Raccontare la parrocchia /3

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Dopo aver illustrato perché è nato il «Progetto Parrocchie» nel Triveneto e in Toscana ed Emilia-Romagna e quale metodo di lavoro ha seguito; e, dopo aver individuato alcune resistenze sulla strada del rinnovamento, la terza parte elenca le 8 parrocchie coinvolte e, dal loro raccontarsi, fa affiorare alcuni segni che possono ridare vita alle comunità parrocchiali.

Prospettive di futuro

In questi tre anni abbiamo cercato di accompagnare i cambiamenti in atto nelle nostre parrocchie del Triveneto. Abbiamo fatto nostra la scommessa di EG 28 («La parrocchia non è una struttura caduca…, se è capace di riformarsi e adattarsi continuamente»): come passare da un modello tridentino di parrocchia a comunità missionarie?

Ci siamo impegnati non tanto a chiarire intellettualmente il significato di “parrocchie missionarie”, ma a cogliere i segni di rinnovamento che connotano già le comunità parrocchiali della regione Triveneto e si impegnano a renderle “generative” nonostante le difficoltà. Forse il termine “generativo” risulta il più adeguato per dire quello che abbiamo condiviso nei racconti.

Questo termine evita un rischio: quello di pensare che, accettata la fine di un modello, si tratti di elaborarne un altro, magari con una certa fretta per la nostra ansia pastorale.

Generatività non implica un nuovo modello di parrocchia, ma l’attitudine pastorale a promuovere vita, anche solo qualche piccolo germe, come i ciuffi d’erba che crescono tra le rovine.

Rinunciare a un nuovo modello è già una scelta importante, disinnesca attese inadeguate, pone in una prospettiva di gioiosa rinuncia al controllo, dispone al servizio dell’azione dello Spirito già presente e che ci precede (avviare processi più che possedere spazi).

Rispetto a questo desiderio di generare la vita che viene dal vangelo, abbiamo chiarito che essa va resa disponibile in due direzioni: come offerta di nutrimento della fede di coloro che appartengono alla comunità cristiana (i battezzati, nelle loro varie tipologie di appartenenza a cui le indagini sociologiche e i documenti ecclesiali di questi anni ci hanno resi avvertiti); come offerta di fiducia e di speranza per tutti coloro che abitano i territori geografici e umani dove è inscritta la comunità, pur senza aderire alla fede. Si tratta, per ricuperare una nota espressione di Theobald, di nutrire la fede discepolare, consapevole o abitudinaria che sia, e di favorire la fede elementare.

Entrambe queste offerte di vita sono “missionarie”, generative: la prima lo è perché aiuta a ridiventare ogni giorno credenti, rimanendo aperti all’inedito di Dio che sempre sorprende; la seconda è la forma di missionarietà caratterizzata da un interesse disinteressato che nasce semplicemente dall’amore per le persone, secondo lo stile di Gesù con le donne e gli uomini che incontrava. La prima mira a generare e a rigenerare la Chiesa come segno di testimonianza nel mondo, la seconda si pone gratuitamente a servizio del Regno.

Abbiamo ascoltato in questi tre anni 8 racconti di parrocchie o unità pastorali:

  1. L’unità pastorale Cristo Salvatore, 13 parrocchie della bassa Val di Non, presiedute da don Daniele, 40 anni. L’unità pastorale ha un unico Consiglio dell’unità pastorale, ogni parrocchia il proprio Comitato parrocchiale e il proprio Consiglio per gli affari economici.
  2. L’unità pastorale di Piove di Sacco (Padova), 10 comuni, inizialmente composta da 7 parrocchie. È una unità pastorale formalmente non riconosciuta, ma autocostituitasi “dal basso”, non senza qualche perplessità iniziale del vescovo, grazie alla sensibilità di don Giorgio proveniente da un’esperienza di fidei donum in Ecuador e appartenente a Libera.
  3. Il Progetto aule studio Arcella per studenti universitari, della parrocchia San Carlo della periferia di Padova, promossa dal viceparroco don Diego Cattelan, tesa a valorizzare edifici ecclesiali vuoti, non senza qualche resistenza o passività da parte del Consiglio pastorale.
  4. Il Progetto delle Comunità della Bra, che ripensa la presenza di quattro parrocchie tradizionali situate nel centro della città di Verona, progetto coordinato da don Ezio Falavegna in sinergia con i parroci e i diaconi permanenti implicati.
  5. L’esperienza singolare in tempo di Covid della Via crucis di vicinanza, tenerezza e compassione promossa dalla parrocchia Santa Maria del Monte Carmelo di Rovereto, diocesi di Trento, coordinata da don Rolando Covi e che ha coinvolto 13 voci di rappresentanti di istituzioni civili e ecclesiali del territorio, ognuna delle quali ha commentato una stazione della Via crucis.
  6. Il progetto “Un giardino al centro” promosso dai giovani del Consiglio pastorale della parrocchia di San Marco di Creazzo, diocesi di Vicenza, che ha coinvolto 14 associazioni per la custodia di un suolo inizialmente destinato alla costruzione di una nuova chiesa e diventato patrimonio civile, giardino di relazioni umane al di là delle appartenenze, secondo l’ispirazione di Laudato si’.
  7. L’organizzazione sinodale della parrocchia di San Cesario sul Panaro, diocesi di Modena-Nonantola, preparata da don Fabrizio e dal suo consiglio parrocchiale e ora presieduta don Luca Palazzi e dal Consiglio pastorale.
  8. I Gruppi ministeriali della diocesi di Vicenza, che abbiamo sentito raccontare e che abbiamo analizzato in questi giorni.

A questi 8 racconti va aggiunta la testimonianza di don Andrea Sech, parroco dell’Unità pastorale di Susegana, composta da quattro parrocchie, della diocesi di Vittorio Veneto.

Abbiamo ascoltato queste pratiche parrocchiali per individuare alcuni “passi concreti” che generano vita nelle nostre strutture a rischio di sterilità. L’espressione “passi concreti” è da sorvegliare. È legittima, perché la vita si genera con scelte precise, cose da evitare e cose da promuovere. Diventa ambigua quando cerca ricette da mettere in atto senza creatività e attenzione alla propria situazione.

La griglia che con pazienza in questi tre anni abbiamo applicato nella terza parte (orientare) andava alla ricerca dei germogli di vita da promuovere, senza pretesa, ma con passione e determinazione.

Quali germogli generativi abbiamo individuato?

Ne scegliamo alcuni dai racconti di questi tre anni, con l’obiettivo di fare memoria, necessariamente riduttiva, e rinfrancare il cammino.

Li raccogliamo attorno a 6 nuclei capaci di ispirare scelte concrete.

I. La ricerca dell’essenziale: la Parola di Dio e i poveri

«È nata l’esigenza di tornare all’essenziale, alla Parola, distaccandosi da apparati barocchi che si limitavano all’esteriorità del sacramento» (unità pastorale della Valle di Non).

«L’assenza di altre attività pastorali e di incontri in presenza ha permesso di concentrarsi maggiormente sull’essenziale, la Parola e i poveri» (Santa Maria del Monte Carmelo di Rovereto).

Questa scelta è emersa dai racconti come il primo elemento generativo e rigenerativo della fede delle nostre parrocchie. La sensibilità della diocesi di Trento a questo riguardo è esemplare. Essa è stata favorita dall’interruzione delle attività dovuta alla pandemia. Il Covid ha permesso praticamente solo due azioni: l’ascolto della Parola e la prossimità con le sofferenze delle persone. Si tratta delle due ragioni della presenza della Chiesa nel mondo.

Questa ricentratura sul discepolato attraverso la Parola di Dio ascoltata nelle Scritture e nelle sofferenze umane viene declinata negli 8 racconti parrocchiali in differenti modalità.

La costituzione del gruppo della Parola che prepara la liturgia della domenica, la preparazione a turno della preghiera dei fedeli da parte delle famiglie, la catechesi semplificata basata sulla storia di Gesù e il vangelo dell’anno liturgico (Val di Non), la costituzione della giornata della Parola di Dio nella comunità come attuazione della Dei Verbum (San Cesario), la lectio condivisa e l’offerta a tutti del commento del Vangelo della domenica (Bra). Ma anche: il rosario, che è la preghiera biblica dei semplici (unità pastorale di Piove di Sacco) e la Via Crucis delle sofferenze umane con il commento del Vangelo di ogni stazione (Rovereto).

Ogni passo che va in direzione dell’ascolto della Parola è generativo.

II. Le relazioni come stile qualificante della comunità

«È bello, oltre che utile, trovarci insieme. Andare oltre l’approccio strategico, organizzativo e funzionale, ponendoci invece le domande fondamentali che ci aiutino a essere “più comunità di Vangelo”» (Bra).

La qualità delle relazioni interne ed esterne della comunità è apparsa come il secondo elemento generativo e di revisione della tipologia e del senso delle proposte pastorali.

Anche in questo caso, è il Covid ad avere riportato a questa esigenza e domanda fondamentale, profondamente umana ed evangelica. All’interno della comunità, le esperienze più generative sono quelle che mettono in dialogo: i presbiteri tra di loro e con i loro consigli pastorali; i gruppi e le associazioni, rompendo così i compartimenti stagni; le parrocchie che compongono le unità pastorali.

Nell’intervento di don Erio Castellucci ci è stata data una chiave fondamentale: togliere la ministerialità dal solo aspetto funzionale (inteso come gestione delle esigenze dell’azienda, per quanto apostolica sia) e tornare a ciò che genera la comune fede e, contemporaneamente, la corresponsabilità: la fraternità e sororità che conduce all’apertura e alla testimonianza.

Questa priorità relazionale evangelica genera anche una solidarietà tra comunità, come abbiamo sentito nel racconto dell’esperienza dell’unità pastorale della Valle di Non, che istituisce un fondo comune di solidarietà tra le 13 parrocchie e si dota di un ministro gestionale unico per l’UP.

Ogni passo che va in direzione di una qualità relazionale evangelica è generativo.

III. La ridefinizione del ministero del presbitero e il suo stile di presidenza

«La sindrome del super-eroe ha lasciato pian piano spazio al desiderio di essere compagno di viaggio, che, anziché occupare il centro, fa spazio agli altri perché possano sentirsi parte viva di una comunità parrocchiale in cui ciascuno può mettere i propri doni a servizio degli altri» (San Cesario).

La conversione di cui si sono fatti testimone don Fabrizio e don Luca riassume il passaggio non facile nella ridefinizione della forma del ministero del parroco. Non facile, non solo per le mentalità dell’alto e del basso, ma anche per le restrizioni istituzionali e del Codice che fanno da sistema di blocco.

Eppure, i racconti hanno cominciato a delineare dei passi di cambiamento: la vita comune dei presbiteri di una stessa unità pastorale (Piove di Sacco, gruppi ministeriali di Vicenza), il dialogo tra presbiteri, diaconi e vita religiosa presenti sul territorio (Bra); la disponibilità a entrare in una storia in corso, prendendo atto del cammino della comunità che precede l’arrivo del presbitero e continuerà dopo di lui (Val di Non, San Cesario).

Rispetto a questo, è emersa una costante: nulla cambia in direzione della corresponsabilità se il parroco non la promuove, in un certo senso la forza, sottraendosi alle attese di un uomo solo al comando.

I casi più evidenti sono quelli delle parrocchie dell’Arcella, di Piove di Sacco, di San Cesario. In questo tempo di passaggio, sembra essere una scelta obbligata anche se di transizione, una scelta che il Progetto Parrocchia Toscana-Emilia Romagna aveva definito con l’espressione di “clericalismo buono”.

Ogni passo che va in direzione di una ridefinizione dello stile di presidenza del parroco in prospettiva di corresponsabilità è generativo.

IV. L’allargamento dei ministeri battesimali

«Nel nostro cammino arrivammo anche ad un’altra consapevolezza: la comunità parrocchiale si può rinnovare solo se si ripensa la gestione del potere in parrocchia. Finché il potere è nelle mani di un uomo solo al comando, la comunità rimane minorenne… Abbiamo deciso che la Giornata della Parola non sarebbe stata presieduta dal prete, ma da laici e laiche che, di settimana in settimana, si alternavano nel presiederla e nell’offrire alla comunità una riflessione sul vangelo» (San Cesario).

Le due esperienze della parrocchia di San Cesario e dei Gruppi ministeriali di Vicenza delineano profeticamente, ma concretamente, il cammino in questa direzione, affrontando anche i rischi e le resistenze che questo comporta.

La condivisione con il parroco della responsabilità pastorale, la capacità di suscitare ministerialità anche semplici, come il ministero dell’accoglienza, di metterle in dialogo tra di loro, la presidenza di alcuni momenti celebrativi da parte dei laici sono passi che si sono avviati concretamente nelle parrocchie.

Rispetto a questo, appare una costante: solo la capacità di custodire dei vuoti permette il nascere di nuove ministerialità. La “mancanza”, quando da emergenza obbligata diventa scelta libera (mancanza della presenza fisica del parroco, i suoi limiti fisici, la sua resistenza a occupare ogni spazio, lo stile di presenza “invisibile” dei gruppi ministeriali) suscita corresponsabilità e incammina le parrocchie verso comunità «senza parroco ma con un presbitero», secondo l’espressione provocatoria ma efficace di don Ivo Seghedoni.

Ogni passo che va in questa direzione è generativo.

V. La fiducia concessa ai giovani

«Ciò è stato possibile grazie all’empowerment che don Francesco ha trasmesso ad alcuni giovani laici che hanno tra i 25 e i 40 anni, che si sono sentiti di poter fare la differenza nel dare uno stile nuovo a iniziative di movimento popolare» (Creazzo, Un giardino al centro).

L’esperienza della parrocchia di Creazzo chiamata “un giardino al centro” è esemplare. Ma altrettanto è quella dell’Arcella di Padova, che realizza un progetto per i giovani (le aule di studio) con i giovani, rigenerando in questo modo la vita di una parrocchia in via di spegnimento.

Altre parrocchie, come quella di Piove di Sacco, valorizzano le competenze dei giovani nell’animazione dei gruppi parrocchiali e nell’utilizzo dei media.

Ci siamo detti in questi tre anni che l’assenza o presenza dei giovani è un criterio fondamentale della vitalità della comunità.

Ogni passo che va in questa direzione è generativo.

VI. La presenza nei territori geografici e umani e il dialogo con le istituzioni civili

«Una Chiesa che chiede aiuto, che si protende verso l’esterno, si espone per chiedere aiuto ad altre associazioni, anche – anzi soprattutto – laiche presenti sul territorio… Fin dall’inizio quindi abbiamo cercato di conoscere le persone responsabili delle altre associazioni e dell’Amministrazione. Ma anche di imparare da essi» (Creazzo).

«Dall’impegno di raggiungere i poveri e dall’impossibilità di farlo, siamo giunti a cercare il dialogo con chi già si occupa di forme di povertà sul territorio della parrocchia… più che inventare nuove proposte, la comunità ha cercato di abitare spazi e tempi reali, raccogliendoli intorno a una celebrazione, capace di dare voce ai territori umani già presenti. Abbiamo cercato di privilegiare la fragilità come elemento da cui partire per un cammino di Via Crucis» (Rovereto).

Tra tutti gli elementi emersi dai racconti, la contaminazione e la collaborazione con le istituzioni sociali presenti sul territorio a servizio delle persone nelle loro necessità sono parsi come i due motori rigeneratori che hanno sbloccato l’autoreferenzialità delle parrocchie e hanno avviato la sua rigenerazione. L’espressione “Chiesa in uscita” prende in questo modo il suo significato pregnante.

L’esperienza dell’Arcella ha saputo coniugare un forte bisogno del territorio (gli studenti in ricerca di aule studio) con le esigenze dell’Università e le iniziative del comune, guadagnando con pazienza credibilità e fiducia, stabilendo relazioni collaborative.

Si inserisce qui la riqualificazione intelligente di spazi e strutture ormai eccessive rispetto ai frequentanti delle parrocchie, ingestibili dal punto di vista economico, ripensate in prospettiva di servizio ai bisogni del territorio.

Il progetto della Bra ripensa le proprie strutture in centro città come luoghi di incontro e di servizio per le situazioni di fragilità (anziani, senza fissa dimora, badanti, giovani stranieri con lavori saltuari…).

Ogni passo che va in questa rigenera le parrocchie e le rende generative.

Conclusione

Alla fine di questo triennio di ascolto delle pratiche parrocchiali, abbiamo verificato quanto sia difficile il cambiamento, quanta pazienza richieda, quanta incertezza nelle scelte che ci stanno davanti. Non abbiamo trovato soluzioni chiare, uniche, definitive.

Cosa dunque abbiamo ricavato? Un metodo di discernimento, fatto insieme con pazienza. Questo metodo di ascolto attento delle pratiche in atto e di scelte piccole e audaci nella direzione di ciò che è generativo non si presenta come un pacchetto di soluzioni uniche, ma come una strada perché il cambiamento non resti sulla carta e ci aiuti a fare dei passi.

Ci consegniamo dunque, alla fine di questo triennio, un modo di lavorare. Questo modo di lavorare è un’espressione qualificata del cammino sinodale in atto nella Chiesa. Lo stile di discernimento sinodale sulle pratiche è più generativo di qualsiasi soluzione puntuale.

Dentro ogni cambio di epoca, la Chiesa cerca la strada per vivere e donare il vangelo. Questa è una buona strada perché è capace di rigenerare il soggetto Chiesa. La generatività, infatti, è nelle due direzioni: una Chiesa che riprenda vita e che torna ad essere capace di donarla.

È quanto abbiamo provato a fare insieme come équipe ed è quanto desideriamo possa diventare uno stile pastorale.

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3 Commenti

  1. Danilo Zandonella 28 settembre 2023
  2. Caterina Marchesi 24 settembre 2023
  3. Caterina Marchesi 24 settembre 2023

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