
Papa Leone XIV (Foto di Tiziana Fabi Pool Via AP/Associated Press/LaPresse)
Come vuoi essere chiamato?
«Avvenuta canonicamente l’elezione, l’ultimo dei Cardinali Diaconi chiama nell’aula dell’elezione il Segretario del Collegio dei Cardinali, il Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie e due Cerimonieri; quindi, il Cardinale Decano, o il primo dei Cardinali per ordine e anzianità, a nome di tutto il Collegio degli elettori chiede il consenso dell’eletto con le seguenti parole: Accetti la tua elezione canonica a Sommo Pontefice? E appena ricevuto il consenso, gli chiede: Come vuoi essere chiamato? Allora il Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie, con funzione di notaio e avendo per testimoni due Cerimonieri, redige un documento circa l’accettazione del nuovo Pontefice e il nome da lui assunto».
È questa la norma vigente, osservata anche nell’ultimo Conclave che ha eletto il nuovo papa, così come stabilito dal n. 87 della lettera apostolica, data motu proprio, Normas nonnullas del sommo pontefice Benedetto XVI, con cui il papa-teologo introduceva alcune modifiche alle norme relative all’elezione del romano pontefice.
L’antica formula latina: Quo nomine vis vocari? ha ricevuto, dal neo-eletto cardinale Prevost, la risposta che tutti conosciamo e utilizziamo correntemente: Leone, “voglio esser chiamato Leone”.
Oltre a rivelarci lui stesso qualche perché della scelta di tale specifico nome, il quattordicesimo della serie si è inserito consapevolmente nella già nutrita schiera dei Leone.
Un nome sembrerebbe soltanto uno “stimolo esterno”, un’etichetta che non modifica nulla. Tuttavia, quasi giocando seriamente sul nome di un papa, qualche indicazione ci sembra forse venire da quella scelta, apparentemente secondaria, del nome.
Certo, solamente l’eletto conosce nell’intimo le motivazioni del proprio gesto. Ma papa Prevost, in qualche modo, ha dato a intravvedere delle novità recentissime, indotte da quello specifico nome da lui prescelto tra i tanti possibili (anche nuovi), non senza verbalizzare, fin da subito, quelli che ci sembrano alcuni nodi, di ordine storico-culturale, che aprono la Chiesa e il suo pontefice a fatti ed eventi, che potrebbero/potranno occorrere.
Rerum novissimarum?
A distanza di qualche giorno dalla sua elezione, parlando proprio della scelta del nome, Leone XIV ha voluto subito chiarirne il perché, collegandosi esplicitamente alla memoria del papa della dottrina sociale moderna:
«Come ho già avuto modo di accennare, ho scelto il mio nome pensando anzitutto a Leone XIII, il papa della prima grande enciclica sociale, la Rerum novarum. Nel cambiamento d’epoca che stiamo vivendo, la Santa Sede non può esimersi dal far sentire la propria voce dinanzi ai numerosi squilibri e alle ingiustizie che conducono, tra l’altro, a condizioni indegne di lavoro e a società sempre più frammentate e conflittuali. Occorre, peraltro, adoperarsi per porre rimedio alle disparità globali, che vedono opulenza e indigenza tracciare solchi profondi tra continenti, paesi e anche all’interno di singole società».[1]
Preferendo anche lui (come già papa Francesco) l’espressione cambiamento d’epoca (piuttosto che epoca del cambiamento), il quattordicesimo Leone si è voluto catapultare verso le novità più recenti nel mondo e nella Chiesa.
Egli ci confida di aver anzitutto (quindi, potremmo dire, non esclusivamente) pensato al papa della Rerum novarum. Lo ha fatto, ci pare, non solo in relazione alla propria individualità, ma nell’ottica della Santa Sede che, come esplicita ulteriormente papa Prevost, è oggi chiamata a rispondere, letteralmente a far sentire la sua voce.
Vox clamantis in deserto?
Potremmo domandarcelo con il profeta Isaia [40,3], peraltro ripreso nei Vangeli, in particolare da Matteo [3,1-4] e Luca (3,4), che lo attribuiscono a Giovanni Battista, il precursore delle novità del Nazareno.
Avremo una voce corale (del papa e della Santa Sede) che si faccia finalmente sentire in ambito sociale (e pure economico, finanziario, strategico, politico…), di fronte ai numerosi squilibri e alle tante ingiustizie che caratterizzano questo nostro mondo?
In particolare, ci si farà sentire, come il tredicesimo Leone di fronte alle condizioni indegne dei lavoratori, in società che sono sempre più frammentate e conflittuali, laddove le disparità non sono più di questo o di quel ceto, di questa o di quella classe (come ai tempi di fine Ottocento), bensì sono divenute – ci ricorda il papa attuale – globali.
Risentiamo, forse, in tale schema di lettura, qualche eco delle analisi di Thomas Piketty (Capital and Ideology, Harvard University Press, 2020) e, ancor prima, del premio Nobel Joseph Stiglitz:
«La virtù del mercato dovrebbe essere l’efficienza. Ma chiaramente il mercato non è efficiente. La prima legge della teoria economica – necessaria perché l’economia sia efficiente – è che la domanda sia pari all’offerta. Ma viviamo in un mondo in cui enormi bisogni rimangono insoddisfatti: mancano investimenti che facciano uscire i poveri dalla povertà, che promuovano lo sviluppo nei paesi meno sviluppati dell’Africa e degli altri continenti del mondo, che adeguino l’economia globale alle sfide poste dal riscaldamento della Terra. Contemporaneamente abbiamo ampie risorse inutilizzate, come lavoratori e macchinari improduttivi o impiegati al di sotto delle loro capacità. E la disoccupazione – l’incapacità del mercato di generare posti di lavoro per tanti cittadini – è il fallimento peggiore, la fonte di inefficienza più grave, oltre che una delle cause principali della disuguaglianza».[2]
Frammentazione, disuguaglianze, fallimenti, conflitti e altro…
Ecco, nel titolo di questo paragrafo, tanti altri termini attuali. Uno di essi – conflitto – già papa Leone XIII, alla fine del secolo XIX, lo aveva additato come lo “scoppio” di una miscela; ovvero, tutto un «insieme di cose, con l’aggiunta dei peggiorati costumi»,[3] aveva comportato lo scoppiare un conflitto, particolarmente quello che, alla fine dell’Ottocento, era pericolosamente in atto tra operai e padroni.
Di fronte ad esso, argomentava il tredicesimo Leone, non resta che ricordare che, nella memoria profonda della Chiesa, permane una capacità che sa trarre dal Vangelo dottrine atte a comporre, o certamente a rendere assai meno aspro il conflitto.[4] Il tutto nella convinzione che «un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie», mentre «a comporre il dissidio, anzi a svellerne le stesse radici, il cristianesimo ha una ricchezza di forza meravigliosa».[5]
Far sentire a tutto campo (anche con la cultura e la preghiera!) la forza meravigliosa di svellere le radici del conflitto e dei dissidi sociali, non significherà anche continuare l’azione di un papa, il quale non mancò di essere, oltre che il teorico della dottrina sociale contemporanea, anche il papa del Rosario e, in particolare, della rinascita degli studi critici tomasiani? Anche questi fattori sono come depositati nella scelta di un nome.
Un ritorno ai testi critici dell’Angelico Dottore, ovvero alla filosofia cristiana, fu un altro impulso – quello della Aeterni Patris del 4 agosto 1879 – del tredicesimo Leone. Esso spinse a ritrovare, nella cultura cristiana, gli spunti per ricomporre e riequilibrare i conflitti, soprattutto quelli che erano stati indotti tra i due campi, spesso contrapposti, della fides e della ratio.
Leone, un nome “geneticamente dialogico”?
Non è forse un caso che, parlando di papa Prevost, Elizabeth Newman – esperta di etica, nonché co-presidente dei dialoghi tra battisti e cattolici (convocati dalla Baptist World Alliance e dal Dicastero per la promozione dell’unità dei cristiani) –, abbia messo in evidenza alcune “scelte” di Robert Francis, partendo da elementi apparentemente secondari, come quello del nome:
«Quando divenne vescovo adottò come motto una meravigliosa frase di Agostino: “Nell’unico Cristo siamo uno” (In Illo uno unum). Ciò dimostra il suo profondo interesse per l’unità nella Chiesa mentre il lavoro di missionario testimonia la volontà di servire e condividere il Vangelo ovunque Cristo chiami e di stringere amicizia con chi vive in culture diverse».[6]
Come a dire, confronto e dialogo tra cultura cristiana e culture diverse. Del resto, la scelta di chiamarsi Leone, non implica anche lo stile di critica culturale, nella convinzione che il Vangelo riguardi un intero stile di vita: spirituale, comunitario e sociale?
Nomina sunt omina?
Come nell’ereditarietà epigenetica, nell’attuale nome di Leone potrebbero, forse, essere addizionati non soltanto i caratteri del penultimo Leone, ma un po’ quelli di tutta la schiera dei Pontefici con questo nome.
E ciò a partire dal primo Leone (440-461), a cui fu dato, nel 1295, da papa Bonifacio VIII, il titolo di Dottore della Chiesa (insieme con altri tre Padri latini: Ambrogio, Girolamo e Agostino, della cui congregazione, ricordiamolo, papa Prevost è un figlio).
Davvero nomina sunt omina, come ci ricorda la locuzione latina, con cui si esprime il concetto del valore augurale attribuito a un nome specifico?
Comunque la si voglia pensare, il primo Leone – mentre era in missione in Gallia nel 440 per conto della corte di Ravenna –, si trovò eletto all’unanimità alla sede apostolica, dove siederà fino al 10 novembre 461.
Fu un papa mite, ma anche coraggioso, come si vede almeno in due riprese. Tenne, infatti, un comportamento deciso di fronte all’invasore unno, Attila (452 d.C.). Con la sua sola eloquenza, come ci viene raccontato, fece desistere quel re dal desiderio d’invadere l’Italia e marciare su Roma.
Secondo la Legenda aurea (o anche Legende sanctorum) di Jacopo da Varazze, proprio mentre il primo Leone pronunciava le sue parole all’indirizzo dell’unno, Attila avrebbe visto alla destra di lui, in cielo, uno o forse due personaggi misteriosi (Pietro e Paolo?) che, in abiti sacerdotali, lo “minacciavano” “armati di spada”.
Raffaello, in Vaticano, immortalerà, secondo i suoi canoni, quella scena in un famoso affresco (l’ultimo eseguito nella sala di Eliodoro, terminato dopo la morte di Giulio II, papa dal 1503 al 1513). Il grande artista ambientava l’episodio alle porte di Roma, anche se, in realtà, il fatto storico avvenne nell’Italia del nord, nei pressi di Mantova.
Tre anni dopo, papa Leone sarà ancora di fronte a un altro “barbaro” (ma il termine non è spregiativo!): Genserico, re dei vandali, stava risalendo il Tevere con la sua flotta. Ancora una volta, come ci riferisce la Cronaca universale di Prospero di Aquitania, discepolo di Agostino d’Ippona, il primo Leone lo ferma.
Com’è stato osservato dagli storici, lo spazio barbarico non era quel mondo tanto diverso e incomprensibile, dipinto dagli antichi scrittori latini, bensì parte integrante dell’universo tardo-antico, o anche la periferia di un sistema plurilingue e pluriculturale, del quale Roma e l’Italia, e più tardi Costantinopoli, erano ancora i centri,[7] e di cui il primo Leone restava, in qualche modo, l’interprete qualificato.
Altera Roma
Subito dopo il Sinodo ecumenico di Nicea (325), l’imperatore Costanzo apre a Costantinopoli un nuovo Sinodo, nel 360: esso aderisce alle tesi cristologiche, dette omee, che abbandonavano la formula dello homousion del Nicea primo. Era ancora in corso quello che gli esperti di storia delle dottrine chiamano il secolo delle controversie ariane, che ritorneranno di nuovo nell’aula del Sinodo ecumenico di Calcedonia (8 ottobre-1° novembre 451). Tale Sinodo calcedonese condannerà il cosiddetto monifisimo di Eutiche.
Il primo Leone, che è papa proprio in quel periodo, lega particolarmente il suo nome al Tomus ad Flavianum (che è redatto due anni prima di Calcedonia, essendo stato composto nel 449). Un testo di rara precisione teologica, quello di Leone Magno, circa il modo corretto di pensare l’unità di Cristo in due nature.
Ma è anche un testo che, a motivo del suo destinatario, Flaviano – vescovo di Costantinopoli –, rinviava alla vicenda di quella che era già denominata altera Roma, ovvero Costantinopoli.
L’intento di ri-organizzare il territorio imperiale aveva, infatti, già condotto l’imperatore “cristiano” Costantino alla fondazione di Costantinopoli: la piccola città di Bisanzio, sul Bosforo, era, così, divenuta una capitale, solennemente inaugurata nel 330, con il nome dell’imperatore che l’aveva costruita come sua città di residenza e in chiaro parallelo con Roma: ormai, esistevano una prima Roma e un’altera Roma. Soltanto più tardi (proprio nel Concilio di Costantinopoli del 381, esattamente al can. 3) quella capitale diviene la rivale della città del papa, nelle mani del cui patriarca perveniva, appunto, il Tomo del primo Leone.
Mi sembra significativo che la recente visita della delegazione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli a papa Leone XIV, in occasione della festa dei santi Pietro e Paolo (28 giugno 2025), ci faccia quasi “naturalmente collegare”, ancora una volta, le cose antiche con le res novissimae dell’attuale Leone.
Nell’occasione, papa Prevost, ha esplicitamente rammentato che la Delegazione di Costantinopoli rappresenta la «Chiesa sorella di Costantinopoli mentre celebriamo la festa dei Santi Pietro e Paolo, Patroni della Chiesa di Roma». E ciò, non senza menzionare i «secoli di disaccordi e incomprensioni… tra le Chiese sorelle di Roma e di Costantinopoli».[8]
Anche a Castelgandolfo, il 17 luglio 2025, salutando i membri di un pellegrinaggio ecumenico proveniente dagli USA, il quattordicesimo Leone ha voluto di nuovo evocare la sede di Costantinopoli, e non soltanto perché si è nell’Anno giubilare:
«Siete partiti dagli Stati Uniti che, come sapete, sono il mio Paese nativo, per questo viaggio, che vuol essere un ritorno alle radici, le fonti, i luoghi e le memorie degli Apostoli Pietro e Paolo a Roma, e dell’Apostolo Andrea a Costantinopoli… Il Simbolo della fede adottato dai Padri riuniti [nel 325 a Nicea] rimane – insieme alle aggiunte apportate dal Concilio di Costantinopoli del 381 – patrimonio comune di tutti i cristiani, per molti dei quali il Credo è parte integrante delle celebrazioni liturgiche… Mentre ora visitate la Sede di Costantinopoli, vi chiederei di portare il mio saluto e il mio abbraccio, un abbraccio di pace, al mio venerato fratello il patriarca Bartolomeo, che tanto cortesemente ha partecipato alla santa Messa di inizio del mio pontificato».[9]
Dal primo Leone all’attuale
Originario forse dell’Etruria, le prime notizie su Leone Magno lo segnalano come diacono della Chiesa di Roma, verso il 430. Su richiesta di Leone, Giovanni Cassiano compose, contro Nestorio (arcivescovo di Costantinopoli!), il trattato sull’Incarnazione del Signore, per contestare (nella scia del concilio ecumenico di Efeso del 431), la teoria della dissociazione fra il Figlio eterno del Padre e il figlio storico di Maria: vi sono due nature nell’unica persona di Cristo, e Maria è correttamente chiamata Theotokos, Madre di Dio, ribadisce Leone Magno.
Vissuto in un periodo turbolento o di transizione, con gli ultimi “furori” dell’Impero romano di occidente, la cristologia del Tomus ad Flavianum fu dottrinalmente decisiva, in particolare collegamento con il terzo Concilio ecumenico di Efeso – che aveva condannato Nestorio e definito, contro un’opinione che, invece le differenziava troppo, l’unione ipostatica delle due nature (umana e divina di Cristo).
Il contributo polemico del primo Leone apparve particolarmente significativo contro le posizioni di Eutiche, archimandrita di un monastero di Costantinopoli – il quale teorizzava una specie di “assorbimento” della natura umana di Cristo nella sua natura divina (la sua tesi sarà presto tecnicamente denominata “monofisimo”): ora, da un monaco, sembrava provenire un nuovo attacco all’unità dei due polmoni della Chiesa di Cristo.
Da parte sua, l’imperatore Teodosio II, al fine di raccordare i due polmoni dell’Impero e della Chiesa, avrebbe voluto radunare un nuovo concilio ecumenico ad Efeso; ma papa Leone lo bollò come brigantaggio di Efeso, in quanto l’imperatore romano non aveva dato seguito alla propria richiesta di convocare, invece, a Roma un Sinodo generale.
All’imperatore che rifiutava esplicitamente che il patriarca di Roma intervenisse negli affari dell’Oriente, e proprio in vista di un auspicato Sinodo ecumenico, il primo Leone aveva redatto, appunto, questa lunga lettera a Flaviano: l’attenzione del destinatario – vescovo della Chiesa di Costantinopoli –, deve fissarsi, suggeriva il primo Leone, sul “vecchio” Eutiche (così letteralmente viene apostrofato il monaco archimandrita), la cui dignità sacerdotale non è stata, purtroppo, in grado di frenare il suo ardire, con cui, di fatto, attentava all’integrità dell’unica fede.
Argomenta Leone Magno: invece di attenersi «alle testimonianze dei profeti, alle lettere degli apostoli e alle affermazioni dei vangeli», invece di restare discepolo della verità, Eutiche ha, infatti, travisato perfino i primi rudimenti del Simbolo di fede (consegnato in lingua greca, non latina, a Nicea!), così come veniva compreso in tutto il mondo dai battezzati.
Piuttosto – ecco la dottrina cristologica del Tomus – bisogna affermare che, in Dio, il Figlio è coeterno, non subordinato al Padre; che è nato dallo Spirito Santo e da Maria Vergine, nel senso che la sua nascita nel tempo, tuttavia, nulla ha aggiunto e nulla ha tolto a quella divina ed eterna nascita, consacrata interamente alla redenzione dell’uomo, il quale si era lasciato ingannare dal diavolo. Il Figlio fu, dunque, concepito dallo Spirito Santo nel seno della Vergine Madre, che lo diede alla luce nella sua integrità verginale, così come, senza diminuzione della sua verginità, lo aveva concepito.
Il tomus di papa Leone insisteva, insomma, sulle due nature, umana e divina, del Figlio incarnato: ognuna delle due nature opera insieme con l’altra ciò che le è proprio: e cioè il Verbo, opera quello che è del Verbo; la carne, invece, quello che è della carne… La stessa e identica Persona è vero figlio di Dio e vero figlio dell’uomo: la nascita nella carne manifesta l’umana natura, il parto di una Vergine è segno della divina potenza. In sintesi, unità di persone, da intendersi come propria di ognuna delle due nature del Verbo incarnato.
Il monaco Eutiche – precisava il Tomus – ha, invece, diviso Gesù, separando da lui la natura umana e annullando il mistero per cui soltanto noi siamo stati salvati. È significativo che la fine di quel testo leonino riporti la decisione del santo Sinodo ecumenico di Calcedonia che, morto accidentalmente Teodosio II nel luglio 450, fu poi convocato dal successore Marciano proprio in Calcedonia di Bitinia.
Qui i padri conciliari leggono pubblicamente il Tomus di papa Leone e deliberano la condanna di Eutiche, dichiarando che è Pietro stesso che si è espresso per bocca del papa di Roma. Tuttavia, nella parte disciplinare di quel medesimo Sinodo ecumenico, esattamente nel canone 28 (peraltro, in distonia con il sesto canone di Nicea che, già nel 325, aveva enunciato il primato della sede di Roma), i medesimi padri, non senza fare un cenno ai cosiddetti popoli barbari, sanciscono (nonostante l’esplicita opposizione del primo Leone) l’elevazione della sede di Costantinopoli allo stesso rango di quella di Roma:
«Seguendo in tutto le disposizioni dei santi padri, preso atto del canone [III] or ora letto, dei 150 vescovi cari a Dio, che sotto Teodosio il Grande, di pia memoria, allora imperatore si riunirono nella città imperiale di Costantinopoli, nuova Roma, stabiliamo anche noi e decretiamo le stesse cose riguardo ai privilegi della stessa santissima Chiesa di Costantinopoli, nuova Roma. Giustamente i padri concessero privilegi alla sede dell’antica Roma, perché la città era una città imperiale. Per lo stesso motivo i 150 vescovi diletti da Dio concessero alla sede della santissima nuova Roma, onorata di avere l’imperatore e il senato, e che gode di privilegi uguali a quelli dell’altrettanto antica città imperiale di Roma, eguali privilegi anche nel campo ecclesiastico e che fosse seconda dopo di quella. Di conseguenza, i soli metropoliti delle diocesi del Ponto, dell’Asia, della Tracia, e inoltre i vescovi delle parti di queste diocesi poste in territorio barbaro saranno consacrati dalla sacratissima sede della santissima Chiesa di Costantinopoli».
Prima e seconda Roma: per sempre?
Costantinopoli sarà per sempre, come precisa il Sinodo, la nuova (o anche la “seconda”) Roma, essendo, peraltro, ormai Costantinopoli sia la residenza dell’Imperatore dei romani sia la sede del Senato. Prima e seconda, non nel senso gerarchico, sembrava dire la formula adottata. Ma divennero, nel tempo, quasi impercorribili, le tracce della reciproca riconciliazione, nonostante il tentativo avvenuto nel secolo VII, come vedremo in seguito, al tempo di papa Leone II.
Il quattordicesimo Leone ha voluto esplicitamente ricordare il fattaccio del mese di aprile dell’anno 1204, allorché un esercito partito per recuperare la Terra Santa alla cristianità, si diresse verso Costantinopoli per prenderla e saccheggiarla, versando il sangue di fratelli nella fede.
Non è un caso che, commentando il suo incontro con papa Prevost, il patriarca Bartolomeo, lo scorso 19 maggio, oltre ad auspicare che il dialogo teologico continui sulla stessa strada per il bene del cristianesimo intero e per la pace nel mondo, ha voluto aggiungere che Leone XIV gli ha assicurato che verrà in Turchia per i 1700 anni del Concilio di Nicea:
«Desiderio espresso tante volte da Francesco che, nonostante la grave malattia degli ultimi tempi, non ha mai perso la speranza di compiere l’importante viaggio. Non abbiamo fissato una data, ma certamente quest’anno, forse a fine novembre per la festa di sant’Andrea (il 30), fratello dell’apostolo Pietro. Questo è il nostro desiderio e il nostro augurio e sarà nostro onore accogliere il papa, forse nel primo viaggio. A Nicea ma anche una visita alla Chiesa di Costantinopoli e al Patriarcato».
Come riferisce anche il sito vaticano, Bartolomeo ha ribadito:
«I dialoghi tra le nostre Chiese – pur occupandosi delle differenti concezioni di ogni Chiesa su concrete questioni dogmatiche ed ecclesiastiche, e pur cercando di favorire la comune accettazione della concezione retta per il raggiungimento dell’unione nella fede e nella prassi della Chiesa – in fine mirano alla comunicazione dell’esperienza proveniente dalla comunione di ognuno con Cristo, così da fare l’unità nel vissuto di Lui, come persona che ricapitola in sé tutto, nell’unione delle persone della Santissima Trinità».[10]
Vincenzo Bertolone, dei Missionari Servi dei Poveri, è vescovo emerito di Catanzaro-Squillace.
[1] Udienza al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, Discorso del santo padre Leone XIV, Sala Clementina Venerdì, 16 maggio 2025:
https://www.vatican.va/content/leo-xiv/it/speeches/2025/may/documents/20250516-corpo-diplomatico.html [18.7.2025].
[2] The Price of Inequality, Allen Lane, London 2012; tr. it. Einaudi, Torino 2013, p. IX.
[3] Rerum novarum, n. 1.
[4] Ivi, n. 13.
[5] Ivi, n. 15.
[6] https://www.vaticannews.va/it/papa/news/2025-05/cristiani-ecumenismo-papa-leone-xiv-conclave.html [18.7.2025].
[7] Cf. P. Delogu, Barbari e Germani fra tardo antico e alto medioevo: revisione concettuale, in La Storia. I grandi temi della cultura storica, Carocci Roma2007.
[8] https://www.vatican.va/content/leo-xiv/it/speeches/2025/june/documents/20250628-patriarcato-ecumenico.html [18.7.2025].
[9] https://www.vatican.va/content/leo-xiv/it/speeches/2025/july/documents/20250717-pellegrinaggio-ecumenico-usa.html [17.7.2025]
[10]https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2004/06/29/0327/01088.html [18.7.2025].






È ancora presto per dire che Leone è questo Papa. Certamente un nome alquanto evocativo sotto molteplici aspetti: https://iltuttonelframmento.blogspot.com/2025/08/le-sfide-della-chiesa-con-leone-xiv.html?m=1.
Spero riesca a fermare con altrettanta efficacia del suo predecessore i nuovi “barbari” come Trump, Putin, Netanyahu…
Perché Francesco li avrebbe fermati? e come? a me sembrano più imbarbariti che mai.
Francesco si chiamava Francesco. Leone ha scelto un nome diverso che evoca quanto indicato nell’articolo. Quindi è consequenziale fare il confronto. Non capisco bene la ragione del suo messaggio. Ma poco importa.
Leone è stato scelto soprattutto per la Rerum Novarum, da quello che ho letto in giro (lo ha chiarito lui stesso pochi giorni dopo l’elezione). E Leone era pure il frate preferito di Francesco, se vogliamo leggerla in continuità.
Altri dicono, non a torto, perché papà leone XIII aiuto molto gli agostiniani. Comunque sia ha scelto un nome molto evocativo che aumenta le attese visto che prima di lui ce ne sono stato altri 13.
Va bene, poco importa pure a me, ma solo per capire, io ho pensato che con “predecessore” lei si riferisse a Francesco. Ora capisco che lei si riferiva al Leone che lo ha preceduto, si è trattato di un semplice equivoco.
Non per fare i puntigliosi, ma se il riferimento è alla Rerum Novarum non si tratta di combattere generici “barbari” che vengono dal di fuori ma di prendere atto delle strutture sistemiche del nostro “dentro” .
Questo infatti è interessante: “Com’è stato osservato dagli storici, lo spazio barbarico non era quel mondo tanto diverso e incomprensibile, dipinto dagli antichi scrittori latini, bensì parte integrante dell’universo tardo-antico, o anche la periferia di un sistema plurilingue e pluriculturale, del quale Roma e l’Italia, e più tardi Costantinopoli, erano ancora i centri,[7] e di cui il primo Leone restava, in qualche modo, l’interprete qualificato.”
Essendo stato l’ultimo il conclave più cosmopolita e multietnico nella storia della Chiesa, non basta proiettare sul nemico esterno la responsabilità della crisi in atto.
Scusa delle “storture” sistemiche.
E come i suoi predecessori avrebbero fermato l’ elezione dei presidenti americani , russi ed israeliani ? Mi citi al di la’ delle parole cosa hanno concretamente fatto.
A parte che per fermare l’ elezione di Trump o di Netanyau Bergoglio avrebbe dovuto fare campagna elettorale per gli avversari di questi politici . Ve li immaginate un papa che fa propaganda per il candidato di un partito in una competizione elettorale ,?
Ma lei lo ha letto l’articolo? Quello che conta è leggere l’articolo prima di commentare.
L’antico papa Leone affrontava di persona, vis a vis i “barbari” e con la forza delle sue parole li faceva desistere dai lor piani id distruzione.
Quello che fa un leone fa appunto. Quindi seguendo le orme del suo predecessore dovrebbe andare personalmente a incontrare i nuovi barbari e con la potenza della parole del vangelo provare a farli desistere.