Don Peppino Diana

di:

peppe diana

Il profeta fa da sentinella: vede l’ingiustizia, la denuncia e richiama il progetto di Dio (Ez 3,16-18).
Il profeta ricorda il passato e se ne serve per cogliere nel presente il nuovo (Is 43).
Il profeta invita a vivere, e lui stesso vive, la solidarietà nella sofferenza (Ger 8,18-20).
Il profeta indica come prioritaria la via della giustizia (Ger 22,3; Is 58)
(G. Diana, Educare alla legalità, Napoli 19 marzo 1992)

È uscito in questi ultimi mesi il libro di Sergio Tanzarella, Don Peppino Diana. Un prete affamato di vita, presso il Pozzo di Giacobbe. Un testo composto da otto intensi capitoli a cui si aggiunge un allegato (163-206) con alcune preziose testimonianze su don Diana che fu ucciso dalla camorra il 19 marzo 1994, esattamente trent’anni fa.

I temi e le questioni sollevati dalla ricostruzione di Sergio Tanzarella sono davvero molteplici a livello ecclesiale e politico, qui desideriamo segnalare una caratteristica triplice del lavoro del professore di storia del cristianesimo della Facoltà dell’Italia meridionale. Si tratta, nello stesso tempo, di un’opera rigorosamente storica, di un lavoro appassionato e partecipe ai problemi del contesto e quindi – per la serietà dell’analisi storica e per la passione civile che la anima – capace di suggerire piste di riflessione molto serie e feconde per la teologia cristiana.

Un lavoro dunque di storia, passione e teologia. Articoliamo la presentazione dell’intreccio di queste caratteristiche attraverso l’individuazione di alcuni possibili vettori interpretativi, forse utili per il lettore.

copertina

Bonifica storica

In primo luogo, sin dalla premessa, l’autore sottolinea il punto di partenza della ricerca ossia la faticosa storia della memoria del martirio di don Diana, il disinteresse delle amministrazioni locali e il desiderio di ricostruzione della vita di un prete «con una vita assolutamente normale vissuta in una delle tante, comuni e infinite periferie suburbane del Mezzogiorno. Anonime e inospitali» (8).

Ricostruzione che desidera essere precisa e basata sulle fonti proprio per l’importanza della testimonianza di don Diana: «Chissà che i lettori di questo libro dedicato a te Peppino, i più lontani e i più sconosciuti, non riprendano coraggio proprio grazie alla tua morte di martire, e che nelle nostre terre ancora più irrimediabilmente disperate del 1994, la rassegnazione possa essere vinta grazie al ricordo del tuo impegno nella ricerca della verità, alla tua vita controcorrente e al tuo coraggio di dare il giusto nome a cose, avvenimenti e realtà […] per la liberazione da una condizione di oppressione, di sudditanza e di morte» (14). Molto significativa in tal senso la dedica iniziale all’amico giornalista Mario Tudisco (15-16).

In secondo luogo, l’autore mostra la questione della ricerca storica fin qui svolta, che a parte alcune eccezioni, ha molto sofferto per imprecisioni, cose non vere, fantasie: «Il nome di Peppino Diana è [infatti] entrato nella ritualità di certa antimafia di maniera di taluni professionisti che, ignorando sia il contesto in cui maturarono le sue scelte sia le motivazioni che quelle scelte sostennero, si limitano a pronunciare il nome come uno slogan. E invece la figura di Diana meriterebbe maggiore attenzione e rispetto, e certo più impegno nel raccogliere tutte le fonti disponibili, soprattutto quelle del contesto di una estrema problematicità sociale ed ecclesiale come quella del casertano, per comprenderne la complessità all’interno degli anni ’80 e dei primi anni ’90. Questo libro non ha quindi la pretesa di completezza e vuole tracciare un primo elenco di problemi aperti che possa promuovere una ricerca storica sulla figura e sull’opera di Diana senza curarsi delle menzogne dei calunniatori […] e senza cadere però nella pochezza dell’agiografia spicciola carica di pacchiani errori storici, dannosa forse più delle calunnie» (19).

Viene svolto, quindi, un lavoro di bonifica storica per discernere il vero dal falso e soprattutto per cogliere l’orizzonte di fondo della vicenda di don Diana che «è da comprendere all’interno di una pastorale che non si accontentava più di celebrare i funerali degli uccisi dalla camorra […] e di adempiere alla gestione del sacro. Diana matura progressivamente una coscienza sacerdotale come parroco che gli impone: una pastorale di aderenza alla realtà, di lettura dei segni dei tempi, di comprensione del dovere per la Chiesa e della parresia» (29-30). Fa parte di questa ricerca storica attenta e circostanziata la capacità di rileggere criticamente anche la fiction del 2014 su don Diana in un capitolo intitolato significativamente Don Peppino Diana non è don Matteo.

Il contesto sociale e la formazione

In un terzo passaggio, l’analisi si fa serrata e mostra l’importanza della ricostruzione del contesto sociale, economico e politico che da al lavoro storico profondità e un senso esatto della temporalità degli eventi. Il capitolo in questione mostra l’intreccio impressionante tra malavita organizzata e responsabili politici e istituzionali, locali e nazionali, con l’appoggio di un deleterio collateralismo tra Democrazia Cristiana e Chiese locali. Il testo va letto in maniera integrale per rendersi conto che non si tratta di affermazioni generiche, ma di una ricostruzione precisa corroborata con documenti degli anni 1993-1994 della Commissione Parlamentare Antimafia in cui emerge l’ambiente della pastorale di Diana.

Un contesto «nel quale la forza criminale della camorra non prosperava soltanto di forza propria ma […] era alimentata da sezioni significative della pubblica amministrazione e da apparati dello stesso Stato in parte complici, in parte indifferenti. E tutto questo si manifestava nei momenti più significativi della democrazia: le elezioni. Le campagne elettorali erano condotte, come del resto lo sono ancora oggi, con viveri, promesse, benefici, minacce, un controllo pedissequo del voto, con gli elettori assenti presi casa per casa e condotti a votare» (54). Lo studio dell’ambito di vita di don Diana mostra così «un impegno generoso nella palude di una società dove la camorra esercitava una quasi incontrastata egemonia» (57).

Un ministero pastorale che proprio in un tale difficilissimo contesto si configura e si ispira alla profezia biblica ed evangelica, come emerge nelle parole dello stesso Diana nel 1992: «Il nostro impegno di denuncia è profetico, ma una profezia viva, vissuta. Non vi dico che parecchi di noi hanno sofferto anche delle telefonate strane. Io, qualche anno fa, ho tra le mie esperienze anche qualche piccola pistolettata. Ormai i confetti di piombo ci fanno quasi compagnia fissa tutti i giorni. Non a caso in una settimana ho celebrato tre funerali di morti di camorra» (58).

In un quarto momento Tanzarella ricostruisce in maniera analitica la formazione umana e intellettuale presso la sezione san Luigi della Facoltà Teologia dell’Italia Meridionale diretta dai padri gesuiti. È un testo importante (61-82) perché mostra le radici formative di una pastorale di natura profetica in cui risuona la svolta post conciliare della Compagnia di Gesù con la guida di Arrupe nella direzione della promozione della fede e della giustizia nel loro intrinseco legame. In particolare risulta di non poca rilevanza l’approfondita formazione alla lettura della Bibbia e alla sua corrente profetica.

Il coraggio della Parola

Tale ricostruzione della formazione di Diana permette di meglio delineare i tratti e le fonti del suo modo di interpretare e vivere la propria missione sacerdotale. Egli si ispira a figure come Oscar Romero, legge Primo Mazzolari e Carlos Mesters in cui la lettura biblica è sempre radicata nella comprensione viva del dolore del popolo. «È certo attraverso queste esperienze e letture che egli matura progressivamente la consapevolezza della necessità di una azione pastorale che non resti indifferente alle gravissime emergenze sociali che si vivono in quel tempo in Italia e nella provincia di Caserta stretta nella morsa delle associazioni criminali di numerosi e sanguinari gruppi camorristici e nella complessiva assenza e complicità delle istituzioni dello Stato. Tutti i dodici anni di ministero sono punteggiato da questo continuo e doloroso confronto in un territorio socialmente ed ecologicamente devastato e nel quale in poco più di un decennio vi furono molte centinaia di omicidi» (86).

Sono anni di febbrile attività in cui insieme con i confratelli parroci e diversi laici si lavora per una pastorale di effettivo rinnovamento che denunci il male e chiami al bene con «appello alla forza della parola». Alcuni documenti della Chiesa italiana degli anni Ottanta e la pastorale di Antonio Riboldi, vescovo di Acerra, costituiscono un altro tassello di un modo serio di prendere la realtà, letta e interpretata evangelicamente. Ma è soprattutto l’esempio, l’impronta pastorale e il legame personale, che si sviluppa dal 1991, con il vescovo di Caserta Raffaele Nogaro[1] – a cui è dedicato un intero capitolo del libro (137-151) – che animano e sostengono la prospettiva di una Chiesa che si sente chiamata a rispondere alle domande sollevate da una tale emergenza sociale e umana.

È in questo quadro che viene descritta l’uscita il 24 dicembre 1991 della lettera manifesto Per amore del mio popolo scritta dai sacerdoti della forania di Casal di Principe. Una lettera di straordinaria concisione e chiarezza in cui emerge «una grande e sofferta riflessione: essere segno di contraddizione. In questa realtà c’è bisogno che qualcuno inizi a essere segno di rottura, di contraddizione e quindi una forma di denuncia» (103). Lettera che attinge all’ispirazione profetica in cui la descrizione della realtà di ingiustizia e l’appello al bene e alla conversione sono due facce della stessa medaglia.

Nel 1992 affermerà don Diana: «Noi vogliamo testimoniare che se Cristo ci ha lasciato una Parola, questa Parola non la dobbiamo strapazzare, come per tanti anni abbiamo fatto, forse l’ho fatto io, lo abbiamo fatto tutti noi, spesso lo facciamo in questo nostre riunioni che convochiamo. Non bisogna strapazzare la Parola di Cristo, va fatta vivere, va spiegata […] e quindi quella Parola di salvezza la dobbiamo presentare, averne coraggio, non avere paura. Avere il coraggio di dire a una persona che usa l’arma che deve smettere» (104). La descrizione, a livello locale e nazionale, del quinquennio ‘90-’95, in cui avviene l’uccisione di don Diana, è magistrale e crediamo meriti un’attenta lettura (104-110).

Nel vivo del nostro tempo

In un quinto passaggio, molto significativo, l’autore continua la propria ricostruzione concentrandosi sul periodo successivo la morte di don Diana, utilizzando soprattutto la documentazione relativa ai vari processi riguardanti il suo omicidio. È una lettura estremamente istruttiva per comprendere la qualità umana e morale di don Diana nelle varie testimonianze e nello stesso tempo per cogliere l’insieme di depistaggi, calunnie e sospetti – anche istituzionali – che hanno circondato la sua figura.

Eloquente, in proposito, risulta il trattamento vessatorio e pregiudiziale riservato a Mons. Nogaro nell’interrogatorio del 6 dicembre 2002 (131-134) e significative le conclusioni del nostro autore in cui mostra, a fronte del contesto sociale degradato – che ha portato all’uccisione di don Diana e dopo la sua morte a vari tentativi di inquinarne la memoria – sull’importanza di un lavoro serio e approfondito, di natura culturale ed educativa per lavorare ad un risanamento ambientale e sociale nella linea di un’attuazione della carta costituzionale nei suoi desideri di una vera giustizia sociale (134-135).

Un’ultima parola – ed è un sesto passaggio – sul capitolo conclusivo Nel nodo del dramma umano. Il tema meriterebbe da solo una trattazione ampia ed adeguata, qui basti ricordare come un senso vivo e non apatico del contesto sociale di allora e di oggi, insieme con un lavoro storico senza sconti fanno di questo libro uno straordinario strumento di analisi anche teologica. Il capitolo conclusivo consiste infatti in una rilettura alla luce dell’insegnamento di papa Francesco – insieme con una comprensione acuta di una rinnovata teologia del martirio – della testimonianza umana e cristiana di don Diana che può rappresentare una sorta di cartina di tornasole per molte questioni della vita della Chiesa di ieri e di oggi.

Leggere la conclusione da infatti l’impressione di trovarsi nel vivo delle questioni del tempo attuale in cui la Chiesa pare chiamata a scegliere se auto-preservarsi – o meglio se preservare brandelli e rottami di una pastorale che sembra non interrogare e non parlare più – oppure preoccuparsi con tutte le forze disponibili – umane e spirituali, culturali e operative – del «reale inserimento del vangelo nel popolo di Dio e nei concreti bisogni della storia» (Francesco, EG 95). Questo è il nodo che l’impressionante vicenda di don Diana – letta con intelligenza, amore e precisione – conduce ad affrontare senza finzioni e con un forte desiderio di verità ed autenticità.


[1] Si veda M.C. Caiola, A. Carfora, L. Kocci, F. Mandreoli, S. Tanzarella, Il vescovo Raffaele Nogaro. 90 anni di radicale mitezza, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2024.

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Un commento

  1. strazzari Francesco 1 aprile 2024

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