
Il testo di Anita Prati che pubblichiamo di seguito è stato ampiamente dibattuto all’interno della redazione ed esprime una posizione condivisa.
Che nome dare a ciò che sta accadendo in Terra Santa? Per mesi e mesi abbiamo letto e ascoltato spiegazioni circostanziate e puntuali in merito alla necessità di tener conto di opportuni distinguo nell’uso delle parole da utilizzare per descrivere i fatti di Gaza: ammessi termini come «stragi», «massacri» o, al limite, «crimini di guerra» o «crimini contro l’umanità»; vietati «pulizia etnica» e «genocidio».
Per molti lunghi mesi solo poche voci isolate sono riuscite ad oltrepassare la soglia marcata dalla parola che inizia con la «g». Scorta mediatica, l’ha chiamata così Raffaele Oriani, un giornalista del Venerdì di Repubblica che, all’inizio di gennaio del 2024, tre mesi dopo il 7 ottobre, ha interrotto la propria collaborazione al giornale, denunciando, in una lettera aperta a colleghe e colleghi del quotidiano, la reticenza di gran parte della stampa europea davanti alla strage in corso a Gaza:
Sono novanta giorni che non capisco. Muoiono e vengono mutilate migliaia di persone, travolte da una piena di violenza che ci vuole pigrizia a chiamare guerra. Penso che raramente si sia vista una cosa del genere, così, sotto gli occhi di tutti. E penso che questo non abbia nulla a che fare né con Israele, né con la Palestina, né con la geopolitica, ma solo con i limiti della nostra tenuta etica. (…) Quanto accaduto il 7 ottobre è la vergogna di Hamas, quanto avviene dall’8 ottobre è la vergogna di noi tutti. Questo massacro ha una scorta mediatica che lo rende possibile. Questa scorta siamo noi.[1]
Mancare le parole chiare, mancare la condanna della carneficina, scriveva Oriani, significa fare da scorta mediatica al carnefice e permettergli di proseguire indisturbato il suo «lavoro»:
Ahmed Alnaouq è un brillantissimo giovane di Gaza che ha avuto la possibilità di trasferirsi a Leeds, in Gran Bretagna, per un master di giornalismo. Il 22 ottobre una bomba ha colpito la sua casa di Deir Al-Balah uccidendo 21 membri della sua famiglia, nessuno dei quali era militante di gruppi armati. Così va ai sopravvissuti di Gaza: eri pieno di persone su cui contare, ti ritrovi solo al mondo. Ma neanche questo serve a suonare l’allarme. Perché in questi mesi nessuno ha raccontato queste storie. Si è preferito parlare d’altro, dove altro ha spesso voluto dire lanciarsi in tortuose considerazioni geopolitiche in grado di rendere complessa l’elementare logica dello sterminio.[2]
È l’inganno della geopoliticizzazione: mentre, nei salotti social o televisivi, gli esperti di geopolitica discettano sul nome più opportuno da dare alla «cosa», lo sfoggio di conoscenze storico-politiche, che danno ragione delle ragioni del conflitto senza denunciarne l’orrore, diventa supporto e rinforzo – scorta mediatica –, all’orrore stesso:
Non si capisce perché uccidano anziani, donne, bambini. Non si capisce perché abbiano fatto esplodere tutte le università, distrutto quasi tutti gli ospedali, raso al suolo le scuole, ridotto in macerie tra il 60 e il 70 per cento delle case di città dove vivevano oltre due milioni di persone. Per mesi è valso il mantra dell’autodifesa, e chiunque sollevasse un’obiezione è stato zittito in nome del 7 ottobre. Un giornalista televisivo inglese, Piers Morgan, è diventato famoso per incalzare ogni ospite propalestinese con la domanda: «Do you condemn Hamas?». Non lo si è mai sentito avviare la conversazione chiedendo ai sostenitori di Israele: «Condanni la strage di bambini?». Nei nostri talk show ha spopolato a lungo un altro mantra: «Cos’altro avrebbe potuto fare Israele?». Dopo decine di migliaia di morti questa domanda ora suona blasfema, e carica di vergogna chi la pronuncia. Perché una soluzione che implichi il sacrificio a freddo di migliaia di bambini non appartiene alla sfera dell’umanità, perlomeno non dell’umanità cui eravamo abituati fino a qualche mese fa.[3]
Con tono piano ma inesorabile, Oriani smaschera il meccanismo perverso che, per il tramite delle divagazioni geopolitiche e degli slalom linguistici del politically correct, finisce con il contestualizzare, razionalizzare e normalizzare ciò che niente e nessuno dovrebbe portarci a considerare normale, razionale e contestualizzabile.
Non è contestualizzabile la morte di Hind Rajab, che avrebbe compiuto sei anni il 3 maggio 2024 ma i sei anni non li ha mai compiuti perché è stata uccisa il 28 gennaio insieme ai familiari che erano con lei sull’auto in fuga da Tel al-Hawa e a due volontari della Mezzaluna Rossa di Ramallah che stavano andando a soccorrerla con un’ambulanza. L’ordine di evacuazione era scattato di prima mattina. Hind era salita sulla Kia dello zio insieme ai cuginetti e alla cugina quindicenne Layan. Ma, poco dopo la partenza, i carri armati israeliani, impegnati nella caccia ai capi di Hamas, prendono di mira l’auto e la crivellano di colpi.
Di questa «cosa» ci restano le voci di Hind e della cugina, al telefono con le operatrici della Mezzaluna Rossa, la loro disperata richiesta di aiuto, le raffiche, le grida, il pianto di Hind che, unica ancora viva nella macchina intrappolata per interminabili ore dai carri armati, ha paura del buio che sta scendendo. L’operatrice della Mezzaluna Rossa, Rana Al Faqeh, con infinita dolcezza cerca di tranquillizzarla:
Hind: “Sono tutti morti”
Rana: “Sono tutti morti?”
Hind: “Sì”
Rana: “Sono nella macchina con te?”
Hind: “Sì”
Rana: “Dove ti stai nascondendo?”
Hind: “Nella macchina”
Rana: “Sei nella macchina? Non sei fuori, vero?”
Hind: “Sì”
Rana: “Rimani nella macchina, amore. Io starò con te al telefono, non attacco. Ok?”
Hind: “Ok…il carro armato è vicino a me”
Rana: “Dov’è il carro armato?
Hind: “Vicino a me”
(…)
Rana: “Ѐ molto vicino?”
Hind: “Molto molto vicino”
Rana: “Si sta muovendo?”
Hind: “Sì”
Rana: “Ok, non avere paura”.
Hind: “Per favore resta con me”
Rana: “Sono con te, amore, resto con te fino a quando qualcuno viene a prenderti. Non ti lascerò da sola”. [4]
Noi abbiamo visto
È trascorso un anno da quando Oriani ha pubblicato il suo libro sulla scorta mediatica, un anno da quando Hind di anni ne avrebbe compiuti sei. Nel frattempo abbiamo visto continuare a salire, giorno dopo giorno, il numero dei civili inermi ammazzati dalle bombe, dai cecchini, dalla fame, dalla sete, dalle malattie e dalla mancanza di cure ospedaliere – cinquantamila, di cui ventimila bambini –; abbiamo visto perseguire con sistematicità, attraverso l’uso di esplosivi e bulldozer corazzati, la distruzione degli edifici e delle strade di Gaza, con il palese obiettivo di rendere per sempre invivibile la Striscia per i palestinesi e impedire il ritorno dei gazawi nelle loro case; abbiamo visto esplicitarsi senza più ritrosie la propaganda genocidaria della destra israeliana: da Moshe Saada del Likud che proclama: «Faremo morire di fame gli abitanti di Gaza» («Israeli incitement to Genocide in Gaza Goes Mainstream») a Moshe Feiglin, fondatore e leader del partito nazionalista Zehut, che dichiara: «Ogni bambino di Gaza è un nemico. Dobbiamo conquistare Gaza e non lasciare vivo nessun bambino. Non c’è altro modo per vincere» (le dichiarazioni sono ascoltabili in una registrazione video); per non parlare delle deliranti affermazioni di Bezalel Smotrich e del suo degno compare Itamar Ben-Gvir, alleati e garanti del Governo Netanyahu.
La scorta mediatica obbedisce alla consegna del silenzio, ma noi abbiamo visto. Abbiamo visto, sì, perché nell’era dei social ai social va dato il merito di avere fatto catena e permesso la diffusione virale di notizie censurate o minimizzate dalla comunicazione mainstream. Nell’era dei social alle vittime inermi è data, unica arma, un cellulare con cui raggiungere il mondo, solo che il mondo voglia avere occhi per vedere e orecchie per sentire.
È grazie ai social che due medici inglesi operativi presso l’ospedale Nasser di Khan Younis, nel Sud della Striscia, hanno raggiunto i media con l’atroce testimonianza di quanto accaduto alla collega pediatra Alaa al-Najjar, che venerdì 23 maggio ha perso nove dei suoi dieci figli a causa di un missile lanciato contro la loro abitazione: Rakan, Raslan, Gebran, Eve, Revan, Sedin, Luqman, Sidra – sette mesi la più piccola, dodici anni il maggiore – sono morti carbonizzati, Adam sta lottando per sopravvivere. I raid israeliani di venerdì hanno causato la morte anche della piccola Yaqeen Hammad, di undici anni, la più giovane attivista social di Gaza, che pubblicava su Instagram storie piene di vita e di sorrisi.[5]
Da qualche tempo, ce ne siamo accorti, ovunque nel mondo la comunicazione giornalistica e politica ha iniziato a cambiare registro e «genocidio», la parola impronunciabile che non riusciva a trovare vie per materializzarsi, ha cominciato a fare la sua comparsa anche nei titoli dei giornali mainstream di casa nostra.
Tornare all’umanità
Sabato 24 maggio cinquantamila sudari per Gaza sono stati portati nelle nostre piazze, appesi alle finestre, ai cancelli, ai balconi. Da ogni parte sale un’onda potente di indignazione popolare: riuscirà a costringere i nostri politici a prendere posizione nei confronti delle efferatezze del governo Netanyahu? Di quali altri orrori abbiamo bisogno per dire basta?
L’Associazione Pediatri Extraospedalieri Liguri (APEL) e la Federazione Italiana Medici Pediatri (FIMP) della Regione Liguria, unendosi al cordoglio internazionale per la dottoressa Alaa al-Najjar, hanno lanciato un appello per la protezione dell’infanzia nei conflitti armati attraverso un comunicato stampa in data 25 maggio 2025:
È una storia che va oltre ogni possibile spiegazione razionale o giustificazione politica. È la fotografia più cruda di ciò che significa oggi essere bambini in guerra, e anche di cosa significhi essere medici sotto le bombe, costretti a scegliere tra dovere e famiglia. L’Associazione rivolge un appello non solo al governo di Israele, ma a tutta l’umanità: tornare all’umanità.
Tornare a vedere ogni bambino, ovunque si trovi, come un essere umano da proteggere. Tornare a sentire che perdere nove figli in un bombardamento non può diventare una notizia tra le altre, ma deve scuoterci tutti. I bambini non sono scudi. Non sono bersagli. Non sono strumenti. Sono il futuro dell’umanità.
E proteggerli è l’unico vero atto di civiltà che oggi ci è ancora concesso,
[1] Raffaele Oriani, Gaza, la scorta mediatica. Come la grande stampa ha accompagnato il massacro, e perché me ne sono chiamato fuori, People, 2024, pag. 13
[2] Raffaele Oriani,Gaza, la scorta mediatica, pag. 33
[3] Raffaele Oriani, Gaza, la scorta mediatica, pag. 38
[4] https://lab.repubblica.it/2024/hind-rajab-audio-bambina-morta-gaza/?ref=RHLF-BG-P7-S1-T1
[5] Aljaazera, Gaza’s youngest influencer among children killed by Israel in last two days, 25 maggio 2025







Ma Israele e gli USA hanno deciso: i palestinesi devono scomparire, per questo si uccidono i bambini, perchè la Palestina non abbia futuro. Con la nostra complicità.
Buongiorno.
Finalmente una chiara posizione su questa infamia taciuta, nascostamente approvata da chi avrebbe dovuto e potuto dire e agire per fermarla! Grazie!
M. Rita
apprezzo particolarmente l’espressione “È l’inganno della geopoliticizzazione” utilizzata nell’articolo. Infatti “geopolitica” è parola che ha subìto uno slittamento semantico paragonabile a “riforma”. Dovrebbe evocare –con tutte le ambiguità storiche che sarebbe lungo discutere– un approccio alla politica estera ispirato in primo luogo dagli interessi propri. Oramai significa, vagamente, essere dalla parte del più forte, e basta. E’ evidente che è contro gli interessi dell’Italia, dell’Europa, dell’ “occidente” (espressione pure da riconsiderare in profondità), sostenere Israele in questa guerra a un popolo intero. E quindi sale ancora più forte lo sdegno per l’impostura della “scorta mediatica” che non ha niente di “geopolitico”, ma è solo viltà davanti al più forte.
Finalmente una parola non ambigua sul tema; dalla Chiesa ci si aspetta una postura netta, distanziandosi da approcci etimologici o filologici sui termini, atteggiamenti propri dei mistificatori. Il tepore di molte posizioni, così come la mistificazione stessa degli eventi e l’assimilazione ad altre situazioni del passato e del presente sono oramai insostenibili anche per i più coriacei. A Gaza ed in Westbank, Cisgiordania, la violenza usata al popolo palestinese da decenni è totale. Conosciamo benissimo la logica del definire antisemita chi è antisionista; il padre dello strumento fu Abba Eban. In Isarale c’è certamente dissenso; ce ne perviene una rappresentazione annacquata attraverso i media generalisti, tuttavia una domanda: se Israele è veramente una democrazia allora il sillogismo porta linearmente a dover credere che le politiche agite siano condivise dalla maggior parte di quel popolo. Questo complica il quadro. Netaniahu non è un uomo solo al comando come si vorrebbe far credere, ma rappresenta chi desidera l’annientamento di un popolo. Diversamente le genti di Israele dovranno sollevarsi per la propria dignità, per il proprio futuro e per dimostrare che c’è realmente un approccio alternativo. Fin quando non avverrà saremo legittimati a pensare come crediamo.
Penso sia da apprezzare che tale posizione sia stata discussa e concordemente assunta dalla redazione. Onestamente però mi chiedo se discutere della pertinenza della parola “genocidio” per quanto sta accadendo a Gaza sia in questo momento così importante come si ritiene. E non solo perché si tratta di una nozione storico-giuridica che risponde a precisi (e non opinabili) parametri di applicazione, che spetterà poi ai tribunali della Storia e a quelli giudiziari decidere se utilizzare, ma anche perché temo che non contribuisca affatto a “stemperare” il clima attuale. Anzi, a mio modesto avviso, lo esaspera ulteriormente anche perché finisce con il dare credito alla narrazione che l’attuale governo israeliano tenta di propinare ai suoi cittadini in merito all’esistenza di una sorta di “complotto mondiale antisemita”. E personalmente credo che sia adesso assolutamente prioritario fare tacere le armi e per farlo l’unica reale possibilità è dare sostegno a quella parte ancora lucida della società israeliana che è consapevole del baratro nel quale il suo governo la sta conducendo politicamente e moralmente. Questo credo sia prioritario e su questo bisognerebbe lavorare, così come occorrerebbe lavorare per spingere i Paesi islamici a isolare definitivamente Hamas costringendola alla resa e al rilascio degli ostaggi. Usare parole “forti” (come quella di genocidio che evoca traumi terribili tra israeliani ed ebrei della diaspora) in questo momento e in questo contesto temo non aiuti la causa della Pace, l’unica per la quale vale davvero la pena schierarsi.
Sottoscrivo quanto contenuto nell’articolo, grazie all’autrice e a tutta la redazione per la denuncia. E’davvero atroce quanto avviene fra l’indifferenza dei potenti della terra.
La dottoressa che ha perso 9 dei suoi 10 figli sotto le bombe israeliane è il sigillo sulle parole: mai dimenticare.
Raffaele Oriani si è vergognato per aver aspettato ben tre mesi prima di scrivere la sua lettera di dimissioni. Ha scritto: “con colpevole ritardo”. Questi sedicenti cattolici al 26/05/2025 hanno ancora bisogno di dibattere, e non si vergognano. Hanno persino trovato una “posizione condivisa”, chissà che non riescano anche a pronunciare il nome di Netanyahu.
Avete fatto bene a pubblicarlo. Grazie. È davvero atroce: una Shoah non basta a convertire i cuori
Con i singhiozzi che chiudono la gola, sottoscrivo quanto e’ contenuto nell’articolo e ringrazio l’autrice e tutta la redazione per la denuncia.
Basta con silenzio e indifferenza.