Francesca Albanese presa sul serio

di:
albanese

Francesca Albanese (Photo by Mauro Scrobogna / LaPresse)

Parlare di Francesca Albanese è complicato, perché è uno di quei casi in cui – per parafrasare il sociologo Manuel Castells – il messaggio si sovrappone al messaggero. La relatrice speciale dell’Onu per i territori palestinesi è utile alla causa che difende, cioè i diritti dei palestinesi e la denuncia dei soprusi di Israele? O è dannosa?

Le sue prese di posizioni radicali rivelano coraggio, come dicono i suoi estimatori, o tradiscono un antisemitismo di fondo, come sostengono i suoi detrattori? Anche a prescindere dai giudizi sul personaggio, quello che Francesca Albanese dice ha un valore, è interessante, è utile? O è una forma di attivismo da prendere come tale, e non come una autorevole censura che arriva dalla più internazionale delle autorità, cioè le Nazioni Unite?

Sono tutte domande complicate ma alle quali diventa più urgente rispondere ora che il dipartimento di Stato americano, come annunciato dal segretario di Stato Marco Rubio, ha deciso di sanzionare Francesca Albanese in risposta a un report che ha pubblicato pochi giorni fa dedicato alle responsabilità delle aziende – anche americane – nel genocidio di Gaza. Perché Albanese non ha mai avuto dubbi a classificare quel massacro come «genocidio».

Proviamo a mettere in fila le cose.

Guai a toccare Netanyahu

Il punto più semplice da chiarire riguarda il ruolo dell’amministrazione Trump.

Alla Casa Bianca hanno deciso che non si può in alcun modo usare la giustizia internazionale per chiamare Israele, e in particolare il suo premier Benjamin Netanyahu, a rispondere di quello che sta facendo a Gaza, che lo si chiami guerra, sterminio o genocidio.

Gli Stati Uniti non hanno mai firmato lo statuto di Roma e dunque non hanno mai riconosciuto la legittimità della Corte penale internazionale dell’Aja, quella che persegue gli individui e non gli Stati.

Ma qui siamo a una posizione più radicale: al tentativo di impedire alla Corte di esercitare la sua autorità anche dove in teoria ce l’avrebbe, perché per una serie di complesse ragioni storiche e giuridiche Israele, o meglio la Palestina, rientra nel suo mandato.

Non solo: gli Stati Uniti di Trump vogliono impedire a qualunque soggetto terzo di fare pressione su Israele sul piano della giustizia internazionale. E così, dopo aver sanzionato le giudici che hanno chiesto l’arresto di Netanyahu, oltre al procuratore generale Karim Khan, ora Rubio e Trump sanzionano Francesca Albanese perché nel suo report e in una serie di lettere indica una possibile responsabilità penale di fronte alla Corte dell’Aja per le aziende che traggono profitto dalle operazioni militari a Gaza.

Questo significa che Francesca Albanese quasi certamente non potrà entrare negli Stati Uniti e non può avere rapporti con entità americane. Una posizione così drastica dell’amministrazione Trump finisce per minare in modo strutturale la credibilità della Corte penale, perché chiunque osi rispettarne le richieste può finire sulla lista nera degli Stati Uniti ed essere addirittura sanzionato.

In teoria, se Netanyahu arrivasse in Italia, il Governo Meloni dovrebbe farlo arrestare, ma qualcuno pensa che oserebbe farlo?

La relatrice poco diplomatica

Veniamo adesso a Francesca Albanese. Il suo ruolo di special rapporteur, relatrice speciale, va decifrato: non è una funzionaria dell’Onu, non parla a nome dell’intera organizzazione, non ha poteri di intervento, ma viene delegata a occuparsi di una specifica area geografica, ha un mandato per fare ispezioni e, soprattutto, ha un marchio di legittimità che le garantisce credibilità e visibilità.

Quando Francesca Albanese denuncia le malefatte di Israele, insomma, fa il suo lavoro.

Poi si può discutere se sia la persona adatta, e se lo faccia bene. L’economista dell’Università di Pavia Riccardo Puglisi, molto attivo e aggressivo sui social, ha condotto per mesi una sua personale battaglia contro Francesca Albanese per indagare sulle sue credenziali: sosteneva che non fosse un avvocato anche se lei si presenta, anche nel curriculum sul sito dell’Onu, come «international lawyer», avvocato internazionale.

Lei prima ha reagito stizzita, ha pubblicato un documento che certificava la fine del suo praticantato, ma poi – in una intervista a Vanity Fair – ha ammesso di non aver mai fatto l’esame di avvocato perché tanto nel suo lavoro sui diritti umani nelle organizzazioni internazionali non serviva.

Puglisi ha vinto la sua battaglia, anche se era una battaglia poco rilevante perché in effetti il lavoro di Francesca Albanese c’entra poco con l’esame da avvocato in Italia, anche se è vero che lei ha rivendicato in tv la sua competenza che derivava appunto dall’essere avvocato.

A prescindere dalle qualifiche, ci sono i toni e i modi: di sicuro Francesca Albanese riesce a far parlare di sé, perfino più di quanto riesca a far parlare di Gaza e delle politiche illegali di Israele. In Germania le hanno cancellato conferenze perché accusata di antisemitismo, lei usa tutte le parole che fanno inalberare i difensori di Israele: parla di «apartheid» come in Sud Africa, di genocidio, evoca i paragoni tra Gaza e la Shoah.

Per l’editore Fuoriscena ha pubblicato un libro su Gaza che si intitola J’Accuse, un’altra provocazione visto che il pamphlet originale con quel titolo era quello del 1898 di Emile Zola in difesa del capitano Albert Dreyfus, vittima di una discriminazione antisemita.

Anche il report che ha innescato le sanzioni degli Stati Uniti si muove sulla linea della provocazione dichiarata, perché nell’introduzione all’analisi sul ruolo delle aziende che traggono profitto dalla guerra di Gaza le paragona alla IG Farben.

La IG Farben era l’azienda chimica che durante il nazismo prosperava anche grazie al lavoro gratuito fornito dai prigionieri dei campi di sterminio, in particolare Auschwitz, nel periodo spesso breve tra il loro arrivo e la morte. Anche Primo Levi, chimico, si è trovato costretto a lavorare per la IG Farben.

I manager di IG Farben sono stati processati a Norimberga, dopo la guerra, e secondo la relatrice speciale dell’ONU, questo è un «precedente importante» per gestire la situazione di oggi a Gaza.

Dunque Francesca Albanese è una che polarizza, che genera reazioni opposte, che porta argomenti e il peso dell’Onu al fronte di critica più radicale contro Israele mentre conferma i pregiudizi di chi difende gli israeliani e Netanyahu sempre e comunque, cioè che dietro la difesa dei palestinesi ci sia un odio esistenziale contro Israele.

Per quel che vale la mia opinione, penso che ogni volta che si evoca la Shoah per denunciare quello che sta facendo Israele a Gaza, la denuncia perde ogni efficacia, perché l’equazione tra israeliani e nazisti è storicamente difficile da sostenere e sposta la discussione sul diritto di Israele a esistere, invece che sul dovere di Israele di rispettare il diritto internazionale e le sue stesse leggi.

L’economia del genocidio

Comunque, ci resta l’ultima domanda: quello che dice e scrive Francesca Albanese è rilevante? Di sicuro il documento al centro dell’ultima polemica Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio ha una sua efficacia, soprattutto perché riporta una lunga serie di fatti e non teorie o speculazioni.

L’analisi di Albanese contesta tre tipi di benefici economici intorno alla tragedia di Gaza. C’è il beneficio diretto delle aziende del settore della difesa che sono destinatarie di gran parte dell’aumento del budget per la sicurezza di Israele dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023 di Hamas.

Un aumento del 65 per cento in un anno che ha portato la spesa per la difesa del 2024 a 46,5 miliardi di dollari. Soldi che vanno a imprese israeliane come Elbit Systems e Israel Aerospace Industry – ma anche ai fornitori americani come Lockheed Martin e all’italiana Leonardo.

Poi ci sono aziende che vendono tecnologia e servizi necessari a mantenere l’occupazione illegale di territori in Cisgiordania, da Volvo a Hyundai che producono cose che servono solo lì e solo a scopi illegali: dai bus blindati per i coloni israeliani ai demolitori per abbattere le case dei palestinesi.

Booking, che è un’azienda europea, e Airbnb pubblicano inserzioni di case e alberghi nei territori occupati, case e alberghi che non potrebbero stare lì. Le due piattaforme lo sanno e provano a pulirsi la coscienza con donazioni a sostegno dei diritti umani che i loro inserzionisti violano.

Ci sono ancora le aziende che, nell’analisi di Francesca Albanese, sono direttamente complici del genocidio di Gaza. A cominciare dalle utility israeliane che garantiscono a Gaza acqua ed elettricità.

L’azienda Mekorot controlla gli acquedotti di Gaza e per almeno sei mesi dopo il 7 ottobre 2023 ha erogato acqua al 22 per cento della capacità, lasciando Gaza City senza acqua per il 95 per cento del tempo e così ha trasformato – si legge nel rapporto di Francesca Albanese – «l’acqua in uno strumento di genocidio».

Infine ci sono le aziende che applicano l’intelligenza artificiale alle azioni militari, con pratiche ormai diventate note, come quella chiamata «where is daddy» che traccia gli spostamenti dei potenziali bersagli per poi dare istruzione di colpirli quando sono a casa, spesso con le famiglie, stimando qual è il numero di vite civili sacrificabili per eliminare l’obiettivo.

Il bersaglio principale delle critiche di Francesca Albanese è Palantir, la società fondata da Peter Thiel e guidata da Alex Karp, che applica l’analisi dei dati in campo militare e di intelligence. Molti esponenti dell’amministrazione Trump, a cominciare dal vice presidente JD Vance, vengono dalle aziende di Thiel, e questo contribuisce sicuramente a spiegare la nettezza della risposta americana.

Nessuno – nemmeno una relatrice speciale dell’ONU – può toccare le aziende che questa amministrazione è nata per proteggere.

Come spesso accade quando il potere prova a silenziare le voci che danno davvero fastidio, le sanzioni del dipartimento di Stato hanno dato nuova credibilità e nuova forza alle denunce di Francesca Albanese.

Si può dissentire dai toni, dai modi, dall’enfasi, dall’aggressività che Francesca Albanese usa per denunciare Israele. Ma se il governo degli Stati Uniti vuole azzittirla perché osa denunciare gli interessi economici dietro lo sterminio dei palestinesi, allora l’unica posizione moralmente legittima diventa schierarsi con Francesca Albanese.

Le armi dell’occupazione: l’analisi di Lorenzo Kamel

Lorenzo Kamel insegna Storia delle Relazioni Internazionali all’Università di Torino e Storia del Mediterraneo alla Luiss di Roma. Il suo ultimo libro, per Einaudi, si intitola Israele-Palestina in 36 risposte.

Conosco Francesca Albanese, ci siamo anche confrontati sul palco del Festival di Ferrara. Personalmente, però, mi interessa poco parlare di lei.

Ezra Pound era solito sostenere che il cattivo critico critica il poeta e non la poesia. Non ho mai amato Ezra Pound, ma qui aveva perfettamente ragione.

La «poesia», in questo caso, è il nuovo rapporto di Francesca Albanese: un rapporto molto preciso, molto dettagliato. Invece di lavorare a quella che nel mondo anglosassone è chiamata character assassination, cioè la distruzione della reputazione di qualcuno considerato scomodo.

Il segretario di Stato americano Marco Rubio e tanti altri dovrebbero spiegare, ad esempio, per quale ragione Google stia fornendo alle autorità israeliane tecnologie di targeting e sorveglianza utilizzate anche per l’uccisione di decine di migliaia di civili − uccisioni che sono oggetto di indagine sia da parte della Corte Internazionale di Giustizia sia della Corte Penale Internazionale.

Queste tecnologie sono utilizzate anche per rendere sempre più asfissiante l’occupazione del territorio palestinese, in violazione del parere della Corte Internazionale di Giustizia e di diverse altre organizzazioni e organi internazionali.

Voglio ricordare che la Risoluzione 476 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, già nel 1980, sottolineava che l’acquisizione di territorio con la forza è inammissibile e ribadiva la necessità impellente di porre fine alla prolungata occupazione dei territori arabi occupati da Israele nel 1967, compresa Gerusalemme.

Questa risoluzionela 476, che invito tutti a rileggereera una semplice richiesta di ritiro, senza alcun riferimento ad alcuna condizione o precondizione.

Concludo sottolineando che, quando la Russia ha occupato la Crimea, l’Unione Europea ha imposto subito delle sanzioni; nulla di ciò è avvenuto, però, ad esempio, in Cisgiordania o sulle Alture del Golan.

L’Unione europea è infatti il primo partner commerciale dello Stato di Israele. Dunque, l’Unione europea e gli Stati Uniti sanzionano un leader sanguinario come Putin ma, allo stesso tempo, forniscono armi a un altro leader sanguinario, il premier israeliano Benjamin Netanyahu, responsabile di un numero di morti civili chesecondo diverse fontiè quattro volte superiore, e in metà del tempo, rispetto a quanto avvenuto nel contesto di Putin e della Russia.

Vladimir Putin sostiene che la Crimea è necessaria anche per la sicurezza nazionale della Russia; Netanyahu utilizza tesi più o meno simili in rapporto al Golan e alla Cisgiordania.

Credo che le persone coerenti debbano rigettare sempre questo genere di tesi, soprattutto quando ledono il principio di autodeterminazione di milioni di persone. Le persone ideologiche, invece, selezionano queste tesi e le utilizzano solo quando fanno comodo alla loro agenda, alla loro visione del mondo.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 11 luglio 2025

appunti

Print Friendly, PDF & Email

10 Commenti

  1. Mariagrazia Gazzato 31 luglio 2025
  2. max 15 luglio 2025
  3. Livio Fiori 14 luglio 2025
  4. Guido 13 luglio 2025
  5. Roberto 13 luglio 2025
    • Maddy 14 settembre 2025
  6. Gian Paolo 13 luglio 2025
  7. Gian Paolo 12 luglio 2025
  8. Lucio Dassiè 11 luglio 2025
    • Giampaolo Sevieri 18 luglio 2025

Lascia un commento

Questo sito fa uso di cookies tecnici ed analitici, non di profilazione. Clicca per leggere l'informativa completa.

Questo sito utilizza esclusivamente cookie tecnici ed analitici con mascheratura dell'indirizzo IP del navigatore. L'utilizzo dei cookie è funzionale al fine di permettere i funzionamenti e fonire migliore esperienza di navigazione all'utente, garantendone la privacy. Non sono predisposti sul presente sito cookies di profilazione, nè di prima, né di terza parte. In ottemperanza del Regolamento Europeo 679/2016, altrimenti General Data Protection Regulation (GDPR), nonché delle disposizioni previste dal d. lgs. 196/2003 novellato dal d.lgs 101/2018, altrimenti "Codice privacy", con specifico riferimento all'articolo 122 del medesimo, citando poi il provvedimento dell'authority di garanzia, altrimenti autorità "Garante per la protezione dei dati personali", la quale con il pronunciamento "Linee guida cookie e altri strumenti di tracciamento del 10 giugno 2021 [9677876]" , specifica ulteriormente le modalità, i diritti degli interessati, i doveri dei titolari del trattamento e le best practice in materia, cliccando su "Accetto", in modo del tutto libero e consapevole, si perviene a conoscenza del fatto che su questo sito web è fatto utilizzo di cookie tecnici, strettamente necessari al funzionamento tecnico del sito, e di i cookie analytics, con mascharatura dell'indirizzo IP. Vedasi il succitato provvedimento al 7.2. I cookies hanno, come previsto per legge, una durata di permanenza sui dispositivi dei navigatori di 6 mesi, terminati i quali verrà reiterata segnalazione di utilizzo e richiesta di accettazione. Non sono previsti cookie wall, accettazioni con scrolling o altre modalità considerabili non corrette e non trasparenti.

Ho preso visione ed accetto