
Volodymyr Zelenskyy a Bruxelles il 18 dicembre 2025 (AP Photo/Omar Havana)
Le polemiche all’interno della coalizione di centrodestra sul rinnovo dell’autorizzazione parlamentare a mandare armi all’Ucraina potrebbero avervi dato un’impressione sbagliata.
A sentire il leader della Lega Matteo Salvini che protesta e che ha ottenuto un rinvio della discussione in Consiglio dei ministri, potreste esservi fatti l’idea che la questione sia della massima importanza. Non è forse appena venuto a Roma il presidente ucraino Volodymyr Zelensky a incontrare la presidente del Consiglio Giorgia Meloni?
Non è così. Gli aiuti dell’Italia sono praticamente irrilevanti, e l’Europa ha già abbandonato l’Ucraina nel 2025 dopo che gli Stati Uniti l’hanno abbandonata a fine 2024, in previsione dell’arrivo alla Casa Bianca di Donald Trump.
Se l’esercito ucraino pare sempre più in difficoltà sul terreno, non è perché la guerra è sempre stata senza speranza, come dicono alcuni commentatori italiani che ripetono la prospettiva del Cremlino.
L’Ucraina è in difficoltà perché abbiamo smesso di aiutarla e deve combattere con le proprie forze o con gli aiuti dei soli Paesi che continuano ad aumentare il supporto, tra questi c’è per esempio l’Olanda.
Per sua fortuna, l’industria della difesa di Kiev ha dimostrato di essere capace di reinventarsi continuamente, di produrre droni efficaci e a poco prezzo che riescono a competere con quelli russi, e persino missili a lunga gittata per colpire in Russia, come il Flamingo.
E’ questa l’unica ragione per la quale gli ucraini continuano a combattere: perché sono in grado di farlo, nonostante il tradimento prima americano e poi europeo. E questa relativa autonomia militare è anche la ragione per la quale gli Stati Uniti di Donald Trump non riescono a imporre a Kiev una tregua che equivale a capitolazione.
La fine del supporto
Dall’inizio della guerra, il Kiel Institute monitora l’andamento del supporto all’Ucraina da parte di Stati Uniti ed Europa. L’ultimo report è del 10 dicembre 2025 e considera i dati disponibili fino a ottobre scorso. La sintesi del Kiel Institute è che l’Europa non ha compensato la fine del supporto militare americano nel corso del 2025.

Tra 2022 e 2024 gli aiuti complessivi all’Ucraina sono stati nell’ordine dei 41,6 miliardi di euro all’anno. Nei primi dieci mesi del 2025 ne sono stati stanziati soltanto 32,5 miliardi. Mancano 9,1 miliardi soltanto per pareggiare gli anni precedenti e non c’è segnale che a fine anno il bilancio sarà molto diverso.
L’implicazione è chiara: l’Europa non è riuscita a compensare la fine del supporto americano, men che meno a prendere la leadership del conflitto con un aiuto deciso all’Ucraina. E così finisce per confermare le posizioni antieuropee diffuse nel mondo MAGA americano: se gli europei, che sono quelli più direttamente minacciati dalla Russia, non vogliono sostenere l’esercito ucraino, perché dovrebbero farlo i contribuenti americani?

A difesa degli europei va però ricordato che si tratta di sforzi comunque notevoli: tra aiuti erogati e deliberati, l’Europa ha già superato di parecchio gli Stati Uniti se consideriamo gli stanziamenti complessivi dall’inizio dell’invasione russa, il 24 febbraio del 2022.
Nel complesso gli Stati Uniti hanno approvato circa 119 miliardi di euro di aiuti all’Ucraina, gli europei 275,6, dei quali ne hanno già erogati 188,6.
Il Kiel Institute osserva poi che durante il 2025 le differenze di approccio tra i vari Paesi europei si sono ampliate: i nordici hanno incrementato in modo significativo il loro supporto all’Ucraina, altri Paesi sono rimasti stabili. Alcuni, pochi, l’hanno ridotto.
Rispetto al periodo 2022-2024, l’Italia ha addirittura ridotto del 15 per cento i suoi “già bassi stanziamenti”, scrive il Kiel Institute. Mentre la Spagna non ha proprio stanziato alcun aiuto militare nel corso dell’anno, così come è l’unico grande Paese europeo che si è ribellato alla richiesta NATO di aumentare l’obiettivo di spese per la difesa dal 2 al 5 per cento.
Vale la pena di sottolineare questo dato: nel primo anno di presenza di Trump alla Casa Bianca, il governo italiano ha di fatto adottato la linea di Salvini, cioè quella di ridurre il sostegno militare a Kiev, mentre Giorgia Meloni in pubblico vantava l’aumento della spesa militare NATO e garantiva il supporto a Zelensky.

Se guardiamo agli stanziamenti per l’Ucraina disaggregati per Paese, possiamo osservare la nuova geografia delle coalizioni dentro l’Unione europea e ci spieghiamo perché l’Italia sia sempre più isolata.
Non è solo una questione di affinità ideologica tra Giorgia Meloni e Donald Trump. I grandi Paesi d’Europa, Germania, Gran Bretagna e Francia continuano ad aumentare il sostegno all’Ucraina e così si assicurano un ruolo di leadership nel decidere le strategie europee in materia di difesa e sicurezza, visto che vengono riconosciuti come partner affidabili dai Paesi nordici che investono cifre più basse in valore assoluto ma molto più significative rispetto al proprio Pil.
Danimarca e Svezia, ma anche Norvegia e Finlandia: Paesi dell’Ue e fuori dall’Unione, come la Norvegia, storici membri della NATO (la Norvegia) e nuovi arrivati in cerca di protezione dopo l’attacco russo del 2022 (Svezia e Finlandia), ormai c’è un asse del Nord che si occupa della difesa del continente mentre i Paesi mediterranei si sentono poco coinvolti.
Uno schema speculare rispetto a quello degli anni Dieci quando la linea di spaccatura era prima il rispetto delle regole di bilancio e poi la gestione dei migranti arrivati dal Mediterraneo.
L’Italia per l’Ucraina − secondo il monitoraggio del Kiel Institute − non ha erogato praticamente nulla: 2,48 miliardi complessivi, a cui ne vanno aggiunti 2,68 come contributo alla gestione dei rifugiati ucraini.
Sono numeri che nel dibattito italiano praticamente non vengono mai citati. Prevalgono le discussioni di principio, sia sulla necessità di continuare a sostenere Kiev sia sull’ipotesi di ridurre il sostegno.
È un dibattito opaco, perché non sappiamo neppure esattamente cosa stiamo mandando e con che criterio viene stabilito il valore delle armi consegnate.
Ogni anno, dal 2022, il Consiglio dei ministri approva un decreto legge che poi deve essere convertito dal Parlamento e che autorizza l’esportazione di materiale bellico verso l’Ucraina. È soltanto una cornice giuridica, resa necessaria da una legge del 1990 che di regola e in alcuni casi vieta di importare ed esportare armi e tecnologie per la difesa.
Quel decreto non indica però che cosa stiamo esportando. Questo genere di informazioni viene dato dal ministro della Difesa al Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica che si occupa anche, tra l’altro, di servizi segreti.
E’ una forma di trasparenza e monitoraggio un po’ autoreferenziale: il governo riferisce al Parlamento, certo, ma quelle informazioni non possono essere divulgate perché sono, appunto, classificate.
E poiché la guerra continua e a febbraio entrerà nel quinto anno, questo significa che a dicembre i parlamentari italiani sono chiamati a dare una specie di delega in bianco al governo su cosa mandare agli ucraini.
Una delle conseguenze della scarsa trasparenza è che non sappiamo neppure bene come vengono valutate le armi e le tecnologie che mandiamo. Un po’ tutti i Paesi, inclusi gli Stati Uniti, nelle prime fasi della guerra hanno mandato quanto avevano nei depositi, dunque carri armati, missili, razzi che erano stati prodotti e comprati in anni passati.
A che prezzo sono stati valutati? Se prendiamo un carro armato tedesco Leopard, per esempio, sappiamo che ha un costo di produzione intorno ai 30 milioni di euro. Dunque se ne mandiamo uno a Kiev, possiamo dire ragionevolmente di aver inviato aiuti militari per 30 milioni.
Ma un carro armato pagato dieci anni fa venti milioni e che magari, nel frattempo, non è stato tenuto in perfette condizioni per scarso utilizzo, si può contabilizzare al valore di produzione? O bisogna scontare il passare del tempo? Magari è costato 20 milioni ma quando lo mando agli ucraini il suo valore reale è sceso a 10.
Come contiamo quindi il valore degli aiuti a Kiev? Un gruppo di lavoro dell’Università di Berkeley sta provando a rispondere a questa domanda e, nei primi risultati relativi agli Stati Uniti, ha scoperto che il valore più corretto degli aiuti militari americani agli ucraini tra 2022 e 2024 non è 125 miliardi, ma soltanto 51,2 miliardi. La guerra in Ucraina è quindi costata al contribuente americano soltanto 11 dollari a testa.
Peraltro, osservano i ricercatori di Berkeley, l’impatto sull’economia americana è stato positivo perché svuotare i magazzini per mandare armi a Kiev ha generato nuovi ordini e produzioni di armi e munizioni.
Gli asset russi congelati
A Berlino il cancelliere Friedrich Merz ospita i negoziati sul futuro dell’Ucraina, in uno sforzo per riportare l’Unione europea nel quadro della trattativa, almeno come sede della discussione, per evitare che le trattative avvengano soltanto tra Washington e Mosca.
Per i leader europei il momento della verità sarà però il Consiglio europeo del 18 e 19 dicembre, quando bisognerà prendere una decisione finale sugli asset russi congelati.
La questione si trascina dal 2022, quando − pare su input di Mario Draghi − i Paesi occidentali congelarono oltre 210 miliardi di euro russi, in prevalenza della Banca centrale di Mosca, detenuti presso altre istituzioni europee. Il grosso è presso Euroclear in Belgio. Ora che Trump ha smesso di sostenere Zelensky, la discussione su come usare quei soldi è diventata urgente: adesso o mai più.
Dopo mesi di discussioni e riflessioni giuridiche, il piano della Commissione europea è di girare quelle risorse a Kiev come se fossero un anticipo delle riparazioni di guerra che la Russia dovrà – o dovrebbe pagare – a conflitto finito per i danni inflitti.
Se Mosca rimborserà, a sua volta l’Ucraina ridarà i soldi a Euroclear. Altrimenti questa specie di anticipo si tradurrà in un esproprio.
Il premier belga Bart De Wever ha avanzato una lunga serie di obiezioni, teme le conseguenze per il Belgio e Euroclear della causa legale che subito la Russia ha annunciato: anche in tempo di guerra, il diritto internazionale resiste, e le basi giuridiche della proposta della Commissione sono contestate da alcuni giuristi.
Ma il punto ormai è tutto politico. Il piano della Commissione ha bisogno della maggioranza qualificata nel Consiglio dei capi di Stato e di governo, non serve l’unanimità. Dunque il Belgio non ha diritto di veto.
C’è una coalizione di Paesi filorussi che cercherà di bloccare il piano, guidata da Ungheria e Slovacchia, che hanno arruolato anche Malta e Cipro, assai preoccupate dall’ipotesi che passi il principio che i capitali russi nascosti in territorio europeo possano essere sequestrati in nome dell’aiuto agli ucraini.
Nei giorni scorsi l’Italia di Giorgia Meloni si è schierata con l’alleanza di blocco che cerca di fermare l’uso degli asset russi congelati.
Se questa posizione venisse formalizzata in un voto contrario nel Consiglio europeo, sarebbe il definitivo passaggio di schieramento dell’Italia di Giorgia Meloni dal nucleo dei Paesi che appoggiano le ragioni di Kiev a quelli che dentro l’Europa agiscono nell’interesse di Vladimir Putin e degli Stati Uniti di Donald Trump che, come enunciato nella nuova Strategia di sicurezza nazionale, vogliono indebolire l’Unione europea a favore dei partiti antieuropeisti allineati con Washington.
La Lega di Matteo Salvini, da sempre più vicina alle ragioni di Mosca che a quelle di Bruxelles, dice soltanto in modo più esplicito quello che Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia pensano e praticano da un anno.
- Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 17 dicembre 2025






