Catechista, testimone credibile

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testimonianza

I due seminari de “La bottega delle idee”[1] hanno portato alla realizzazione del convegno dei direttori degli Uffici Catechistici Diocesani (Roma, 30 giugno-2 luglio). Il tema – “Catechista testimone credibile” – potrebbe essere uno di quegli ambiti scontati, ma accoglie la fatica delle comunità ecclesiali, la scoperta di una pastorale frammentata e automatismi andati in crisi.

C’è bisogno di porsi le domande giuste per generare la vita di fede delle persone.

Intreccio il lavoro di rilettura delle giornate soffermandomi sul testimone, per passare alla credibilità e approdare al catechista.

Testimone

Termine usato e abusato in tanta formazione e predicazione è certamente quello di “testimone”. Ogni volta che lo risento mi lascia un senso di vuoto e di inutilità, è l’inizio tante esortazioni: “Il testimone è…” e chiude brillantemente gli inviti: “Siamo chiamati ad essere testimoni…”.

Don Cesare Pagazzi, docente al Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II, ha aiutato con un linguaggio sottile a restituire il potere di rendere visibile la realtà incarnata di Dio. Il nostro essere a immagine di Dio è il nostro stare con gli altri nella corrente dell’amore, cioè quella sfaccettatura della vita di Dio che cerchiamo di cogliere.

La forza dei sensi

Partendo da un dettaglio della celebrazione battesimale, egli ha mostrato come siano coinvolti molti sensi. Primi fra tutti, vista e udito.

Ma un altro senso più immediato è presente ed è il senso del tatto che è a tutti gli effetti un senso della fede. Abbiamo fatto una teologia della fede appoggiata sulla vista o sull’ascolto. E guardiamo al tatto come ad una realtà meno coinvolgente.

Il modo con cui trattiamo Tommaso, nel suo bisogno di toccare, di mettere il dito nel posto dei chiodi e nel costato di Cristo (Gv 20,25) dice che non diamo molto spazio al valore del toccare. Attenzione a denigrare la fede di Tommaso che intende toccare, perché il Cristo o è tangibile o non è vero. Purtroppo leggiamo Tommaso non tenendo in considerazione la portata teologica dell’intenzione dell’editore che è la Chiesa. Se rispetti l’intenzione della Chiesa, ti leggi tutto Mt, Mc, Lc e Gv, e scopri che il tatto è un “senso” della risurrezione.

Le donne «gli abbracciarono i piedi e lo adorarono» (Mt 28,9). Ai discepoli dice: «Toccatemi e guardate» (Lc 24,38). In Gv è Tommaso che prende l’iniziativa (Gv 20,25).

Il tatto è a tutti gli effetti un senso della fede. Occorre cambiare la gerarchia dei sensi della fede, prima si tocca, poi si vede; prima si tocca, poi si sente. Il toccare è un senso che funziona sempre in reciprocità. Il tatto è il legame costante che abbiamo con il mondo. La fede è più che ascolto e vista.

Ma, nel percorso di fede, si può insistere su un altro senso ancora meno considerato: il dono dello Spirito attraverso l’unzione del crisma, che è un olio profumato. L’olio profumato ci porta nel mondo di un altro senso, l’olfatto.

L’esperienza di vita ci dice che un bambino appena nato distingue la madre da tutte le altre donne grazie all’olfatto. È il senso che ci libera dal sentirci abbandonati. È un senso speciale, perché ci abilita a captare una presenza altrimenti non percepibile.

Anche l’olfatto ha le sue ambiguità, può generare una chiusura verso tutto. Quando usiamo verso qualcuno l’espressione: “ha la puzza sotto il naso”, manifestiamo questo senso di distanza.

Quale sarà stato il profumo di Cristo? Avrà avuto il profumo delle fragranze dei ricchi con cui andava a mangiare, quello maleodorante dei poveri o quello acre dei morti? Sarà stato il profumo di tutto il mondo.

I bambini e i catecumeni sono profumati nel battesimo, e sanno del profumo di Cristo. Il profumo che abbiamo indosso è efficace anche se invisibile. È contagioso.

Questo vale anche per il testimone. Sono testimone perché “so” Cristo, ma anche perché “so” di Cristo, dal giorno del mio battesimo. In tal senso, possiamo pensare che ci siano più testimoni di quelli che immaginiamo.

Elia sull’Oreb si vantava di essere il solo a rendere ragione della presenza di Dio (1Re 19,10). Il Signore gli rimprovera il fatto che vi sono più testimoni di quelli che lui immagina e pensa. Anzi, ti ho già trovato il sostituto, Eliseo, a cui devi passare il testimone (1Re 19,19-21).

L’eredità della testimonianza

Qui si innesta l’esperienza comune dell’eredità. Eliseo eredita da Elia il compito della testimonianza. Lasciare l’eredità o ricevere l’eredità, è un’esperienza che caratterizza tutta la famiglia umana. È interessante che le sacre Scritture abbiano visto nell’eredità una pratica e un vocabolo rivelativo.

L’eredità è un fatto veramente misterioso, perché arriva sulla soglia della vita e della morte. Chi passa l’eredità deve essere consapevole che lui stesso passa. Come testimoni ammettiamo la nostra morte: «insegnaci a contare i nostri giorni» (Sal 89,12).

La nostra generazione è una generazione che passa, per lasciare a qualcuno una cosa che consideriamo vitale. Se a un erede lasci una casa vincolata, gli lasci qualcosa che gli inibisce la vita. Si ereditano i soldi, ma anche i debiti.

Come Chiesa, lasciamo in eredità il buon nome dei martiri delle origini e dei martiri quotidiani, ma anche lo scandalo della pedofilia.

Come testimoni, si è disposti a morire perché qualcun altro riviva? Se non si accetta questo vuoto, non si eredita. In ogni caso, attenzione a usare con troppa facilità la parola testimonianza. Se la prendiamo seriamente, significa passaggio, cioè pasqua.

Lasciare un Dio credibile

Per lasciare qualcosa che abbia valore, dobbiamo lasciare un Dio credibile. La nostra credibilità è la credibilità di Dio. Forse per eccesso di zelo, per troppo tempo abbiamo pensato di lasciare in eredità un Dio saturante, che non ti fa mai sentire la mancanza, non ti fa mai sentire abbandonato. Ma è invece vero che la Bibbia è piena di gente che lamenta l’abbandono di Dio.

Nella predicazione a volte si presenta un Dio che non abbandona mai, ma non è vero. È vero invece che non tradisce mai. Si deve prendere sul serio il formidabile senso di abbandono che regna nel cuore dell’uomo. I peccati sono il senso maldestro del nostro abbandono.

I segni di questi anni: pandemia, guerra, recessione economica hanno chiamato in causa Dio. O si dice che Dio non c’entra niente o si deve dire che la nostra fede ha qualcosa da dire. Ed è così. La nostra fede ha qualcosa da dire. Perché Dio è:

  • Come un uomo che getta il seme sul terreno… e poi se ne va (Mc 4,26)
  • Un uomo piantò una vigna… la diede in affitto a dei contadini e poi se ne andò (Mc 12,1)
  • È come uno che è partito per un viaggio dopo aver lasciato la propria casa e dato il potere ai servi, a ciascuno il suo compito (Mc 13,34)
  • Un uomo, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni (Mt 25,14)
  • Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno (Lc 10,35). Il samaritano assiste e poi se ne va.

Dio c’è e va. Viene e va. Non ci tradisce, ma ci lascia. Questo crea un senso di abbandono, di tristezza e angoscia. Senza questo vuoto che Dio ci fa provare, noi non impareremmo mai a giocarci la vita.

Abbiamo bisogno di una generazione cristiana capace di reggere i vuoti che Dio stesso procura. Senza questi vuoti, non ci sarebbe la realtà più grande che è la speranza, capace di produrre la carità. Al Dio che abbandona si deve pur dire: «Non ci abbandonare fino in fondo» (Dan 3,34).

Ricomposizioni

La missione non può essere confusa con la restaurazione di una civiltà cristiana omogenea. Se la cristianizzazione dell’intera società diventa l’obiettivo della nostra presenza nel mondo, perdiamo ogni credibilità. La Chiesa non è chiamata a inglobare gradualmente il mondo. La coincidenza tra Chiesa e mondo non è una realtà storica ma escatologica.

Finché il mondo durerà, la Chiesa vivrà in diaspora. «Il problema non è che siamo pochi, ma che siamo insignificanti. Penso che la preoccupazione nasca quando noi cristiani siamo assillati dal pensiero che possiamo essere significativi solo se siamo una massa e occupiamo tutti gli spazi» (papa Francesco in Marocco nel 2019).

Nando Pagnoncelli, sociologo e amministratore delegato di IPSO Italia, ha mostrato in modo chiaro che la catechesi è in prima linea nello sperimentare tutta la forza di questo allontanamento della società secolarizzata della fede cristiana.

Sia la società sia la religione stanno subendo delle ricomposizioni che interferiscono e si condizionano a vicenda. La religione, pur salvando il trascendente, ha aperto lo spazio per un mondo secolare, autonomo, che non ha bisogno di Dio. Allo stesso tempo, grazie alle scienze, la proposta cristiana è stata aiutata a liberarsi dal pensiero magico.

Si osservano fenomeni come la privatizzazione e l’individualizzazione delle credenze, l’appartenenza senza credenze. Non esiste una storia lineare, ma piuttosto sviluppi imprevedibili, almeno in parte a zig zag. Si assiste a una divaricazione crescente tra la dimensione individuale e l’appartenenza a una comunità più ampia. Uno scisma tra l’io e il noi che ha a che fare con il tema dei diritti e dei doveri.

C’è stata un’accentuazione dei diritti individuali, e questo aiuta a capire che il più delle volte l’individuo pensa che ogni scelta riguardi solo lui. Non può essere così, perché siamo inseriti in un contesto sociale. Questa asimmetria tra la dimensione individuale e la comunità più ampia condiziona i comportamenti.

Altro aspetto rilevante è la frammentazione identitaria segnata dal venir meno della condivisione dei sistemi valoriali. Anche tra i credenti c’è una scelta di valori che sono più o meno in linea col proprio stile di vita.

Prevale nettamente l’emozione sulla razionalità. Il tema della paura guida sempre più la vita delle persone. C’è una netta prevalenza della percezione dei fenomeni rispetto alla loro realtà.

Tutto questo porta ad avere una forte diffidenza. Viviamo una fase nella quale si sono accentuati atteggiamenti negativi, si guarda al futuro con incertezza.

Cosa fare in queste condizioni

Senza la pretesa di offrire ricette, a partire da questo quadro due sono gli aspetti richiamati e richiesti:

  • saper guardare all’interesse generale e non a quello di parte
  • avere lo sguardo lungo, evitando di lavorare sul presentismo.

Questo chiede di avere il coraggio dell’impopolarità. Si diventa credibili nei nostri contesti se siamo:

  • disinteressati, agendo senza secondi fini
  • generosi e coerenti, evitando la doppia morale
  • capaci di ascolto, facendoci carico delle pene e delle contraddizioni dell’altro.

Dio ha bisogno della sua Chiesa per farsi conoscere. Ha bisogno di comunità che siano sacramento del suo amore attraverso l’ascolto della Parola, la celebrazione della liturgia e quell’annuncio che sa essere attento alla storia delle persone.

L’incontro non è solo un mezzo tattico per convincere l’altro. Se è autentico, l’incontro è esso stesso fecondo di testimonianza.

È l’amicizia che evangelizza. Bisogna vivere con qualcuno prima di predicargli la parola cristiana. Ogni cristiano deve guardare a ogni essere umano come ad un fratello amato.

È importante formare un uomo dallo spirito aperto, capace di svilupparsi in più di una direzione. Non si è ancora superata l’idea dell’educare come puro in-struire, mettere dentro uno spazio vuoto nozioni necessarie ad affrontare delle prove. Si danno a tutti gli stessi elementi per realizzare un progetto stabilito a priori, invece di capire quale progetto ciascuno può e vuole realizzare.

Formare un uomo dallo spirito aperto, significa che viene prima l’uomo delle sue prestazioni. Maturo è chi sa stare di fronte alla realtà, misurandola e misurandosi con la massima apertura senza soccombere o fuggire, ma trovando soluzioni personali.

Catechista

Entra pienamente a questo punto la figura del catechista che ha valore per il suo essere per via.

Alessandra Augelli, docente dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha dato forza all’essere “viator”. «La più potente forza di educazione consiste nel fatto che io stesso, cioè, io educatore, in prima persona, mi protendo in avanti e mi affatico a crescere. Sta proprio qui il punto decisivo. È proprio il fatto che io lotto per migliorarmi che da credibilità alla mia sollecitudine pedagogica per l’altro» (Romano Guardini, Persona e libertà).

Il catechista dunque è, un homo viator, una persona in cammino. E questo significa stare nei confronti dell’esistenza, della realtà, e di Dio come chi si rende conto dell’impossibilità di ridurre tutto a conoscenze quantitative o a questioni pratiche.

La vita e il Dio che abita la vita sono un terreno che si esplora, che si attraversa e dove cogliamo tracce di senso, ma non afferriamo mai pienamente il tutto. Più che una spiegazione della vita e della fede che nasce e si sviluppa nella vita, vi è una partecipazione ad essa.

Le persone che i catechisti incontrano non si aspettano che gli venga spiegato come vanno le cose, ma che partecipino alla loro vita e alla vita in generale. «Non esercitare tutto il potere di cui si dispone vuol dire sopportare un vuoto. Ciò è contrario a tutte le leggi della natura: solo la grazia può farlo. La grazia colma, ma può entrare soltanto là dove c’è un vuoto a riceverla; e quel vuoto, è essa a farlo. (…) Accettare un vuoto in sé stessi è cosa sovrannaturale» (Edith Stein).

Questo significa anche che il testimone non risolve problemi (i problemi del secolarismo, dei bambini che non vanno a messa, delle coppie che non si sposano ecc…) e non cerca soluzioni – magari calate dall’alto estromettendo i soggetti – ma sta in relazione ad un mistero. Si tratta di camminare nell’esistenza e di creare intimità con quel mistero a cui io appartengo.

È importante portarsi dentro un pensiero interrogante. Il testimone/catechista è chi impara a porre domande “giuste”, ma il “banco di prova” di queste domande è sé stesso: se quella domanda intriga anche me, mi coinvolge, mi sollecita, allora vale la pena di essere condivisa. Consapevole, però, che, essendo domande di senso, le risposte sono sempre provvisorie e mai definitive.

Bisogna saper ascoltare l’altro non come uno fra tanti, ma nella sua singolarità originale, sospendendo ogni interesse per altre cose. È importante sostare davanti ai momenti di vita densi e carichi di domande di senso per trovare risposte “sensate”. E poi, fiducia nella Provvidenza, nella “grazia”.

Mentre si è per via, non solo predisponiamo dove arrivare, ma quale esperienza rendiamo possibile. Il “presente” è un dono.

Una suggestione

Il convegno, dopo tre anni di assenza, ha visto la partecipazione del 50% dei direttori delle diocesi italiane. Notevole il cambio di direttori, ben 81 sulle 225 diocesi italiane. Abbassamento notevole dell’età. Pochissimi quelli impegnati a tempo pieno nell’Ufficio Catechistico Diocesano. Alcuni sono sembrati spaesati di fronte alle problematiche da affrontare, con scarsa conoscenza del progetto catechistico italiano, ben tratteggiato da Luciano Bedini vescovo di Gubbio e Città di castello.

Hanno dimostrato poca dimestichezza con il tanto che è avvenuto in questi anni a livello di evangelizzazione, fatica nell’individuare i passi da compiere, ricerca di qualche ricetta o risposta preconfezionata.

È davvero il tempo di pensare che la ministerialità trasbordi decisamente sul versante dei laici, pensandoli responsabili non di un compito a cui si demanda un servizio che i presbiteri non hanno più la possibilità di garantire, ma di un’assunzione di responsabilità condivisa. Non ci nascondiamo che è un processo che deve avvenire nella gradualità, e certamente un primo passo richiede che si costituisca l’équipe diocesana della catechesi.

È importante che già all’interno di queste esperienze formative nazionali si sperimenti il valore aggiunto del cercare e lavorare insieme. Lavorare come battitori liberi non è più possibile. E nemmeno la buona volontà è sufficiente.

Si chiede alla catechesi un ritorno all’essenziale, una riformulazione del suo linguaggio, l’annuncio di una gioia che unisce in modo indissolubile le parole di Dio e le parole umane. Si tratta di considerare la vita umana come alfabeto di Dio.


[1] Cf  SettimanaNews, 3 maggio 2022.

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Un commento

  1. Enza 22 luglio 2022

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