
Cosa c’entra la democrazia con il processo di approvazione della legge di Bilancio rimane un mistero che si rinnova di anno in anno. È il provvedimento più importante dell’azione di politica economica di un Governo, ma è anche il più opaco. Lo diceva anche Giorgia Meloni, allora all’opposizione, nel 2019: se il Parlamento non può discutere la legge di Bilancio, non c’è democrazia parlamentare.
In realtà succede ormai ogni anno che la legge più importante arrivi blindata o quasi: la scrive il governo, deputati e senatori provano a compiacere il loro bacino elettorale di riferimento presentando migliaia di emendamenti che non verranno mai approvati perché le uniche modifiche sono fatte dal Governo con un maxi emendamento.
La fiducia blinda tutto. Ormai è prassi che una delle due Camere non possa proprio discutere il testo per mancanza di tempo, lo vota e lo approva e basta. È successo anche questa volta: voto in Senato all’antivigilia di Natale, 110 a favore, 66 contro, 2 astenuti. La legge di Bilancio poi arriva alla Camera il 30 dicembre con il termine per approvarla al 31. I deputati possono anche restarsene in vacanza, il loro contributo non è davvero richiesto.
Sarebbe ingiusto però accusare il centrodestra al Governo di un comportamento particolarmente deprecabile, visto che in termini di scadenze non è così diverso da quello di quasi tutti gli ultimi Governi.
Il resto della gestione della legge di Bilancio però è stato così strano da lasciare più domande che risposte.
La principale è questa: perché Giorgia Meloni è arrivata al punto di rischiare una crisi di Governo con gli alleati per mantenere una impostazione molto austera, perfino troppo rispetto ai requisiti europei, della legge di Bilancio? E come è possibile che siano entrate e uscite misure delle quali nessuno sembra prendersi la responsabilità politica?
Le stranezze
Fratelli d’Italia ha presentato e poi ritirato un emendamento per raddoppiare da 5.000 a 10.000 euro la soglia dei pagamenti in contanti. Perché? Boh.
Per settimane abbiamo discusso della proprietà dell’oro della Banca d’Italia per un emendamento del senatore, sempre di Fratelli d’Italia, Lucio Malan che neppure riusciva a spiegare bene il senso della sua stessa proposta.
Alla fine è risultato un testo pieno di perifrasi che certifica l’ovvio. Le riserve restano nella disponibilità della Banca d’Italia che le usa nell’eurosistema che ha al centro la Bce per garantire l’emissione di moneta.
Il Quirinale ha dovuto far togliere all’ultimo secondo cinque norme che erano entrate nel maxi emendamento finale così, quasi per caso, tipo quella che evitava ai datori di lavoro condannati per aver sottopagato i dipendenti, anche se all’interno di un contratto nazionale, di dover pagare gli arretrati.
O quella che avrebbe permesso alle amministrazioni regionali e locali di dare incarichi a soggetti provenienti da aziende regolate o finanziate.
E poi perché spendere oltre un miliardo all’anno per evitare l’aumento dell’età pensionabile legato all’aumento dell’aspettativa di vita e poi cercare di ottenere quasi lo stesso risultato per via amministrativa? I requisiti per la pensione non cambiano, ma si allunga la finestra di attesa per andarci per chi ha l’età giusta.
Per non parlare della tentata rapina a chi ha pagato per il computo ai fini della pensione e degli anni di università: prima il Governo cambia in modo retroattivo il calcolo dello sconto sull’età pensionabile, poi smentisce tutto e promette di espungere l’emendamento appena presentato.
Anche la scelta di cambiare l’entità della manovra a pochi giorni dall’approvazione è singolare: senza nessuna spiegazione, il Governo alza la manovra da 18,5 a 22 miliardi circa senza toccare i saldi. Vuol dire che aumenta la quantità di risorse che cambiano destinazione, ma per ogni spesa aggiuntiva si trova anche una copertura, almeno temporanea, per garantirla.
La misura principale, quella che nelle dichiarazioni iniziali della premier e della maggioranza, avrebbe dovuto occupare i titoli dei giornali e sostenere il consenso è stata completamente oscurata ed è diventata perfino quasi impopolare: il taglio dell’IRPEF, per quasi 3 miliardi, avviene con una rimodulazione delle aliquote che in termini di euro premia i redditi alti più di quelli bassi, e peraltro esclude tutti gli incapienti, cioè i più poveri.
La cronaca ha trasformato una manovra che doveva essere all’insegna del taglio del cuneo fiscale in una legge di Bilancio piena di nuove tasse: la revisione delle accise sui carburanti che aumenta il gettito, la tassa di 2 euro sui pacchi fino a 150 euro per fare cassa, quella sulle transazioni finanziarie, quella sulle banche che – in assenza di un aumento di concorrenza – verrà scaricata sui clienti, quelle sugli affitti brevi nelle seconde case, che è quasi una misura di sinistra ma è pur sempre una tassa.
Insomma, non è molto chiara la logica economica di questa manovra che non contiene niente per schiodare la crescita italiana dallo zero virgola. E neppure è chiara la logica politica.
Pensando alle elezioni
Chi si ostina a cercare un senso, o almeno una tattica, arriva a concludere che forse il governo Meloni ha voluto dare priorità al contenimento del deficit e del debito così da chiudere la procedura di infrazione europea un anno in anticipo e usare la prossima legge di Bilancio per finanziare a debito misure che garantiscano consenso alle elezioni politiche del 2027.
Magari è così, o forse è un tentativo di razionalizzazione a posteriori di un processo decisionale indecifrabile. Lo vedremo, ma se anche fosse la chiave di lettura giusta sul piano politico, non è detto che la scommessa riesca: come ha riconosciuto lo stesso governo nei documenti programmatici, in assenza del PNRR, la politica economica del Governo Meloni avrebbe mandato il Paese in recessione dello 0,5 per cento del PIL già quest’anno.
L’Italia che arriva alle elezioni nel 2027, insomma, rischia di essere reduce da due anni di crescita piatta, produzione industriale ferma e PNRR che finisce nel 2026. Non è detto che qualche miliardo di mance elettorali sia sufficiente a far dimenticare agli elettori il contesto in cui le ricevono.
Anche l’immagine del centrodestra come forza stabilizzatrice del Paese – immagine cruciale per il racconto di Giorgia Meloni in patria e all’estero – esce un po’ compromessa da questa sessione della legge di Bilancio che il sobrio Sole 24 Ore ha definito «un circo».
Il punto più sorprendente è che non è ben chiaro chi prenda le decisioni, chi dia l’input politico: in passato era uno schema consolidato quello del presidente del Consiglio che dichiarava di voler spendere e spandere e il ministro dell’Economia, spesso un tecnico, che spiegava pazientemente quali erano i vincoli della politica economica.
Qui non ci sono tecnici, ma abbiamo assistito allo spettacolo inedito di un ministro dell’Economia come Giancarlo Giorgetti che viene bersagliato dal suo stesso partito, la Lega, in una specie di congresso pubblico che cerca di regolare i rapporti di forza che non vengono misurati nelle sedi opportune perché nessuno osa davvero sfidare davvero la leadership di Matteo Salvini. Giorgetti ha difeso l’impianto della manovra, salvo essere sempre pronto a rivederlo quando necessario.
Salvini di certo esce indebolito dalla sessione di bilancio: alle prossime elezioni non potrà riciclarsi lo slogan che usa da oltre un decennio, cioè la promessa di abolire la riforma Fornero sulle pensioni, visto che il suo governo ha addirittura approvato una revisione restrittiva.
Ma Giorgetti a chi risponde, visto che va contro il suo stesso partito e arriva a minacciare le dimissioni? Alla sua coscienza? Alla premier Giorgia Meloni? Non si sa.
Anche Forza Italia si è trovata quasi sempre a prendere contezza della propria irrilevanza, con le sue proposte sistematicamente ignorate.
D’altra parte, il leader Antonio Tajani, che sogna addirittura il Quirinale, è stato in pratica licenziato in diretta da Pier Silvio Berlusconi, padrone di fatto del partito come garante dei suoi debiti, che sta preparando la sostituzione alla guida con il presidente della Calabria Roberto Occhiuto, indagato per corruzione.
Gli ammiratori di Giorgia Meloni trovano quindi spunti per celebrare il suo machiavellico talento nel consolidare il potere: la premier ha saputo usare l’intero iter della legge di Bilancio per regolare i suoi conti, magari anche in preparazione di una riforma della legge elettorale che indebolisca ancor di più la Lega nel centrodestra.
Anche i provvedimenti assurdi di Fratelli d’Italia – come quello dell’oro della Banca d’Italia, o sul contante – potrebbero essere inseriti in questa strategia: creare una cortina fumogena populista intorno alla sostanza della legge di Bilancio.
Gli elettori più fedeli all’impianto originario anti-europeo e anti-capitalista di Fratelli d’Italia vengono appagati dalla sensazione di una battaglia sempre impari con i poteri forti nazionali ed europei, mentre gli elettori più moderati che hanno consentito a Giorgia Meloni di passare dal 3 a quasi il 30 per cento vengono rassicurati dai conti sotto controllo e dal fatto che le norme più bislacche poi non vengono davvero approvate.
Tutto qui?
C’è solo un piccolo neo in questa strategia: la legge di Bilancio dovrebbe servire a sostenere la crescita del Paese, a rispecchiare le priorità dell’elettorato, a ridurre gli squilibri. Non come riscaldamento per la lunga campagna elettorale che partirà una volta superato lo scoglio del referendum sulla Giustizia a marzo.
Però è sempre più ovvio che Giorgia Meloni abbia una competenza maturata in quasi trent’anni di vita politica soprattutto nella gestione del potere, mentre l’economia continua a risultarle una materia ostica, verso la quale l’intero mondo di Fratelli d’Italia coltiva una certa diffidenza.
La premier si è anche avventurata a spiegare che la pressione fiscale sale con la legge di Bilancio – al 42,7 per cento – ma non è colpa del Governo che aumenta le tasse, è che ci sono più persone al lavoro e dunque sale il gettito. Ma c’è un problema con le frazioni: se più persone lavorano sale il PIL, che è il denominatore della frazione della produzione industriale. Sopra c’è il gettito, sotto il PIL. Se la pressione fiscale aumenta, significa che il gettito aumenta più di quanto sale il PIL. Non si scappa.
Al netto di queste dichiarazioni improvvide, è chiaro ormai che – alla sua quarta legge di Bilancio – il Governo Meloni non ha un chiaro programma economico, o almeno non ha l’economia al centro della sua azione: il principale risultato è una forma di austerità graduale che permette di tenere sotto controllo la spesa per interessi, che è contribuisce a determinare quella spesa netta che è l’indicatore di riferimento per il rispetto del nuovo Patto di stabilità e crescita.
Va però ricordato che la spesa per interessi è destinata comunque ad aumentare nei prossimi anni, dal 3,5 al 4,3 per cento, ma meno di quanto sarebbe successo con leggi di Bilancio più allegre e con un contesto sui mercati finanziari più ostile.
A parte questo, però, non c’è una sola riforma fiscale, del mercato del lavoro, nessuna liberalizzazione, nessuna strategia di politica industriale.
Nel 2027 Giorgia Meloni potrà dire agli italiani che dopo cinque anni ha aumentato le tasse e tenuto il debito sotto controllo, preparando l’Italia però a un’inevitabile recessione che rischia di arrivare dopo la fine del PNRR che ha scadenza nel 2026.
Il lavoro per l’opposizione dovrebbe quindi essere piuttosto facile. Ma in assenza di un leader chiaro e di proposte condivise, PD e Cinque Stelle contestano soprattutto a Meloni l’incoerenza con il suo programma elettorale. Una critica che la premier ha imparato a usare a suo vantaggio: vedete, dice, in campagna elettorale ci dicevano che avremmo sfasciato i conti pubblici e invece siamo responsabili.
Almeno per ora gli elettori sembrano gradire questa narrazione di Meloni, che sia più per meriti suoi o più per demeriti delle opposizioni è difficile da dire.
- Dal Substack di Stefano Feltri, Appunti, 24 dicembre 2025







Niente di nuovo sotto il sole