadisce pure che la speranza – forse più ancora della bellezza –, potrebbe agitare e muovere il mondo? «Ma perché dare al sole,/ Perché reggere in vita/ Chi poi di quella consolar convenga?»: una vita senza speranza o meglio, nel caso della lirica di Giacomo Leopardi, senza speranza terrena, appare scossa comunque da qualcosa: la miccia verde, la chiamava Dylan Thomas; essa non si placa nemmeno se si affermasse, appunto, la mancanza della speranza e si ritenesse inutile ogni discussione teorica.

Proprio una miccia verde muoveva, nei primi secoli cristiani, potere politico imperiale e vescovi di Oriente e Occidente, preoccupati di mettere a fuoco la comune fede creduta, ritenuta capace di suscitare speranza e d’innervare la vita vissuta. Una vita che, dal punto di vista ecclesiale, che oggi ri-presenta, tra l’altro, la speranza di un ri-avvicinamento dottrinale e pratico, tra Roma e Costantinopoli, tra Roma e tutte le altre Chiese del Vicino e Medio Oriente, oggi percorso da guerre terribili e da altri focolai di guerra mondiale come a pezzi.

L’antica lezione del “cammino di avvicinamento” tra Roma e Costantinopoli

Uno degli effetti del secolarismo tra noi è certamente il disorientamento del popolo cristiano quando, come ci stanno ricordando i primi atti di papa Leone XIV, sembra non riconoscere più né il proprio lessico, né le nozioni familiari, né la fede professata, a partire da quel primo “dato di fatto” che «Cristo è nostra pace» (Ef 2,14).

Eppure le discussioni teoriche sul lessico e sulle formulazioni della fede, così vivaci ai tempi di papa Leone II, stanno lì a ricordarci la carica di speranza pratica che proviene dalla “miccia” apparentemente solo teorica. Per esempio, la speranza di ri-avvicinamento tra la prima e l’altera Roma, che deve/può passare anche attraverso la ponderata valutazione delle vicinanze e delle distanze teoriche e di prassi.

Ora, sabato, 28 giugno 2025, papa Prevost, parlando ai membri della delegazione del Patriarcato ecumenico – membri di una “Chiesa sorella” –, in occasione della festa dei santi Pietro e Paolo (patroni della Chiesa di Roma), ha voluto appunto ricordarci il cammino di progressivo avvicinamento tra le due venerande Chiese di Occidente e di Oriente: «Mentre ricordo con viva gratitudine il cammino compiuto fino ad ora, vi assicuro il mio intento di perseverare nello sforzo per ristabilire la piena comunione visibile tra le nostre Chiese. Questa meta si può raggiungere soltanto con l’aiuto di Dio, attraverso un continuo impegno di ascolto rispettoso e dialogo fraterno. Pertanto, sono aperto a qualunque suggerimento in merito, sempre consultando i miei confratelli vescovi della Chiesa cattolica che con me condividono, ciascuno nel suo proprio modo, la responsabilità per la piena e visibile unità della Chiesa»[1].

Soltanto speranza di un cammino lungo e faticoso, che già il Vaticano II aveva, peraltro, rilanciato, disponendo, al termine del Concilio che, mentre le altre commissioni conciliari venivano sciolte, il Segretariato per l’unione dei Cristiani venisse confermato in organismo permanente della Curia romana?

Se è vero che le Chiese cattoliche orientali svolgono un’importante funzione di ponte, aiutandoci a respirare in maniera più intensa con due polmoni e promuovendo un “allargamento verso oriente” anche nell’ecumenismo, cosa suggerisce in più l’espressione costruttrice di ponti di papa Leone XIV – cammino compiuto fino ad ora –? Non sta alludendo, forse, alle Chiese orientali separate, incoraggiando il comune sforzo di ri-unificare due Chiese che, dall’anno del grande scisma, cioè a partire dall’XI secolo, separò Roma da Costantinopoli, l’Oriente Ortodosso dall’Occidente Cattolico?

Così papa Prevost: «Qui ancora, è del tutto evidente che motivi politico-culturali hanno svolto il ruolo principale, senza parlare della divisione esistente di fatto, e geograficamente, tra Oriente e Occidente: i loro popoli si conoscevano sempre meno!. Tutte queste divisioni esistono ancora oggi in Medio Oriente, frutto amaro del passato, ma lo Spirito opera nelle Chiese per avvicinarle e far cadere gli ostacoli all’unità visibile voluta da Cristo, affinché esse siano Una nella loro molteplicità, a immagine della Trinità, e si arricchiscano reciprocamente delle loro rispettive Tradizioni: “Perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato” (Gv 17,21). Queste tradizioni sono, allo stesso tempo, una ricchezza per la Chiesa universale».[2]

Un obiettivo di viaggio del quattordicesimo Leone

Bartolomeo di Costantinopoli, la mattina del giorno prima delle significative riferite espressioni di papa Leone XIV, era stato da lui ricevuto in udienza per il primo dialogo riservato, lo scambio dei doni, la promessa di un comune impegno per pace e ambiente e, in particolare, il desiderio di rivedersi a Nicea per i 1700 anni del Concilio ecumenico: era, proprio questo, come l’auspicio dell’Anno giubilare, a suo tempo indetto da papa Francesco.

Successivamente, nel pomeriggio, Bartolomeo I di Costantinopoli si era recato a Santa Maria Maggiore per rendere omaggio – tra canti e preghiere e un mazzo di rose bianche – a Francesco, il papa da lui sempre definito “caro fratello”, con il quale Bartolomeo aveva condiviso viaggi e momenti importanti del reciproco ministero, non senza annunciare il ri-avvicinamento fisico tra gli esponenti delle due Rome: «Con papa Leone “non abbiamo fissato una data concreta, ma certamente quest’anno”, ha detto il primate ortodosso indicando come possibile periodo quello di novembre in cui si celebra la festa di sant’Andrea. “Questo è il nostro desiderio, anche il nostro augurio – ha detto – e sarà nostro onore di accogliere la sua santità papa Leone, forse nel suo primo viaggio fuori dal Vaticano. A Nicea ma anche una visita ufficiale alla Chiesa di Costantinopoli, al Patriarcato Ecumenico”».[3]

In sintesi, ne è emerso un vero obiettivo di viaggio, la cui meta è, significativamente, oltre alla prima sede conciliare ecumenica, anche il Patriarcato di Costantinopoli, la città voluta da Costantino I.

In questa città, ai tempi di un altro Leone – papa Leone II – si svolse, appunto, una rilevante assise ecumenica: il sesto concilio ecumenico di Costantinopoli, che aprì verso il futuro la comune professione della fede creduta e vissuta.

A sua volta, papa Prevost, nel corso del discorso di sabato, 7 giugno 2025, ha parlato esplicitamente di “orientamento al futuro”, rivolgendosi ai partecipanti al Simposio “Nicea e la Chiesa del terzo millennio: verso l’unità cattolico-ortodossa” (tenutosi presso la PUST in Roma): «Sono lieto di vedere che il simposio è risolutamente orientato verso il futuro. Il Concilio di Nicea non è solo un evento del passato, ma una bussola che deve continuare a guidarci verso la piena unità visibile dei cristiani. Il Primo Concilio Ecumenico è fondamentale per il cammino comune che cattolici e ortodossi hanno intrapreso insieme dal Secondo Concilio Vaticano. Per le Chiese orientali, che commemorano la sua celebrazione nel loro calendario liturgico, il Concilio di Nicea non è semplicemente un Concilio tra gli altri o il primo di una serie, ma il Concilio per eccellenza, che ha promulgato la norma della fede cristiana, la confessione di fede dei “318 Padri”».[4]

Tracce di memoria verso il futuro: il segno di papa san Leone II

Proprio il dichiarato intento, da parte di papa Leone XIV, di voler camminare verso il futuro, cioè la piena visibile unità della Chiesa tra Roma e Costantinopoli, sembra come la traccia recente, aperta al futuro, di un’antica memoria epigenetica, che sembra caratterizzare il nome stesso dei papi che hanno scelto di chiamarsi Leone. L’accenno a Costantinopoli, infatti, ci rimanda appunto al secondo papa che scelse il nome di Leone, cioè a colui che, con il nome di Leone II, fu sommo pontefice dal 17 agosto 682 al 28 giugno 683. Dopo il siciliano sant’Agatone, ascese, appunto, al soglio pontificio il secondo Leone, anch’egli siciliano (o secondo altre tradizioni, calabrese).

Era, quello, significativamente, il tempo in cui sembrava potesse realizzarsi l’auspicato ri-avvicinamento tra le chiese di Costantinopoli e di Roma, spesso lacerate e distanziate non solo dalla geografia, ma da diverse interpretazioni teologiche della comune fede: a noi che, oggi, anche a motivo di un’atmosfera aliena dai dibattiti speculativi, non riusciamo a comprendere come le divisioni potessero allora avvenire per motivi dottrinali e teologici, queste vicende tardo-antiche possono, tuttavia, insegnare molto, soprattutto se la “miccia” della nostra speranza non si lascia asfissiare dalle insinuazioni non aperte al futuro.

Papa Leone II e l’imperatore Costantino IV

La prevista approvazione imperiale di papa Leone II fu, all’epoca, appositamente ritardata dal “religiosissimo imperatore” Costantino IV di Costantinopoli (dopo la morte di Costante II in Sicilia, egli era asceso al trono imperiale, mentre le pressioni musulmane impegnavano già i primi anni del suo regno).

Firmata la pace con il Califfato, a causa dei dissidi interni, che minavano l’autorità di Muʿāwiya, il nuovo Costantino ebbe la libertà di cui aveva bisogno per poter portare a termine una divisiva questione teologico-dottrinale che passerà alla storia come la questione teologica monotelita.

Il quarto Costantino voleva essere certo, infatti, che tutta la comunità ecclesiastica occidentale approvasse non solo le conclusioni del sesto concilio ecumenico, celebrato, come si è detto, a Costantinopoli dal 7 novembre 680 al 16 settembre 681, sotto i papi Agatone (678-681) e sotto il “nostro” papa Leone II (682-683). Ma, soprattutto, l’imperatore voleva che fosse accettato l’anatema già posto su papa Onorio I che, a Roma, sembrava aver, in qualche modo, avallato invece l’eresia denominata monotelita (una sola volontà in Cristo).

Fu Severino Boezio (la cui data di morte è dagli studiosi collocata il 525-526) che, conoscendo il greco, in ben cinque trattati (redatti tra il 513 e il 519), ha consegnato in latino al Medioevo incipiente i suoi testi.

Il secondo di essi presentava, appunto, all’Occidente la questione dell’unica persona e delle due nature in Cristo: un testo famoso che, ai tempi di Boezio, era conosciuto anche come Trattato su Eutiche e Nestorio.

Il medesimo problema, che ritornerà appunto nel VI Concilio ecumenico di Costantinopoli, sotto papa Leone II, era già quello di poter pensare, in Dio Uno, ciò che non è soltanto uno. Come già in Boezio, anche tra i Padri del VI Concilio ecumenico di Costantinopoli, ecco il nodo linguistico-concettuale particolarmente delicato, e che l’imperatore chiede a papa Leone II di confermare e accettare, non avendo alcuna intenzione di provocare una nuova divisione tra le Chiese di Costantinopoli e di Roma che stavano appena provando a ri-avvicinarsi.

In una sua Lettera a Costantino IV – che gli aveva scritto di aver voluto perseguire l’unità della fede in tutte le sante Chiese di Dio –, papa Leone II, confermando e approvando quanto gli avevano riferito i propri legati al concilio ecumenico di Costantinopoli, ribadisce di accogliere (suscepimus, alla lettera) quanto era stato definito nel VI Concilio ecumenico, scrivendo testualmente all’imperatore a cui dà il “voi”: «Poiché mentre anteponete le realtà divine a quelle umane e anteponete incomparabilmente la fede retta alle preoccupazioni del tempo, cos’altro veneriamo noi se non il retto giudizio divino nel culto e il purissimo sacrificio e olocausto di soavità divina, di profumo intenso, sull’altare del vostro petto, che voi state elevando all’invisibile maestà? Questo, del piissimo proposito del vostro animo, o cristianissimo tra gli Augusti, noi confidiamo che, per opera della grazia di Dio, sia detto con efficacia, grazie alla quale è stato sia sradicato l’errore, sia si è ottenuta presso tutti i presuli delle chiese di Cristo la rettitudine dell’evangelica e apostolica fede, con sincera abbondanza di carità».[5]

Come già nell’aula di Nicea primo, sotto Costantino il grande (nel 325), dopo le deliberazioni del Concilio ecumenico di Costantinopoli del 681-682, papa Leone II sta facendo sue le unanimi determinazioni teologiche ecumeniche, sancendo, così, un concreto processo di ri-avvicinamento tra le due sedi di Andrea e di Pietro (e che oggi ri-diventa attuale grazie alle parole del quattordicesimo Leone): «è un solo Signore dalla santa e indivisa Trinità, nostro Signore Gesù Cristo, che è da due e in due nature in maniera inconfusa, inseparabile, indivisibile, così che veramente Dio perfettamente e uomo perfetto: egli ha operato, in quanto Dio, cose divine e in quanto uomo, inseparabilmente, cose umane: per cui il concilio ha veracemente professato che egli ha due volontà naturali, due operazioni naturali, mediante le quali viene dimostrata principalmente sia la verità delle sue nature fino a poter conoscere con certezza la differenza delle nature da cui e in cui uno e medesimo è il Signore nostra Gesù Cristo».[6]

Il concilio Costantinopolitano (680-681) contro i monoteliti

Papa Leone II, dunque, evoca, per noi oggi, una rilevante questione teologica, discussa e affrontata nel corso del Concilio ecumenico del VII secolo: il cosiddetto “monotelismo”.

La cristologia monotelita o monoenergita, incoraggiata ancora dai religiosissimi imperatori del secolo VII (allo scopo di cercare di riconciliare giacobiti e calcedonesi), sosteneva che le due nature di Cristo (divina e umana) sarebbero unite in un’unica volontà o energia: quella divina.

Ricusato già da papa Martino I e, in àmbito greco-orientale, da Sofronio patriarca di Gerusalemme, nonché da Massimo il Confessore (VII sec.), il monotelismo fu ufficialmente condannato sia dai concili provinciali Lateranense (649) e Romano (680), sia, infine, dal concilio ecumenico di Costantinopoli del 680-681: tutta la Chiesa di Oriente e di Occidente insegna, ormai unanimemente, con papa Leone II in testa, a confessare l’integra umanità di Cristo, dotata di una volontà umana distinta dalla sua volontà divina.

Nel corso delle diciotto sessioni conciliari del concilio del 680-681, i padri presero in considerazione sia l’interpretazione della dualità dell’attività e della volontà del Cristo (Dio e uomo), sia quella della loro unicità, giungendo unanimemente – stando agli atti conciliari, che ci sono pervenuti – alla condivisa conclusione che l’interpretazione monoenergista-monotelita doveva essere rigettata.

Per sancire tale decisione ecumenica, vennero anatematizzati i principali recenti sostenitori del monotelismo, tra cui i defunti patriarchi di Costantinopoli (Sergio e Pirro), Ciro di Alessandria e perfino il papa di Roma, Onorio I, anche se Costantino IV non poté presiedere a tutte le sessioni conciliari del sinodo ecumenico, probabilmente per la necessità d’intervenire sul fronte danubiano, dove la coalizione bulgara si faceva sempre più minacciosa.

Come era iniziata la controversia teologica

La cosiddetta Unione di Alessandria – accolta come un successo da Sergio di Costantinopoli (che, in accordo con Eraclio, avrebbe voluto promuovere la concordia dottrinale tra i due polmoni dell’impero e, soprattutto, tra le due grandi scuole teologiche di Alessandria e di Antiochia) –, aveva comunque suscitato delle forme di opposizione nei confronti della “politica” cristologica imperiale.

Il futuro patriarca di Gerusalemme, Sofronio, trovandosi ad Alessandria mentre avvenivano le consultazioni in favore dell’Unione, apparentemente richiesto di un parere al riguardo da Ciro, dichiarò la propria opposizione, diventando uno dei principali detrattori della dottrina monoenergista, promossa da Eraclio, e tacciò di eresia i Nove Capitoli. Era ormai iniziata, in tal modo, la lunga disputa sul monoenergismo e sul monotelismo, che ritroviamo, perciò, richiamata dalla Esposizione della fede redatta dai vescovi del Concilio ecumenico di Costantinopoli ai tempi di papa Leone II.

Nonostante la professione di fede conciliare, il monotelismo non sarà, tuttavia, mai totalmente estirpato, continuando ad annoverare fedeli seguaci, specialmente nella Siria del Nord.[7]

Da parte loro, i padri di Costantinopoli del 680-681 si riconnettono, anzitutto, con tutte le formule di fede già espresse nei precedenti concili ecumenici, con i quali stabiliscono esplicitamente come una catena di continuità. Infatti, il Concilio «approva in tutto, piamente, i cinque santi, ecumenici concili e, cioè, quello dei 318 santi padri, raccoltisi a Nicea contro il folle Ario; dopo di questo, quello di Costantinopoli dei 150 padri ispirati da Dio, contro Macedonio che impugnava lo Spirito, e l’empio Apollinare; similmente, il primo di Efeso, contro Nestorio, di mentalità giudaica, dove si radunarono 200 venerabili uomini; quello di Calcedonia, di 630 padri divinamente ispirati, contro Eutiche e Dioscoro, odiatori di Dio; e oltre questi, approva anche l’ultimo di essi, il quinto santo concilio, radunato proprio qui [a Costantinopoli, ndr] contro Teodoro di Mopsuestia, Origene, Didimo ed Evagrio, e contro le opere di Teodoreto, che egli scrisse contro i dodici capitoli del celebre Cirillo, e la lettera di Iba che si dice essere stata scritta a Mari il Persiano». Infatti, si erano sviluppate due frange dottrinali in seno alla “fazione” calcedonese: la prima era monoenergista (per cui ogni attività divina e umana proviene dall’unico e medesimo Dio, il Logos incarnato); la seconda frangia era monotelita, che risulta presente, appunto, fino al sesto concilio tenutosi, come si è detto tra il 680 e il 681, avallata dalla corte imperiale e dal patriarcato della capitale Costantinopoli, mentre in contrapposizione e in aperto dissenso con la politica religiosa imperiale, i cui rappresentanti primari furono Massimo il Confessore, monaco proveniente dal circolo palestinese di Sofronio, e il Papato romano. Il concilio del 680-681 professa unanimemente una sola volontà e una sola operazione in due nature di una (persona) della santa Trinità, cioè del Cristo, in contrasto con la folle dottrina falsa degli empi Apollinare, Severo e Temistio. Alludiamo a Teodoro, che fu vescovo di Fara; a Sergio, Pirro, Paolo, Pietro, che furono presuli di questa imperiale città; ed anche a Onorio, che fu papa dell’antica Roma; a Ciro, che fu vescovo di Alessandria, e a Macario, recentemente vescovo di Antiochia, e a Stefano, suo discepolo; trovati, dunque, gli istrumenti adatti, non si astenne, attraverso questi, dal suscitare nel corpo della Chiesa gli scandali dell’errore; e con espressioni mai udite disseminò in mezzo al popolo fedele l’eresia di una sola volontà e di una sola operazione in due nature di una (persona) della santa Trinità, del Cristo, nostro vero Dio, in armonia con la folle dottrina falsa degli empi Apollinare, Severo e Temistio».

Il nucleo della dottrina conciliare accolta da papa Leone II

Ed ecco il nucleo della dottrina che fu unanimemente concordata e professata a Costantinopoli: «Seguendo i cinque santi concili ecumenici, e i santi ed eccellenti padri, in accordo con essi definisce e confessa il Signore nostro Gesù Cristo, nostro vero Dio, uno della santa, consostanziale e vivificante Trinità, perfetto nella divinità e perfetto nell’umanità; veramente Dio e veramente uomo, composto di anima razionale e di corpo, consostanziale al Padre secondo la divinità e, nello stesso tempo, consostanziale a noi nella sua umanità; simile a noi in tutto, meno che nel peccato, generato dal Padre, prima dei secoli, secondo la divinità, in questi ultimi tempi per noi e per la nostra salvezza (è nato) dallo Spirito Santo e da Maria vergine, nel più vero senso della parola madre di Dio, secondo l’umanità; un solo e medesimo Cristo, figlio unigenito di Dio, da riconoscersi in due nature senza confusione, mutamento, separazione, divisione; senza che in nessun modo venga soppressa la differenza delle nature per l’unione, ma salvaguardando la proprietà dell’una e dell’altra, e concorrendo ciascuna a formare una sola persona e sussistenza; non diviso e scomposto in due persone, ma uno e medesimo figlio unigenito, Verbo di Dio, Signore Gesù Cristo, come un tempo i profeti ci rivelarono di lui, e lo stesso Gesù Cristo ci insegnò, e il simbolo dei santi padri ci ha trasmesso».

Il concilio ecumenico di Costantinopoli insegna ancor oggi, sotto il pontificato del quattordicesimo Leone, a confessare, come già san Leone II, l’intera umanità di Cristo, dotata di una volontà umana distinta dalla sua volontà divina; sostenere la presenza in Cristo della sola volontà divina implicherebbe, di fatto, assorbire nella natura divina la natura umana, che non sarebbe minimamente indipendente, essendoci solo la volontà divina.

A partire da questo concilio, svolto in parte, come si è detto, sotto papa Leone II, gli imperatori bizantini tornavano, di fatto, alla cosiddetta ortodossia calcedonese, mentre i calcedonesi di Siria-Palestina, tra cui il monotelismo si era ampiamente diffuso, si spaccano: Gerusalemme e le comunità monastiche ad essa legate, si attengono strettamente al concilio del 680-681, e saranno chiamate – dai loro avversari cristiani e dai musulmani – melchite, in quanto fedeli agli imperatori bizantini, o anche massimiste perché accettano la cristologia di Massimo il Confessore, che ormai estende il proprio influsso dottrinale da Alessandria d’Egitto a Baghdad.

Frattanto la sede papale di Roma rilancia ciò che era stato già sostenuto da papa Leone I (440-461), cioè il dovere di difendere il principio di apostolicità della sede romana, anche a fronte del fatto che Roma non era più, ormai, capitale imperiale. Mentre i teologi costantinopolitani avevano risposto al primato petrino di Roma attribuendo la fondazione della Chiesa di Costantinopoli all’apostolo Andrea (il primo a essere stato chiamato da Cristo assieme a Pietro, ribadendo così, l’equiparazione tra le due sedi patriarcali), la Vecchia Roma e l’opinione dei suoi papi restò a lungo fondamentale per dirimere questioni di fede e problematiche ecclesiologiche anche riguardanti le Chiese orientali.

Attualità del cammino di riconciliazione tra Roma e Costantinopoli

Comprendiamo, così, alla luce di questi antichi episodi, il perché profondo degli sforzi di avvicinamento del papa attuale di Roma alla sede patriarcale di Costantinopoli, laddove il Concilio aveva confessato «L’Unigenito figlio e verbo di Dio Padre, fattosi uomo, in tutto simile a noi fuorché nel peccato, Cristo, il vero nostro Dio, predicò apertamente nel Vangelo: Io sono la luce del mondo. Chi mi segue, non camminerà nelle tenebre, ma avrà il lume della vita; e di nuovo: Vi lascio la mia pace, vi do la mia pace. Guidato dunque divinamente da questa celeste dottrina della pace, il nostro mitissimo imperatore, propugnatore della retta dottrina, avversario dell’errore, convocando questo nostro universale concilio, ha riunito l’intera compagine della Chiesa. Questo santo ecumenico sinodo, dunque, rigettando l’empio errore che da qualche tempo va serpeggiando, e seguendo senza tentennamenti la retta via segnata dai santi ed eccellenti padri…».

Ribadire gli immutabili decreti della pietà, scacciando le profonde dottrine dell’empietà, per suggellare il simbolo, già emesso nel 325 a Nicea, e poi confermato dai concili ecumenici seguenti, dimostrava, come avevano esplicitamente scritto i padri conciliari e sottoscritto, attraverso i legati, lo stesso papa san Leone II, che «non restò inattivo colui che fin dall’inizio fu l’inventore della malizia e che, trovando un aiuto nel serpente, per mezzo di esso introdusse la velenosa morte nella natura umana, così anche ora, trovati gli istrumenti adatti alla propria volontà», alcuni andavano suscitando «nel corpo della Chiesa gli scandali dell’errore; e con espressioni mai udite disseminano in mezzo al popolo fedele l’eresia di una sola volontà e di una sola operazione in due nature di una (persona) della santa Trinità, del Cristo, nostro vero Dio, in armonia con la folle dottrina falsa».

Contro ogni dottrina divisiva, anche papa Leone II, sottoscrivendo le firme dei suoi legati, proclamava, con le Chiese di Roma e di Costantinopoli: «Predichiamo anche, in lui, due volontà naturali e due operazioni naturali, indivisibilmente, immutabilmente, inseparabilmente, inconfusamente, secondo l’insegnamento dei santi padri. Due volontà naturali che non sono in contrasto fra loro (non sia mai detto!), come dicono gli empi eretici, ma tali che la volontà umana segua, senza opposizione o riluttanza, o meglio, sia sottoposta alla sua volontà divina e onnipotente. Era necessario, infatti, che la volontà della carne fosse mossa e sottomessa al volere divino, secondo il sapientissimo Atanasio. Come, infatti, la sua carne si dice ed è carne del Verbo di Dio, così la naturale volontà della carne si dice ed è volontà propria del Verbo di Dio, secondo quanto egli stesso dice: Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la volontà del Padre che mi ha mandato, intendendo per propria volontà quella della carne, poiché anche la carne divenne sua propria: come, infatti la sua santissima, immacolata e animata carne, sebbene deificata, non fu distrutta, ma rimase nel proprio stato e nel proprio modo d’essere, così la sua volontà umana, anche se deificata, non fu annullata, ma piuttosto salvata, secondo quanto Gregorio, divinamente ispirato, dice: “Quel volere, che noi riscontriamo nel Salvatore, non è contrario a Dio, ma anzi è trasformato completamente in Dio”».

Bene fa, oggi, il Catechismo della Chiesa cattolica, al n. 457, a sintetizzare la complessa vicenda storica e dottrinale: «La Chiesa nel sesto Concilio Ecumenico ha dichiarato che Cristo ha due volontà e due operazioni naturali, divine e umane, non opposte, ma cooperanti, in modo che il Verbo fatto carne ha umanamente voluto, in obbedienza al Padre, tutto ciò che ha divinamente deciso con il Padre e con lo Spirito Santo per la nostra salvezza. La volontà umana di Cristo “segue, senza opposizione o riluttanza, o meglio, è sottoposta alla sua volontà divina e onnipotente”».

Altrettanto bene fa oggi papa Leone XIV a riprendere anche quelle istanze. Mi piace, perciò, concludere con le belle espressioni di una Lettera di papa Leone II al vescovo Quirico, formulandole come augurio al quattordicesimo Leone: «Dio ti conservi incolume […]. Mediante la grazia della benedizione, abbiamo diretto verso la tua amicizia la croce, che reca la chiave dei sacri vincoli di san Pietro apostolo, in modo che tu possa essere vescovo secondo i meriti di Dio e la carità verso il prossimo abbia la vittoria: e, mediante il vessillo della salutifera croce, Cristo, che su di essa è sospeso, conduca le membra di tutto il corpo all’osservanza dei comandamenti».[8]


[1] https://www.vatican.va/content/leo–xiv/it/speeches/2025/june/documents/20250628–patriarcato–ecumenico.html [12.8.2025].

[2] Sinodo dei Vescovi – Assemblea speciale per il Medio Oriente, La Chiesa Cattolica nel Medio Oriente: comunione e testimonianza «La moltitudine di coloro che erano diventati credenti aveva un cuor solo e un’anima sola» (At 4, 32), LEV, Città del Vaticano 2010, n. 17.

[3] https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2025–05/bartolomeo–udienza–leone–xiv–preghiera–francesco–viaggio–nicea.html [12.8.2025].

[4] https://www.vatican.va/content/leo–xiv/it/speeches/2025/june/documents/20250607–simposio–nicea.html [12.8.2025].

[5] Epistula III papae Leonis ad Constantinum, in Migne, PL 96: Leonis papae epistulae, p. 401 (mia versione dal greco e dal latino di Migne).

[6] ivi, 404.

[7] L’ultimo imperatore che sosterrà questa dottrina sarà Filippico Bardane (711–713), militare di alto rango di origini armene.

[8] Migne, PL 96, Epistula V. p. 416.

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