Putin, dopo Prigozhin

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Foto: Gavriil Grigorov/EPA

Nonostante il nome impegnativo, Christo Grozev non è un profeta, bensì un giornalista molto bene informato che lavora per Bellingcat, forse il più importante sito di informazione investigativa, di base in Olanda e fondato nel 2014 da Eliot Higgins, ricercatore e blogger inglese, a sua volta autore di numerosi articoli sulla guerra civile siriana, sui conflitti in Ucraina e sull’abbattimento del jet della Malaysian Air Lines, per il quale la magistratura olandese ha condannato in contumacia all’ergastolo il miliziano russo Igor Girkin, conosciuto anche come «Strelkov», recentemente messo agli arresti in Russia. A dicembre dell’anno passato, Grozev è stato inserito dal Ministero degli Interni russo nella lista dei ricercati e nel marzo scorso gli è stato consegnato il Premio Oscar per il suo documentario su Alexei Navalny, il più celebre prigioniero politico russo.

Fine annunciata

Nel gennaio scorso, Grozev aveva affermato che, entro sei mesi, Evgeny Prighozin, fondatore e leader della milizia mercenaria Wagner, si sarebbe ribellato a Putin, cosa effettivamente avvenuta con la “Marcia per la Giustizia” del 24 giugno. Poche settimane fa, Grozev è tornato sull’argomento in un’intervista al Financial Times, dicendo: «Dopo il tentato golpe di giugno, Putin è andato in TV e ha definito Prigozhin un traditore. Tutti sanno cosa fa Putin a coloro che definisce traditori. Ma stavolta non è successo nulla. Chiaramente Putin vuole vedere Prigozhin morto, ma non può ancora farlo. Io dico che entro sei mesi o Prigozhin sarà morto o ci sarà un secondo golpe contro Putin. Sono agnostico fra le due possibilità, ma fermamente convinto che una delle due si verificherà».

Il 23 agosto, Prighozin muore precipitando con il suo aereo privato, a seguito di un’esplosione in volo la cui origine non è ancora del tutto chiara, anche se prende quota l’ipotesi di una bomba a bordo del velivolo, piuttosto che quella di un missile terra-aria. Insieme a Prighozin, muoiono nell’attentato il comandante militare della Wagner, Dmitri Utkin (noto per i suoi tatuaggi nazisti e la sua ferocia) e gran parte dello Stato Maggiore della compagnia militare privata.

Naturalmente, i sospetti sui mandanti dell’attentato convergono verso il Cremlino, perché la riappacificazione che sarebbe avvenuta fra Putin e lo stesso Prighozin dopo lo stop alla “Marcia per la Giustizia” non è mai apparsa convincente. Lascia perplessi l’ingenuità e la leggerezza dei capi della Wagner, che viaggiavano tutti insieme sullo stesso mezzo, contravvenendo alle più elementari regole di sicurezza, così come appare poco credibile che un uomo navigato come Prighozin potesse sentirsi al sicuro perché, come aveva affermato lui stesso tempo fa, «se Putin non mi ha fatto fuori subito, vuol dire che non lo farà». Più probabile che il capo della Wagner avesse ricevuto rassicurazioni da parte di qualcuno di cui si fidava, evidentemente sbagliandosi.

I «lunghi coltelli» di Putin

I precedenti storici di dittatori che eliminano gli amici e i complici di cui non si fidano più, per i motivi più svariati, non mancano. Suggestionati dalle analogie, in molti hanno fatto riferimento alla morte di Italo Balbo, il potente gerarca fascista precipitato con il suo aereo mentre volava sul cielo di Tobruch, in Libia, abbattuto «per errore» dalla contraerea italiana. Il dissenso di Balbo verso l’entrata in guerra dell’Italia, motivato dall’inadeguatezza delle nostre forze armate, era noto.

Tuttavia, se proprio bisogna trovare un precedente assimilabile, il rapporto fra Putin e Prighozin ricorda molto quello fra Adolf Hitler ed Ernst Rohem, il comandante delle SA (Sturm Abteilung), le milizie in camicia bruna che avevano accompagnato con le loro violenze l’ascesa al potere dell’imbianchino austriaco. Le velleità «rivoluzionarie» di Rohem erano in contraddizione con l’asse stabilito da Hitler con gli industriali, la borghesia e i militari tedeschi, per cui questi procedette all’eliminazione fisica dell’ex amico e alla liquidazione delle SA, in quella che è passata alla storia come la «Notte dei lunghi coltelli».

Come si vede, le similitudini non mancano: a differenza di Balbo, Rohem era a capo di una potente milizia, esattamente come Prighozin e, come Prighozin, era diventato portatore non di un dissenso limitato, come quello di Balbo nei confronti dell’entrata in guerra, ma di una sorta di progetto politico.

Nei mesi scorsi, infatti, Prighozin non si era limitato a criticare duramente le carenze nella conduzione della guerra all’Ucraina e la corruzione e l’inefficienza degli alti gradi militari, ma aveva anche smascherato le menzogne della propaganda di Putin sul «genocidio» nel Donbass e sulla natura «nazista» del governo di Kyiv, smontando così le basi stesse della cosiddetta «operazione militare speciale» finalizzata alla «denazificazione» dell’Ucraina.

Se il progetto di Rohem era quello di realizzare la parte «socialista» del nazional-socialismo, rovesciando l’establishment politico-economico-militare con cui si era alleato il suo vecchio socio, quello di Prighozin era la sostituzione di una gran parte della nomenklatura putiniana e delle gerarchie militari e non è da escludere che prevedesse anche una qualche svolta nel conflitto con l’Ucraina, come lasciavano intendere i suoi riferimenti alla situazione della Russia del 1917.

Al di là delle ipotesi, comunque, resta il fatto che la «Notte dei lunghi coltelli» di Putin, come quella del suo predecessore germanico, abbia raggiunto l’obiettivo: come le Sturm Abteilung, i «musicisti» della Wagner sono stati neutralizzati e il loro destino è ora nelle mani dello Zar.

Saldamente al comando

L’eliminazione di Prighozin segue altri accadimenti che indicano come Putin abbia ritenuto necessario sbarazzarsi degli elementi nazionalisti critici verso la sua condotta, posto che le opposizioni democratiche e di sinistra sono state schiacciate da tempo e lo stesso arresto dello studioso marxista Boris Kagarlitsky appare più che altro una specie di specchietto per le allodole, teso a dimostrare la «centralità» del regime.

L’ideologo estremista Alexander Dugin è rientrato nei ranghi da tempo, dopo l’attentato mortale che ha colpito la figlia; di Girkin/Strelkov si è già detto, le forze di sicurezza russe stanno procedendo ad arresti e perquisizioni verso militanti dell’estrema destra e le autorità russe non hanno mosso un dito in relazione all’arresto in Finlandia di Yan Petrovsky, detto «Slavyan», combattente nel Donbas sin dal 2014 e di cui l’Ucraina ha già chiesto l’estradizione per processarlo per crimini di guerra.

L’inerzia del consolato russo ad Helsinki verso la vicenda di Petrovsky (che in Finlandia avrebbe già subito un interrogatorio piuttosto «robusto» da parte di ufficiali dei servizi segreti ucraini) è stato duramente criticato dal canale Telegram Grey Zone, considerato emanazione della Wagner, sul quale compaiono messaggi contraddittori, che vanno da chi minaccia vendetta contro i «traditori» responsabili della morte di Prighozin e Utkin ad altri che invitano alla prudenza e a non diffondere notizie non verificate.

Tutto, quindi, lascia pensare che Putin, almeno per ora, abbia saldamente in pugno la situazione e che sia in grado di gestire le difficoltà economiche e militari nella fase che la Russia sta attraversando.

A conti fatti, la tanto sbandierata «controffensiva» ucraina procede a rilento, tanto che già si pensa a un nuovo stallo imposto dall’imminente arrivo dell’autunno, che renderà problematici i movimenti della fanteria e dei reparti corazzati, con la prospettiva di un altro inverno che la popolazione civile ucraina dovrà affrontare al gelo, vista l’intensità degli attacchi missilistici russi sulle infrastrutture energetiche del Paese.

Le fortificazioni, le trincee, i campi minati approntati per mesi dall’esercito russo, la scarsità di uomini e mezzi di quello ucraino, che non dispone di alcun supporto aereo, sono tutti fattori che rendono molto improbabili progressi significativi sul campo. Quanto alla politica e alla diplomazia, non sembrano in grado di offrire percorsi in grado di sbloccare la situazione. Al momento attuale, ogni ottimismo appare come un malinconico wishful thinking, pensiero speranzoso.

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