Brasile: Chiesa e comunità di base

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Quando celebriamo le Comunità di base, mi capita di pensare che ci sia un equivoco che va sottolineato, per favorire un dibattito e una ricerca fraterna di discernimenti pastorali. Infatti, anche decenni fa, non potevo fare a meno di osservare quanto le Cebs stessero cambiando e come, in questo lungo processo di presenza alla base della Chiesa, stessero esaurendo radicalmente le loro energie profetiche e liberatrici.

Il volto della Chiesa dell’Abya Ayala è rimasto sfigurato, segnato da una stagione di progressivo abbandono della profezia del Vaticano II e di Medellin e della profezia esistenziale delle Comunità di base: un nuovo modo di essere Chiesa di tutta la Chiesa latino-americana. Fu un tradimento restaurazionista, in cui soprattutto il clero fu complice di tre decenni di inverno ecclesiale romano.

Attribuire, però, la responsabilità dell’indebolimento delle Cebs alla dialettica che ha visto la vittoria istituzionale del ritorno alla grande disciplina non è sufficiente per comprendere il processo.

I mutamenti della società

Semplificheremmo la lettura se ignorassimo tutte le trasformazioni della società brasiliana negli ultimi cinquant’anni. Non si tratta solo di cambiamenti superficiali dovuti alla modernità, al mercato, alle nuove tecnologie: la televisione, in un primo momento, e la rivoluzione digitale in successione. Si è allargata a dismisura la distanza tra le vecchie e le nuove generazioni, che prima non erano mai state così lontane. Pensiamo inoltre alla caduta del muro di Berlino, 1989, un avvenimento di proporzioni e conseguenze inevitabili anche nel campo ideologico.

Già decenni fa, il mondo rurale tradizionale è stato aggredito da due processi ugualmente violenti: il latifondo illegale che invade la terra degli indigeni e dei contadini tradizionali e che contemporaneamente, obbligandoli a migrare a San Paolo e al Sud del Brasile, ha rubato la cultura e la memoria della terra dal loro cuore, seducendo al modo di vivere moderno e urbano. Terremoti culturali irreversibili.

La precarietà economica, l’aumento della povertà estrema, della disoccupazione, della fame e l’aumento della microcriminalità sono lo scenario che caratterizza il mondo rurale e urbano del nostro Paese, il Brasile, mentre le élites oligarchiche, industriali e politiche, i latifondisti dell’agribusiness, le aziende minerarie, gli speculatori finanziari e i rentier, parassiti del debito pubblico, sono rimasti ostinatamente fedeli alla loro identità colonialista, razzista e classista. Identità inossidabile a cui, oggi, come unica novità, si aggiungono risorgenze dei deliri neofascisti e neonazisti.

La valanga di cambiamenti storici – parliamo oggi, non a caso, di un cambiamento d’epoca – ha raggiunto, soprattutto e irreversibilmente, le soggettività, le emozioni, i sentimenti, le mentalità e i pensieri delle persone. E le soggettività sono per eccellenza il terreno in cui può svolgersi qualsiasi dialogo e anche il dialogo dell’evangelizzazione. Ignorare i cambiamenti in questo ambito non significa solo rinunciare a comprendere la realtà, ma, soprattutto, sabotare la costruzione di autentici rapporti umani ed ecclesiali. E rinunciare al discernimento pastorale.

Cambiamenti nelle comunità di base

Lungi da me contestare la fedeltà alla preziosa eredità delle Cebs da parte di innumerevoli laici, religiosi e religiose, preti e vescovi, perché si tratta di fedeltà al progetto della Chiesa popolare, sinodale, samaritana, serva del Regno di Gesù.

Non possiamo, tuttavia, essere fedeli ad un qualcosa che fingiamo che continui ad esistere inalterato fino ad oggi. L’assenza di qualsiasi relazione con un passato che non esiste più potrebbe coesistere con l’imperdonabile distrazione per la necessaria costruzione di nuove Cebs per il futuro. Se così fosse, come dubito, saremmo prigionieri di un limbo ideologico o confinati in un museo.

Come trarre vantaggio teologicamente dalla discrepanza tra la fedeltà al racconto liberatore e l’assenza dei processi pastorali che per anni l’hanno ispirata e confermata?

In breve, dopo un altro Incontro Inter-ecclesiale delle Cebs, dal 18 al 22 di luglio, Rondonópolis, MT – il quindicesimo – le statistiche dei partecipanti includono, oltre a 1.500 leader di Cebs provenienti da tutto il Brasile, 64 vescovi, 130 preti e 130 suore. Queste statistiche significative contrastano con l’assenza dell’esperienza e dell’ecclesiologia delle Cebs nella pastorale ordinaria di quasi tutte le parrocchie e nello stile pastorale della maggior parte dei sacerdoti e dei vescovi. Vedi, ad esempio, qual è lo spazio riservato alle Cebs negli orientamenti pastorali regionali e diocesani: nella migliore delle ipotesi, quando questa storia è minimamente rispettata, le Cebs sono accettate o tollerate come espressione di scarsa rilevanza tra le molteplici “espressioni ecclesiali”.

Un altro aspetto importante da sottolineare è che il ruolo delle Cebs come comunità di lotta per affrontare l’ingiustizia è stato progressivamente assunto da altri soggetti politici emergenti: i popoli indigeni, i quilombolas, le comunità contadine tradizionali. E questa insurrezione ha avuto luogo nelle campagne, ma anche nel mondo urbano. Sono indubbiamente i poveri e gli impoveriti dalla violenza colonizzatrice del sistema, ma sono anche e soprattutto i protagonisti profetici di una eredità ancestrale ancora vitale e generatrice di Vita.

In questo contesto, non abbiamo piú un protagonismo cattolico popolare, come nel caso delle Cebs, perché abbiamo una molteplicità di religiosità e di spiritualità coinvolte nel processo di riappropriazione dei propri corpi, territori, identità religiose e culturali e lotta contro lo stato e il sistema capitalista.

Macro-ecumenismo

Per questo sarebbe necessaria una radicale conversione pastorale. Tra noi, infatti, la distinzione conciliare tra ecumenismo e dialogo interreligioso è ancora egemonica, mentre nell’Abya Ayala, abbiamo cercato di andare oltre il paradigma conciliare. Inspirata da esperienze macro-ecumeniche, nel settembre 1992, durante il 1° Incontro Continentale dell’Assemblea del Popolo di Dio a Quito, in Ecuador, è nata questa nuova parola: macroecumenismo. Fu Pedro Casaldàliga a proclamare e a fondare questo sogno, insieme al teologo José Maria Vigil.  Parola nuova, che nasce dall’incontro con i popoli di Dio, portatori di culture, tradizioni, visioni del mondo e della terra, religioni e religiosità diverse.

È stata la scoperta di altre religiosità, aggredite, occultate e conculcate dal processo secolare della cristianità coloniale, che ci ha portato a ripensare e ravvivare il rapporto pastorale con gli indigeni, i caboclos, i neri, con la cosiddetta religiosità popolare. È stato l’ascolto dei contadini, delle loro lotte e resistenze, che ci ha portato – e ci porta – ad atteggiamenti autocritici delle dimensioni eurocentriche, ecclesiocentriche e coloniali di un certo cristianesimo. Sono i volti dei poveri e degli indigeni che ci risvegliano non solo alla sfida dell’uguaglianza, ma anche al diritto alla diversità culturale e religiosa.

Il macroecumenismo è assolutamente ortopratico: nasce dalla convivenza fraterna e difende la pratica di pregare e celebrare la vita in comunità – e lottare per essa – in presenza di spiritualità diverse.

Se fossimo davvero sulla via delle «comunità in uscita», potremmo, in questa alleanza di Gesù con Orixás ed Encantados, radicalizzare la pratica della sinodalità e andare oltre la sua indispensabile e urgente conversione intra-ecclesiale.  Anche oggi, infatti, solo l’alterità povera e colonizzata può essere l’antidoto efficace all’autoreferenzialità.

Anche in questo contesto, dobbiamo essere attenti al rischio di mitizzare popoli e comunità in processi di insorgenza. Possiamo, se riconosciuti e accolti, attenti alle dimensioni oggettive della lotta, seguire i processi di organizzazione, articolazione e mobilitazione, senza però abbassare la guardia e dimenticare che la soggettività è un capitolo essenziale della comprensione critica delle nuove sfide poste da questo innegabile e rinnovato protagonismo.

Corpo-terra

Un esempio dell’importanza teologica dell’attenzione dovuta alle soggettività ci viene offerta dalla biografia di una femminista della regione di Xapalan, in Guatemala: Lorena Cabnal, originaria dei popoli indigeni Maya e Xinka. Femminista comunitaria territoriale, donna di lotte, ha contribuito all’organizzazione indigena delle donne Xinka, e alla formazione di un fronte di lotta contro l’estrazione mineraria nel dipartimento di Japala.[1]

La lotta di Lorena Cabnal è sostenuta da due pilastri: «il mio corpo è il mio primo territorio da difendere» e «la difesa del territorio corpo-terra», sostenuta da una cosmogonia che nasce dalla sensibile comunione di tutti gli esseri viventi. Una spiritualità assolutamente alternativa alla filosofia occidentale.

Ciò che mi sorprende del discorso di Lorena è l’affermazione che l’eredità ancestrale non può essere mitizzata manicheamente, come il bene assoluto contro il male estremo della distruzione e dell’oppressione coloniale. Nel contesto del confronto anticoloniale con il capitalismo predatorio e lo stato, vede anche la necessità di affrontare contesti originari e tradizionali. Parla di patriarcati multipli.

Esiste il sistema patriarcale che è arrivato con i conquistatori iberici, ma «c’è un patriarcato ancestrale originario e per noi è importante svelarlo da quel luogo di enunciazione che è la terra dove siamo nati, con le molteplici oppressioni del sistema patriarcale. Perché è il sistema patriarcale originale che è nato prima della colonizzazione. È una forma patriarcale che ha una configurazione diversa. Il patriarcato ancestrale originario ha una sua temporalità, un suo contesto, un suo modo di manifestarsi. Il machismo che esprime un uomo indigeno non è lo stesso machismo che esprime un uomo urbano, un uomo bianco, un uomo europeo, un uomo nero.

Non è la stessa cosa. I fondamentalismi etnici hanno altre configurazioni e operano in modo diverso. Ecco perché è molto difficile per noi raggiungere le comunità e parlare di genere, perché il genere difficilmente attraversa i corpi delle donne indigene. Possiamo anche svelare, interpretare e dire alle sorelle e alle compagne indigene di capire il genere nel castigliano coloniale. Impariamo dalla memoria e ripetiamo, e se ci insegni come si scrive, scriviamo. Ma quando portate il corpo, toccate il sangue, toccate la terra, questo è ciò che sente, perché siamo corpi cosmo-senzienti. Questo patriarcato coloniale occidentale non è venuto da solo.

Ricordiamoci che c’erano già colonizzazioni in Africa, e hanno portato corpi schiavi, corpi neri. Ma con questi corpi neri schiavizzati che portarono in queste case arrivò anche una forma patriarcale africana ancestrale. Ecco perché il machismo afro ha anche i suoi modi, temporalità e contesto. Credo che tu debba sentire queste altre dimensioni politiche della corporeità e le loro storie».

Le soggettività sono così importanti che anche i sogni notturni diventano temi identitari. Ricordo con nostalgia un incontro di qualche anno fa con gli agricoltori urbani del villaggio di Engenho, São Luís do Maranhão, in cui la comunità uscì allo scoperto e iniziò il processo di riaffermazione della sua identità indigena, nascosta per decenni. I Tremembé, in quell’occasione, parlarono dei loro sogni. E sognavano come indigeni.

Insomma, l’incessante ascolto della realtà, che si rivela sempre più complessa e impegnativa, sostenga il nostro discernimento e il nostro cammino!


[1] Claudia Korol, Femminismo comunitario di Iximulew-Guatemala.  Dialoghi con Lorena Cabnal, articolo che riunisce conversazioni con Lorena Cabnal avvenute in Argentina, durante le attività di Pañuelos en Rebeldía originariamente pubblicato nel libro “Diálogo de saberes y pedagogía feminista: educación popular”, compilato da Cláudia Korol, pubblicato da América Libre, a Buenos Aires, 2017. Traduzione: Luiza Dias Flores, Recensione: Indira Cabalero.

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