Capire i referendum

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Ho preparato queste note come base per una puntata di Revolution, su Radio3, e in questa fase in Rai c’è, per ragioni comprensibili, una normativa di par condicio piuttosto stringente quando si parla di referendum. E bisogna dare spazio alle ragioni di entrambe le parti, per favorire una scelta consapevole il giorno della consultazione, cioè l’8 e 9 giugno prossimi.

Poiché se ne inizia a parlare tutti i giorni, mi sembra doveroso fare il punto, ma vista la struttura di Revolution, ho pensato di fare un’analisi il più equilibrata possibile, che è sempre un utile esercizio, invece che contrapporre opinioni opposte.

Nei referendum abrogativi si vota «sì» per abrogare e «no» per conservare la legge così com’è, ma poiché c’è un quorum necessario perché il voto sia valido – la metà più uno degli aventi diritto – la competizione finisce spesso per essere tra voto e astensione.

Poiché è più probabile che ad andare alle urne siano coloro che vogliono cambiare la legge, chi vuole conservarla così com’è tende a scegliere la tattica dell’astensione. Dunque, chi è favorevole al cambiamento deve vincere una doppia sfida: portare molte persone alle urne e spingerne una maggioranza a votare per il sì.

Un problema che non si pone per i referendum costituzionali, come quello del 2016, che non hanno quorum e dunque hanno rapporti di forza un po’ ribaltati: è più facile aggregare schieramenti trasversali per conservare la Costituzione com’è piuttosto che mobilitare elettori ed elettrici per cambiarla, perché in tanti possono opporsi a una specifica riforma per ragioni molto diverse (come è successo nel 2016, appunto).

In questo caso si aggiunge una complicazione: i quattro quesiti sul lavoro sono anche un regolamento di conti interno al Partito Democratico, visto che l’attuale vertice con la segretaria Elly Schlein è a fianco del sindacato della CGIL di Maurizio Landini per abrogare per via referendaria norme introdotte quando nel partito era maggioritaria un’altra componente, quella riformista, del partito, ai tempi del governo Renzi 2014-2015.

Il senso del quorum

Andrea Morrone è un costituzionalista dell’Università di Bologna, autore per il Mulino di La Repubblica dei Referendum.

  • Quali sono i referendum nella storia recente comparabili a quelli di giugno? E come sono andati?

Il 9 giugno saremo chiamati a votare in cinque referendum: uno in materia di cittadinanza e quattro in materia di lavoro. Si tratta di referendum abrogativi, che riguardano leggi connesse a diritti fondamentali: la riduzione del termine per ottenere la cittadinanza da parte di cittadini extracomunitari, oppure – secondo i promotori, ossia la CGIL – il rafforzamento delle garanzie nei rapporti di lavoro.

Sono temi che riguardano diritti, così come lo erano quelli di precedenti referendum nella storia italiana: basti pensare al divorzio, all’aborto o ad altre questioni analoghe. Solo che questa volta – come ormai accade da molto tempo – è estremamente improbabile che venga raggiunto il quorum.

Come è noto, infatti, dal 1997 a oggi (fatta eccezione per il caso del 2011), nessun referendum abrogativo ha raggiunto il quorum previsto dalla Costituzione, che richiede la partecipazione di almeno il 50 per cento più uno degli aventi diritto, affinché la consultazione sia valida.

  • Quali fattori possono determinare una maggiore o minore affluenza?

La partecipazione al voto dipende da molti fattori: l’interesse suscitato dai quesiti referendari, la reale volontà dei cittadini di partecipare alla vita democratica del Paese. Come sappiamo, anche in Italia l’astensionismo sta diventando molto elevato. Alle ultime elezioni politiche ha votato poco più del 60 per cento degli aventi diritto, e alle elezioni europee siamo scesi persino sotto il 50 per cento.

Nel caso dei referendum, dal 1997 non si raggiunge il quorum. L’astensione è diventata la regola, e non dipende soltanto dal contenuto dei quesiti referendari. Dipende soprattutto dal fatto che le forze contrarie al contenuto del referendum invitano i cittadini a disertare le urne, perché in questo modo è più facile impedire non solo che la consultazione abbia luogo, ma anche che si possa ottenere il risultato proposto dai promotori.

Si tratta di una pressione impropria, che rischia di violare, almeno sul piano del principio, la Costituzione. Soprattutto quando ad invitare alla diserzione del voto sono titolari di cariche pubbliche, i quali, al contrario, hanno la responsabilità di incoraggiare i cittadini a esercitare il diritto di voto, come previsto dall’articolo 48 della nostra Costituzione.

  • Qual è l’origine della scelta di introdurre il quorum? Anche all’estero funziona così o ci sono casi di Paesi che hanno consultazioni popolari vincolanti ma senza quorum?

La ragione per la quale l’assemblea Costituente stabilì un quorum minimo di partecipanti al voto nei referendum deriva dal fatto che, in quegli anni, la partecipazione politica era molto elevata: votava circa il 95 per cento degli italiani.

Si riteneva quindi che almeno il 50 per cento di coloro che normalmente si recavano alle urne dovesse partecipare anche ai referendum abrogativi.

Certamente, c’era anche l’idea di ostacolarne un uso troppo disinvolto, ma ciò che conta è che la nostra Costituzione considera il referendum uno strumento del pluralismo democratico.

È un mezzo attraverso il quale i cittadini possono partecipare e contrastare decisioni legislative approvate dal Parlamento.

Si tratta quindi di un vero e proprio diritto tutelato e garantito dalla Costituzione, affinché la democrazia rappresentativa possa, in determinate circostanze, essere integrata da iniezioni di democrazia referendaria.

Va anche detto che si tratta di un unicum nel panorama internazionale: nessun’altra Costituzione al mondo prevede un quorum minimo di partecipazione.

Questo anche perché, negli altri Paesi, i referendum sono in genere consultivi, hanno un valore essenzialmente politico, mentre nel nostro caso il referendum ha un valore normativo, in quanto finalizzato ad abrogare disposizioni di legge.

La cittadinanza

Guardiamo ora i singoli quesiti partendo da quello meno discusso: chi vota sì sceglie il dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana.

Secondo i dati ISTAT, su 5 milioni di stranieri legalmente residenti in Italia, oltre 2,3 milioni sono cittadini di Paesi fuori dall’Unione europea che hanno un permesso di soggiorno di lunga durata e che così potrebbero richiedere la cittadinanza in tempi più brevi.

Il referendum, in realtà, si limita a ripristinare una situazione pre-esistente, dall’unità d’Italia al 1992, infatti, ci volevano cinque anni di residenza per poter chiedere la cittadinanza, che poi sono saliti a dieci mentre in parallelo si introduceva uno sconto di un anno, quindi da cinque a quattro, per i cittadini di Paesi dell’Unione.

Poiché ci vogliono almeno tre anni dalla richiesta all’ottenimento della cittadinanza, per i richiedenti in possesso dei requisiti, di fatto si scenderebbe dai 13 anni di requisito attuale, dieci di residenza e tre di procedimento, a otto.

La frattura tra favorevoli e contrari è soprattutto sulle implicazioni, concrete e simboliche, dell’eventuale modifica della legge: oggi in Italia convivono due tipi di cittadinanza, una per via ereditaria estesa anche a chi nasce all’estero da italiani, e una che si acquisisce dopo anni di residenza.

Bambini nati lontano, che con l’Italia non hanno legami particolari se non la cittadinanza dei genitori, acquisiscono la cittadinanza alla nascita, mentre i figli di non cittadini che nascono e crescono in Italia devono aspettare la maggiore età per ottenere la cittadinanza italiana e risiedere per 18 anni senza interruzioni in Italia. È chiaro che con più immigrati che diventano cittadini prima, anche i loro figli sarebbero cittadini senza attendere i 18 anni.

Quindi intorno a questo quesito si scontrano due idee di approccio all’immigrazione e all’integrazione: chi vota sì crede che sia necessario integrare prima gli immigrati e i loro figli senza mantenere per molti anni un doppio regime che li divide dagli italiani.

Chi vota no o si astiene o è poco interessato, o pensa che una più rapida integrazione creerebbe tensioni sociali o fornirebbe un incentivo alla partenza di altri migranti.

I diretti interessati, cioè quei cinque milioni di persone che sono in Italia regolarmente ma senza cittadinanza, non possono esprimersi.

I quesiti sul lavoro

Il primo quesito sui licenziamenti vuole abrogare le norme del Jobs Act per tornare alla riforma Fornero del 2012.

È la nuova puntata dell’infinita saga intorno all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (1970) che dava la possibilità ai lavoratori licenziati di fare ricorso a un giudice e, in caso di successo, ottenere il reintegro.

Qui la divisione è chiara: per le aziende il reintegro è un costo futuro e un problema organizzativo ingente che scoraggi le assunzioni, spinge a puntare su partite Iva e precari e costringe a rimanere piccoli.

Per il sindacato (la CGIL, non tutti gli altri) il reintegro è una tutela necessaria perché soltanto se l’azienda sa che il licenziamento può essere impugnato ci penserà due volte prima di procedere.

Se passasse il quesito, comunque, non si tornerebbe all’articolo 18 difeso nel 2002 dalla Cgil di Sergio Cofferati contro una riforma del governo Berlusconi.

Vale la pena ricordare che l’anno dopo Rifondazione comunista e altri partiti promossero un referendum per estendere l’articolo 18 anche alle piccole aziende sotto i 15 dipendenti e le forze che oggi compongono il Pd contribuirono a far mancare il quorum scegliendo l’astensione.

Se passasse il primo quesito dell’8-9 giugno prossimi, la norma sui licenziamenti tornerebbe quella voluta dal governo Monti nel 2012, con una riforma anche allora criticata: il reintegro è previsto in alcuni casi, quando il licenziamento è nullo, cioè quando è per esempio discriminatorio o se il fatto contestato al lavoratore non sussiste, o se non lo ha commesso.

In alcuni casi, per esempio quando manca il giustificato motivo soggettivo o la giusta causa ma non c’è discriminazione, il giudice può stabilire un indennizzo per il lavoratore ma non il reintegro. Anche in caso ottenga il reintegro, poi, il dipendente può preferire l’indennizzo.

Questo è il quesito che agita il PD, perché significa votare per cancellare definitivamente la stagione del renzismo, che con la legge Poletti del 2015 era intervenuto a modificare a sua volta la riforma Fornero.

Forse per la prima volta, quindi, il risultato del voto su questo quesito è rilevante a prescindere dal raggiungimento del quorum, perché diventa una specie di congresso di partito anticipato: i riformisti eredi della fase Renzi voteranno per alcuni altri quesiti ma si asterranno su questo, la componente che segue la segretaria Schlein voterà a favore così come la Cgil, che ha promosso il referendum.

Una bassa affluenza indebolirebbe Schlein, un’affluenza alta − anche senza quorum − la rafforzerebbe e consoliderebbe la ritrovata connessione del PD con la CGIL di Maurizio Landini, il quale a sua volta emergerebbe come una figura di riferimento del centrosinistra politico a prescindere dall’esito del referendum.

Il primo quesito serve insomma a pesare i rapporti di forza nel centrosinistra: per dare un ordine di grandezza, alle europee del 2024 il PD ha avuto 5,3 milioni di voti. Tutti guarderanno quanti saranno i sì al primo quesito per capire se Elly Schlein e Maurizio Landini hanno vinto o perso.

Gli altri quesiti sul lavoro

Ci sono altri tre quesiti sul lavoro che hanno una minore connotazione politica e minore rilevanza nella discussione interna al PD.

Il quesito numero due vuole eliminare i limiti massimi ai risarcimenti in caso di licenziamento senza giusta causa nelle piccole imprese, lasciando al giudice stabilire l’import. Il limite massimo è di sei mensilità, che però arrivano a 10 per chi ha più di dieci anni di anzianità e 14 per chi ha vent’anni di anzianità.

Chi privilegia le esigenze delle piccole imprese che non possono permettersi di trascinare per anni contenziosi dal valore incerto sarà per il no o per l’astensione, chi ritiene che il lavoratore debba avere quanto gli spetta sempre e comunque sarà per il sì.

Il terzo quesito vuole eliminare la possibilità per i datori di lavoro di fare contratti a tempo determinato per 12 mesi senza una causa. Chi è per il sì sostiene che i lavoratori dovrebbero essere assunti a tempo indeterminato, solo alcune specifiche situazioni, per esempio un progetto limitato nel tempo o una fase di start-up dovrebbero giustificare il ricorso a contratti più precari.

Chi vuole conservare lo status quo argomenta che in un mercato del lavoro così rigido, i contratti a tempo determinato sono uno strumento che le aziende devono poter usare con una certa flessibilità, proprio perché è così difficile poi licenziare i dipendenti che non si rivelano all’altezza delle aspettative o che magari hanno un costo diventato impossibile da sostenere.

Il quarto quesito è quello che gode di un consenso più trasversale perché riguarda questioni legate alla sicurezza sul lavoro. Oggi, in caso di incidente sul lavoro, le aziende committenti non sono responsabili per quello che fanno gli appaltatori e i subappaltatori.

Il quesito vuole invece lasciare la responsabilità in capo al committente, che spesso è un’azienda più grande, magari con un marchio noto e che dunque può avere sanzioni reputazionali nel caso qualcosa vada storto, senza che questa possa scaricare le responsabilità più in basso nella filiera.

Le ragioni per il sì al quesito sono che solo se tutti sono responsabili si può proteggere la sicurezza del lavoratore.

L’argomento del no o dell’astensione invece è che della sicurezza, degli infortuni e delle malattie deve essere responsabile chi è a contatto con il lavoratore, non chi di fatto compra il servizio dell’impresa appaltatrice o subappaltatrice. Anche qui sarebbe un ritorno al passato, visto che la responsabilità in solido tra committente e appaltatore c’era già fino al 2008.

La natura molto eterogenea dei quesiti rende complicata la scelta di voto, ma va ricordato che il quorum vale per i singoli quesiti, non per la consultazione nel suo insieme.

Anche l’astensione è complicata, però: non andare a votare significa astenersi da tutti i quesiti e non contribuire al quorum, ma per astenersi sul singolo quesito si può evitare di ritirare la scheda. Chi la ritira contribuisce al quorum qualunque cosa scriva o non scriva prima di infilarla nell’urna.

La democrazia dei referendum sarà pure diretta, ma non è intuitiva.

  • Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 14 maggio 2025

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