Non senza te

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pastorale

I preti diminuiscono e anche la comunità cristiana, nel suo complesso, si sta riducendo. Queste sono affermazioni più che note che innescano riflessioni sul futuro delle parrocchie, della pastorale e via dicendo.

Alle prime due considerazioni spesso non si aggiunge una conseguenza – e cioè che, a fronte di queste diminuzioni, succede sempre più spesso che nel contesto familiare, amicale, lavorativo, la probabilità di incontrare cristiani è sempre più bassa.

È una considerazione quasi tautologica perché sembra non aggiungere nulla. Le diverse ipotesi di annuncio, di organizzazione della vita parrocchiale, le considerazioni sul significato della parrocchia oggi, hanno proprio questo di sfondo: il mondo cui annunciare è sempre più vasto.

In questo orizzonte di ragionamento siamo, appunto, di fronte agli altri, lontani, critici e talvolta ostili, a seconda delle sensibilità. In ogni caso, l’immagine è di un gruppo che è fuori, mentre noi siamo dentro.

Un cattolicesimo minore

Sostare, invece, sulla minorità della comunità credente dal punto di vista personale cambia un po’ le cose. Dalla famiglia in poi è difficile considerare il non credente, secondo tutte le sfumature pensabili, come altro, perché, per altri aspetti, condivide con noi momenti che ci definiscono, che strutturano la nostra esistenza.

Dopo aver scoperto l’acqua calda, forse può essere utile approfondire un poco.

Come mi rapporto? La risposta da manuale che testimonio la carità ecc., ma basta? O meglio: l’espressione stereotipata esaurisce l’esperienza?

Innanzitutto, gli altri in questa prospettiva sono l’altro (un maschile inclusivo per non tralasciare alcuno): un volto preciso, una storia, più o meno condivisa, ma soprattutto il rapporto non è sempre un faccia a faccia, che è in fondo la situazione supposta dal testimoniare: l’altro che guarda è anche uno con cui si sta fianco a fianco, con cui condividiamo un ambiente, perché siamo, appunto, familiari, amici, colleghi e via dicendo.

Così, benché attenti e desiderosi di rendere testimonianza, siamo un po’ più nudi di fronte all’altro: la difficoltà nel vivere la nostra vita di fede, le incongruenze sono lì, viste per forza di cose da chi cammina con noi. La comunità ci difende da questo e nelle riflessioni parliamo di categorie, qui no.

Questa nudità è però anche un serio aiuto per noi che crediamo e che sinceramente desideriamo annunciare il Vangelo, perché ne vediamo bellezza. In questa situazione la nostra debolezza brucia, ma, nello stesso tempo, ci aiuta a dire con verità: non guardare me, ma volgiti verso il Signore.

Accade anche che chi vive con noi attinga poi alla sua esperienza esistenziale per aiutarci, consolarci e magari per sostenerci nel momento in cui tra noi e la nostra vita di fede c’è troppa distanza.

Se riflettiamo su questa esperienza siamo portati ad approfondire il significato dei valori e il loro rapporto con la fede cristiana di salvezza.  Molte teologie su questo, ma nel quotidiano vivere si intuisce come l’annuncio di salvezza passa per i cuori di molti, e la fede è salvifica perché li sostiene e li corrobora. Il vivere entra in una dimensione relazionale, vera fonte di senso per il credente. E ci si trova, così, a rammaricarci perché l’altro non può attingere a tale ricchezza, senza rendercene conto viviamo la compassione di Gesù, che li vide come pecore senza pastore.

Certo nelle relazioni brevi non sono annullate le molte distanze di cui trattiamo nelle riunioni in parrocchia.

Questione di stile

Potremmo applicare il principio di don Milani: «Il giorno che avremo sfondato insieme la cancellata di qualche parco, installato la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordati Pipetta, quel giorno ti tradirò, quel giorno finalmente potrò cantare l’unico grido di vittoria degno di un sacerdote di Cristo, beati i poveri perché il regno dei cieli è loro. Quel giorno io non resterò con te…» .

In realtà, sappiamo bene che oggi non è solo questione di impegno sociale, ma di stile di vita, con scelte che spesso per i credenti sono scelte drammatiche ed errate.

I nostri familiari, e gli altri, non ci chiedono aiuto e neppure di intavolare un dibattito teorico.

In alcuni casi possiamo e dobbiamo fare lo sforzo di indicare un’alternativa, senza semplicemente indicare un comandamento o segnalare divieti. E poi non ci rimarrà che essere spettatori inermi. Non sarà questo il momento in cui potremo sforzarci di cogliere la verità esistenziale di ciò che purtroppo è diventata solo la “posizione della Chiesa”?  Chi sa del nostro credere non mancherà di indagare sulle ragioni di alcune affermazioni e di mostrarci incongruenze, alcune apparenti, altre forse meno. E, in questo caso, vivremo la fatica della comunione ecclesiale: ogni credente è la Chiesa tutta. E sarà così l’occasione per ascoltare, essere messi in una felice crisi, che ci farà rimotivare la nostra sequela.

Nel “camminare con” sperimenteremo come, riferendoci agli  “altri”, possiamo pensare a caratterizzazioni molto più stereotipate che non quando incontriamo l’altro. Pure questa è un’ovvietà, ma quanto diventa luogo di riflessione pastorale?

Il tema è proprio questo: il nostro vivere quotidiano non può diventare luogo serio, luogo di attenzione pastorale? Domanda un po’ più articolata che non la semplice coerenza negli ambiti di vita. E potrebbe avere ricadute anche sulla vita pastorale già strutturata.

In un incontro sul futuro della Chiesa – ci limitavamo alla nostra città –, è stata riportata questa frase pronunciata in un consiglio pastorale: «Se rinunciamo alla festa patronale (con tutto il lavoro che comporta, ndr.) finirà che accoglieremo i matrimoni gay».

Quale vita comunitaria?

Ciò che qui interessa è il legame tra la festa e l’esito. Esagerazione che però aiuta a comprendere come una serie di abitudini impegnative siano percepite come fondanti e  lasciarle creerebbe il vuoto.

E se invece pensassimo a una vita comunitaria attenta a non sequestrare il tempo, ma che lascia ai pochi cristiani che desiderano fare della propria vita una testimonianza il tempo per “stare con”, nella normalità della vita fatta anche di “caffè al bar”? Per essere lievito, se vogliamo.

La vita comunitaria potrebbe aiutare a custodire una spiritualità, ad approfondire tematiche per essere sempre presenti con la propria fede e capaci di dire parole comprensibili a tutti. Il confronto personale e l’approfondimento aiuterebbero i cristiani, soprattutto i più giovani, a osare alcuni ambiti di impegno, di studio e lavorativo anche se non immediatamente rassicuranti perché “a servizio”, anzi magari impegnativi per le sfide etiche che prospettano.

D’altra parte, i molti che svolgono lavori normali – come si dice – potrebbero ricevere un incremento di senso a partire da questa prospettiva del volto singolo.  E si eviterebbero quelle vite in apnea: otto ore di lavoro per poi vivere in casa e parrocchia. Qui arriviamo quasi a una dimensione politica. Il “camminare con” non ci farà più partecipi delle vicende della società, senza delegare ai vescovi e ai parroci le riflessioni?

C’è una dimensione di equilibrio che non si può indicare: è lo spazio della specificità di ciascuno, per come si è fatti, per dove si vive… Vengono in mente tanti arredi sacri, meravigliose opere di cesello: a esse possiamo paragonare il nostro vivere con l’altro, prezioso insieme di piccoli gesti la cui bellezza è nel segreto del Regno di Dio, che qui inizia.

Fuori di noi

Postilla non scientifica: siamo nel 2022 e dobbiamo ricordare che molti dei “lontani” sono persone che si sono allontanate, o figli di persone allontanate. Il peccato originale è di tutti, ma, come in ogni epoca, se la cristianità cambia, si riduce, è proprio solo responsabilità di chi non ha trovato nel catechismo, nella routine liturgica, nella proposta spirituale e nei buoni pensieri la risposta alle domande che ciascuno ha?

E ancora una volta la vicinanza fa vivere il dispiacere per i percorsi di altre religioni e filosofie che molti imboccano, cercando la via della giustizia, della bellezza e della bontà, semplicemente perché non l’hanno trovato nella via ecclesiale.

Qualcuno penserà che quanto sin qui detto è sbilanciato verso una visione buonista, ed è un po’ così. Solo Gesù, però, conosceva i cuori e poteva permettersi rimproveri severi. La Chiesa, madre, non dovrebbe porre attenzione al buono, in attesa che la zizzania sia estirpata a tempo debito?

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