Giovanni Paolo II. Bilancio di un pontificato

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Giovanni Paolo II

Questo bilancio del pontificato di Giovanni Paolo II è stato scritto in occasione dei cento anni della sua nascita (18 maggio 2020) dal teologo spagnolo Xabier Pikaza (1941): basco di origine, con dottorato in filosofia, e studi al Biblico di Roma, già membro della congregazione dei mercedari, docente presso la celebre Università pontificia di Salamanca, con corsi nelle università sudamericane. Autore di numerose pubblicazioni, è considerato uno dei più autorevoli teologi spagnoli (a cura di Antonio Dall’Osto e Francesco Strazzari).

Giovanni Paolo II nacque cent’anni fa (18 maggio 1920) a Wadowice, in Polonia ed è morto da quindici (1° aprile  2005) in Vaticano. Fu papa per quasi 27 anni (1978-2005). Fu uno degli uomini più influenti e discussi dell’ultimo secolo.

Lo vidi quando venne alla Pontificia università di Salamanca (1982) e successivamente a Roma, nel Capitolo di Santa Maria della Mercede (1992), quando ci scambiammo alcune parole sulla teologia di Salamanca.

Ho un’idea della sua teologia e del suo papato dal 1981, quando noi, membri della cattedra Domingo de Soto dell’Università di Salamanca, abbiamo elaborato una relazione sul suo pensiero socio-religioso, su richiesta di alte istanze che non sapevano come porsi nei suoi riguardi.

Fu un uomo controverso e alcuni osano dire un papa di parte più che della Chiesa intera, un uomo la cui eredità continua ad essere grande, ma sembra incrinata. Contribuì alla caduta del marxismo politico, ma questo collasso fu l’occasione o l’inizio di nuove dittature. Criticò il vecchio capitalismo, ma dopo ne sorse un altro di tipo neo-liberale peggiore del precedente. Fu il papa dell’evangelizzazione integrale, ma recise germi di liberazione ecclesiale che avrebbero potuto essere più promettenti.

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In tutta la storia forse non c’è nessuno nel cui nome siano stati scritti e firmati tanti documenti, centinaia di migliaia di pagine molto buone di encicliche, esortazioni, documenti, ma in gran porte dimenticate in archivi, biblioteche e centri di documentazione elettronica. Si dice che fu un santo (un atleta della fede) e fu subito canonizzato (santo subito!), ma sono molti coloro che non si sentono rappresentati dalla sua santità…

Potremmo continuare all’infinito con il suo paradosso. Io ho un ricordo di lui personale, ecclesiale e teologico “agrodolce” (forse più agro che dolce) e sento che il suo papato non fu buono per l’insieme della Chiesa, ma voglio ricordarlo con affetto, nel centenario della sua nascita, perché fu un grande cristiano, vescovo di Roma.

Giovanni Paolo II

Dopo il brevissimo pontificato di Giovanni Paolo I, durato solo 33 giorni (dal 26 agosto al 28 settembre 1978), fu eletto papa il cardinale polacco (Karol Wojtyla (1920-2005) che prese il nome di Giovanni Paolo II e guidò la Chiesa per oltre ventisei anni, in mezzo a una quantità di problemi.

Dopo quindici anni dalla sua morte, le linee guida del suo pontificato continuano a segnare l’orientamento di moltissimi cattolici così che è difficile dare un giudizio imparziale sui suoi valori e le sue possibili lacune.

Aveva una grande personalità, corroborata dalla sua esperienza precedente sotto la barbarie nazista (1939-1945) e la dittatura comunista (1945-1978) e fu un papa convinto della sua missione magisteriale e amministrativa in una Chiesa che ha guidato in maniera instancabile, con l’applauso di alcuni, la perplessità di altri e l’ammirazione della maggioranza.

È stato uno dei personaggi sociali e religiosi più significativi della seconda metà del sec. XX, dal momento che il suo pensiero e la sua azione hanno definito in maniera marcata la vita della Chiesa cattolica e politica dell’Europa, con la caduta dei governi comunisti vincolati all’asse sovietico. I suoi contributi pastorali e sociali sono molto numerosi e si riflettono nelle encicliche, nelle esortazioni, nelle lettere e in altri testi più occasionali che occupano più di centomila pagine scritte.

Nonostante ciò, Giovanni Paolo II è stato più pastore che pensatore, più uomo di azione che teologo. Significativamente, in questa linea, lasciò i temi teologici di fondo in mano a J. Ratzinger (futuro Benedetto XVI) da lui nominato prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (1981), con l’incarico di difendere un certo tipo di ortodossia cattolica.

Il suo pontificato fu generoso nel dialogo con le diverse tendenze politiche e sociali, ma implicò un tipo di ripiegamento verso posizioni di maggiore “sicurezza” teologica e di una maggiore uniformità intraecclesiale.

L’insegnamento di Giovanni Paolo II abbraccia praticamente tutti i temi della teologia, elaborati in modo fondamentalmente trinitario da Redemptor hominis (1979), in cui sviluppa il mistero di Cristo, a Dominum et vivificantem (1986), che si occupa dello Spirito Santo, passando per Dives in misericordia (1980), che tratta di Dio Padre. La sua teologia fu, in linea di principio, molto tradizionale, ma ha avuto il merito di offrire un corpo teologico completo, anche se forse meno attento alle novità della modernità, dal punto di vista evangelico.

Giovanni Paolo II è stato il papa del secondo millennio, e per questo preparò e commentò con enorme interesse la celebrazione del Giubileo del 2000 della nascita di Cristo, dalla lettera apostolica Tertio millennio adveniente (10 novembre 1994) che annunciava e organizzava il grande evento, fino alla Novo millennio ineunte (6 gennaio 2001), con cui ratificava l’ingresso e il compito del nuovo millennio, iniziando con alcune parole molto significative: «All’inizio del nuovo millennio, mentre si chiude il Grande Giubileo in cui abbiamo celebrato i duemila anni della nascita di Gesù e un nuovo tratto di cammino si apre per la Chiesa, riecheggiano nel nostro cuore le parole con cui un giorno Gesù, dopo aver parlato alle folle dalla barca di Simone, invitò l’apostolo a “prendere il largo” per la pesca: “Duc in altum” (Lc 5,4). Pietro e i primi compagni si fidarono della parola di Cristo e gettarono le reti. “E avendolo fatto, presero una quantità enorme di pesci”» (Lc 5,6) (Tertio millennio, 1).

Erano parole molto belle, piene di vangelo e di speranza per il terzo millennio, ma che non si tradussero in un nuovo impulso ecclesiale, perché, visto nel suo insieme, il papato di Giovanni Paolo II continuò ad essere ancorato nel secondo millennio così che il “duc in altum” di Gesù a Pietro non si tradusse di fatto in un impegno più profondo di “navigazione ecclesiale”, nella linea della nuova “rotta/tragitto della Chiesa all’inizio del terzo millennio.

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Giovanni Paolo II continuò ad essere ancorato alla Chiesa e alla teologia dell’inizio del secondo millennio (dall’anno 1000 d.C. in avanti) che comincia in maniera significativa con le “conversione degli slavi” (e in particolare dei polacchi) e con la Riforma gregoriana e l’istituzione della Chiesa gerarchica romana.

Fu il maggior rappresentante del passaggio della Chiesa dal secondo al terzo millennio, ma a quindici anni dalla sua morte (2005) il suo messaggio e la sua Chiesa ci sembrano già parte di una Chiesa del passato. Abbiamo molto da imparare da lui, dalla sua fermezza nella fede, dalla sua ricerca di sicurezza, dalla sua dedizione… Ma la sua Chiesa non è più semplicemente la nostra.

Tre magisteri. Sociale, culturale e interreligioso
  • Magistero sociale. Forse questo è stato l’ambito più fecondo del suo pontificato. nella linea della giustizia come si può vedere in Sollicitudo rei socialis (1987) e Centesimus annus (1991) in cui riprende e ricrea alcuni motivi basilari della Rerum novarum di Leone XIII.

Il papa si oppone non solo al marxismo, ma anche in modo speciale, al capitalismo, sottolineando il valore primordiale della persona e la priorità del lavoro sul capitale.

Le sue parole sono state ascoltate con rispetto da politici e pensatori di varie tendenze, ma non furono accolte da tutti, né applicate in maniera coerente nel campo della politica e dell’economia internazionale (capitalista). In questa linea, la sua insistenza sulla priorità del lavoro personale sulla ricchezza (il capitale) e il mercato va contro il nuovo spirito e la prassi del capitalismo attualmente dominante.

  • Impegno e missione culturale. Nuovi areopaghi. La sua enciclica Redemptoris missio (1990) offre un programma molto audace di missione cristiana, unendo insieme la lotta alla povertà (nei quarti mondi, dominati dalla fame e dall’ingiustizia) con la presenza della Chiesa sul piano della cultura, aprendo così nuovi areopaghi affinché il cristianesimo dialoghi con il pensiero attuale (nella linea di Atti 17).

«Il primo areopago del tempo moderno è il mondo delle comunicazioni, che sta unificando l’umanità rendendola – come si suol dire – “un villaggio globale”. I mezzi di comunicazione sociale hanno raggiunto una tale importanza da essere per molti il principale strumento informativo e formativo, di guida e di ispirazione dei comportamenti individuali, familiari, sociali…».

Molti altri sono gli areopaghi del mondo moderno verso cui si deve orientare l’attività missionaria della Chiesa. Ad esempio, l’impegno per la pace, lo sviluppo e la liberazione dei popoli; i diritti dell’uomo e dei popoli, soprattutto quelli delle minoranze; la promozione della donna e del bambino; la salvaguardia del creato sono altrettanti settori da illuminare con la luce del Vangelo.

È da ricordare, inoltre, il vastissimo areopago della cultura, della ricerca scientifica, dei rapporti internazionali che favoriscono il dialogo e portano a nuovi progetti di vita. «Conviene essere attenti e impegnati in queste istanze moderne…» (RM 37).

  • Dialogo con le religioni. Giovanni Paolo II ha sottolineato il legame tra le diverse religioni, dialogando non solo con i monoteismi abramitici (ebraismo, islam) ma anche con altre tradizioni spirituali, come hanno mostrato gli incontri celebrati ad Assisi, sotto il patrocinio di san Francesco, a servizio della comunione e della pace.

Nessun papa aveva in precedenza mostrato questa capacità di dialogo e rispetto verso le tradizioni religiose. Tuttavia, sono molti i cristiani e i credenti di altre religioni che temono che la sua posizione implichi un atteggiamento di dominio e di superiorità cristiana (cattolica), per cui non sono d’accordo con la dichiarazione Dominus Jesus della Congregazione per la dottrina della fede, firmata dal card. Ratzinger (2000), in cui si insiste in modo speciale su questa superiorità formale della Chiesa cattolica.

Giovanni Paolo II annunciò il terzo millennio di Cristo e lo fece con enorme rigore intellettuale, con grandi documenti e sinodi dedicati al questo argomento. Ma lui, con il suo modello di Chiesa, continuò a far parte del secondo millennio, ratificando e in certo senso portando al suo culmine la visione della Riforma Gregoriana e dell’inizio del secondo millennio. Forse non seppe rendersi conto che iniziava un millennio del tutto diverso, che certe cose non potevano ripristinarsi, che bisognava realmente andare più in profondità, col suo motto latino duc in altum (Lc 5,4) che poteva essere tradotto con “naviga in altra maniera”, poiché il mare è diverso. In questa linea si può intendere (e riformulare) gran parte del suo magistero.

Magistero intraecclesiale

In questo campo, il magistero di Giovanni Paolo II è stato più “tradizionale”, insistendo sulle ultime posizioni di Paolo VI, sui temi già indicati circa il celibato ministeriale, la regolazione “fisica” della sessualità e la proibizione del ministero alle donne.

A questi argomenti bisogna aggiungere la sua ferma presa di posizione contro la teologia della liberazione, con ciò che questo comporta riguardo la visione sociale, la libertà e l’impegno della Chiesa nel campo concreto dell’impegno diretto a favore di poveri.

  • Morale della persona

Il papa ha ratificato la dottrina di Paolo VI (Humanae vitae, 1968), approfondendola, in modo più sistematico ed esigente, nella sua enciclica Evangelium vitae (1995). Certamente è stata esemplare la sua difesa della vita in tutti i momenti, ma in alcuni casi (come nel rifiuto globale dei metodi contraccettivi) è forse poco sfumata e mal fondata nell’insieme del NT, più centrata in un genere di proibizioni che nella manifestazione personale dell’amore e della vita delle coppie cristiane.

  • Antropologia

Giovanni Paolo II ha voluto essere un antropologo in linea con il personalismo e sono molto preziose le sue riflessioni sul significato della vita e della dignità degli uomini e delle donne. Ma la sua visione dell’uomo e della donna sembra più centrata su un tipo di possibile “diritto naturale” (fondato su un tipo di antropologia fisicista) che nel messaggio del vangelo letto alla luce della modernità. In questo modo, la sua visione dell’uomo e della donna (e nel suo insieme la visione dell’umanità) ha un significato e un fondamento più “ontologico” che biblico.

  • Ordine ministeriale

Giovanni Paolo II è stato un uomo di Chiesa ma in una linea di ordinamento esteriore più che di libertà personale, di obbedienza alla legge più che di autonomia individuale e di ricerca comunitaria. Su questo piano, salve tutte le distanze, la sua posizione si può paragonare a quella del neo-conservatorismo ecclesiale e sociale (filosofico ed economico) di molti politici e pensatori dell’ultimo terzo del secolo XX.

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Era un papa che veniva da un contesto diverso, il primo papa polacco, il primo ad essere stato formato in un contesto comunista. Forse per questo gli sembrò più importante il mantenimento di un ordine cristiano, fissato dall’esterno (in linea clericale e di autoaffermazione ecclesiale) che non l’espressione della libertà del vangelo.

  • Il tema dell’abuso su minori in un certo tipo di clero

Giovanni Paolo II sostenne la legge del celibato e difese “l’onore clericale” in un contesto in cui cominciavano a divulgarsi i problemi dell’omosessualità di un tipo di clero, con molti scandali di pedofilia. Conosceva bene il problema, ma non ebbe il coraggio di affrontarlo seriamente andando alle sue radici. Forse era troppo anziano per questo, la sua visione della Chiesa era troppo “sacrale/spirituale” per un tema come quello della “carne” (nella linea di Gv 1,14). Morì forse con la sofferenza di non poterlo affrontare e cominciare a risolverlo con chiarezza e carità, con verità cristiana. Non conosciamo bene i dettagli della “trama” clericale dell’“alto Vaticano”, in cui Giovanni Paolo II non si sentiva a suo agio. Evidentemente, nonostante i suoi valori (e in parte per essi) non era l’uomo capace di affrontare evangelicamente i temi.

  • Teologia e moralità di genere 

Ai temi precedenti va aggiunto quello della sua teologia e morale di genere, con il divieto dell’accesso delle donne ai ministeri. Certamente, Giovanni Paolo II è stato un papa molto interessato al ruolo e alla dignità delle donne nella Chiesa, come dimostra la sua lettera apostolica Mulieris dignitatem (1988), in cui difese un femminismo della differenza. Ma in quella linea della differenza di genere e di sesso, e fondandosi su una visione gerarchica del Cristo maschio, il papa continuò a rifiutare l’accesso della donna ai ministeri ecclesiali (Ordinatio sacerdotalis, 1994). In questo contesto, moltissime donne e uomini hanno provato e provano difficoltà ad accettare la visione antropologica, biblica, teologica che sta alla base della sua teologia e dottrina sulla donna, pensando che non sia definitiva, in modo che potrà e dovrà essere riveduta in futuro.

Teologia della liberazione

Forse è il tema più importante del papato di Giovanni Paolo II e deve essere per giunta interpretato nel contesto della visione generale della sua teologia, della sua Chiesa e della storia cristiana. Ma ha finito con l’essere il più significativo e mediatico. Bene incanalata, incoraggiata e potenziata (e corretta) dal Vaticano, la teologia della liberazione avrebbe potuto costituire un fattore chiave della Nuova evangelizzazione e della nuova immagine di Chiesa. Ma la tarda visione del Vaticano (con il papa Giovanni Paolo II) trasformò questo tema in un campo di rovine, non solo della teologia della liberazione ma dell’intera Chiesa.

La teologia della liberazione era nata in America Latina per espandersi poi in tutto il mondo, aprendosi alle Chiese protestanti e persino ad altre religioni (come il buddismo e alcuni tipi di induismo). Più che una teologia scolastica (accademica), è uno stile integrale di pensiero e di vita cristiana, dalla prospettiva dei poveri, in linea con il Vangelo. Accettando in linea di principio alcuni valori di questa teologia, Giovanni Paolo II (e Benedetto XVI) hanno reagito ad essa con sospetto, poiché hanno avuto paura delle sue possibili connotazioni comuniste e antigerarchiche (soprattutto anti-gerarchiche).

Giovanni Paolo II ebbe paura di “lasciare” la teologia e la vita della Chiesa nelle mani dei fedeli, ossia, del popolo di Dio e delle comunità vive secondo il Vangelo. Forse sentì la “sindrome del potere” pensando che solo da una prospettiva di potere, ben diretto dall’alto, con vescovi obbedienti alla lettera della gerarchia (più che al Paraclito di Cristo), la Chiesa può essere di guida e avere successo.

Si è trattato di una “lotta sorda” di Giovanni Paolo II e dei suoi consiglieri con alcune Chiese più focalizzate sulla vita e l’opera delle comunità, ritenendo che esse conducessero, da un lato, al comunismo e, dall’altro, a un tipo di rilassatezza personale e sociale. Perciò, per prevenire i rischi di un certo tipo di libertà cristiana, essi si impegnarono a creare una Chiesa obbediente attorno al papato, con vescovi ben sottomessi ad un’autorità fissata dal di fuori, vescovi funzionari, non pastori liberi di una Chiesa di cristiani adulti. Ottennero l’obbedienza (un tipo di obbedienza!), ma corsero il rischio di perdere la vita reale della Chiesa.

Non tutta la colpa dipese in alcun modo da loro. La “colpa” fu piuttosto del nuovo “spirito” che stava emergendo ovunque. Un nuovo capitalismo dell’ordine, una nuova struttura di potere che iniziava a imperare negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso nel campo economico, politico e sociale, con un sordo, forte (e falso) liberalismo anti-cristiano (o di persone che utilizzavano e utilizzano il cristianesimo per difendere i loro privilegi e le loro sicurezze). Su questo sfondo voglio interpretare la reazione di papa Giovanni Paolo II di fronte alla teologia della liberazione (o detto meglio), di fronte a ciò che poteva rappresentare in questo nuovo tempo.

Contro la teologia della liberazione 

Giovanni Paolo II era cresciuto in un contesto marxista e forse non ha potuto conoscere le sfumature della teologia della liberazione, sorta e cresciuta in America Latina, in un contesto ecclesiale e sociale molto diverso che, a suo avviso, era incline al comunismo e contrario all’identità gerarchica della Chiesa cattolica. Così è indicato nei documenti preparati, dietro suo mandato, dalla Congregazione per la dottrina della fede: Libertatis nuntius (1984) e Libertatis conscientia (1986), sottolineando gli errori dottrinali e i pericoli ecclesiali di questa teologia che, a suo parere, sarebbe dipendente dal marxismo e distruggerebbe l’autonomia della Chiesa per trasformarla in un’istanza sociale senza fondamento nella rivelazione di Gesù Cristo.

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Molti teologi e credenti pensano che quelle condanne non rispondano in realtà a ciò che la teologia della liberazione voleva e vuole realmente e lo stesso vangelo, così che dovranno essere rivedute in futuro (come sta avvenendo di fatto nel pontificato di Francesco, a partire dal 2013).

Ma molto più di questi documenti ha influito il modo con cui Giovanni Paolo II ha trattato le persone di Chiesa che, a suo giudizio, potevano cadere in un tipo di comunismo o di dimenticanza della dimensione spirituale della vita cristiana, come sant’Oscar Romero (assassinato nel 1980).

È stata importante anche la sua politica nel nominare i vescovi per l’America Latina (e per la Chiesa nel suo insieme) in una linea di sicurezza dottrinale e di imposizione ecclesiale (contro le linee guida del tempo di Paolo VI).

Paura di pensare a partire dalla libertà del vangelo, con la libertà di Gesù

La teologia della liberazione riceve acqua da varie fonti. Si ispira al movimento delle comunità ecclesiali di base (CEB), sorte in Brasile attorno all’anno 1960 e assume elementi propri della teologia politica che alcuni teologi cattolici e protestanti come J.B. Metz e J. Moltmann stavano sviluppando in Europa, sempre negli anni ’60.

Si ispira anche ad alcuni grandi documenti del Vaticano II (Gaudium et spes) e del CELAM (Medellin 1968), ratificati da Paolo VI: Evangelii nuntiandi (1976). Ma la fonte basilare è il tentativo di leggere e attualizzare il Vangelo di Gesù dalla prospettiva dei poveri e degli esclusi che costituiscono la maggioranza della società latinoamericana.

Fu un movimento di teologi, vescovi, sacerdoti, religiosi e religiose… di popolo. All’origine della teologia della liberazione ci sono diversi vescovi e teologi, come H. Camara, P. Casaldáliga, S. Méndez Arceo, R. Muñoz, H. Assmann, J. Comblin, J.L. Segundo, S. Galilea, L. Boff, I. Ellacuría e J. Sobrino. Ma il suo rappresentante più significativo continua ad essere Gustavo Gutiérrez che pubblicò un libro intitolato teologia della liberazione (Lima 1971; Salamanca 1972) in cui presentava un programma completo di vita cristiana, determinando una specie di nuova svolta copernicana; bisognava passare dal cristianesimo come ideologia (giustificazione sacrale dell’ordine stabilito) al cristianesimo come principio di trasformazione sociale, senza abbandonare per questo il mistero della vita e della trascendenza, anzi, al contrario, rafforzando un nuovo impegno evangelico di fedeltà alla storia di Gesù e di solidarietà con i poveri.

Ma, contrariamente a ciò, Giovanni Paolo II e una parte della Curia vaticana ebbero paura di questa teologia e di questo movimento di Chiesa, pensarono che attraverso di essa si sarebbero distrutti i principi dell’ordine cristiano.

Ricordo perfettamente gli argomenti di fondo. Ho vissuto a quel tempo (1984) con mons. Aparicio, un buon amico, vescovo ausiliare di Cuzco, uomo molto tradizionale, ma scandalizzato dal modo in cui (così mi diceva) Ratzinger e Giovanni Paolo volevano mettere a tacere la voce del popolo cristiano, dal di fuori, dall’alto, condannando la teologia della liberazione.

Cristianesimo, realtà sociale

La teologia occidentale, a partire dal suo incontro con l’ellenismo, nel secolo IV, si era sviluppata come scienza teorica, all’interno di una visione sacralizzata e gerarchica della realtà. Aveva finito per essere, almeno in parte, un’ideologia, un pensiero per garantire l’ordine stabilito, tanto sul piano politico come in quello economico. In definitiva, la teologia della liberazione vuole riprendere l’ispirazione dei profeti e di Gesù, come messaggero e promotore del regno di Dio. Per questo fa appello alle scienze sociali, non per lasciarsi manovrare da esse, ma per conoscere meglio il mondo reale e per trasformarlo, a partire dall’ascolto della parola di Dio.

In questo campo può appellarsi (e a volte l’ha fatto) all’analisi del marxismo, ma non come filosofia teorica (o metafisica atea), ma come strumento di analisi sociale e di conoscenza della realtà.

La parola centrale della teologia della liberazione non deriva dal marxismo, né da alcuna teoria sociologica, ma dall’esperienza biblica, vale a dire dalla parola di Dio, così come risuona nell’Esodo, nella voce dei profeti e, in modo speciale, nella vita e nella pasqua di Gesù. Lo scopo della teologia della liberazione era di ricreare la Chiesa a partire dai poveri, come ha voluto e fatto Gesù, come fecero i suoi primi seguaci.

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Ma Giovanni Paolo II e i suoi collaboratori non la vedevano così. Pensarono che la teologia della liberazione fosse anzitutto un tentativo di “far esplodere” la Chiesa gerarchica, un cattivo comunismo e liberalismo per il popolo, ma senza Cristo, così impedirono che si aprisse, si fecondasse nell’insieme della Chiesa e lo fecero per una paura sociale più che in base alla radice del vangelo.

Coscienza della Chiesa. Popolo di testimoni

La teologia della liberazione afferma che la Chiesa deve superare il pensiero fondato sulle basi del potere, più platoniche che cristiane (a servizio della sacralità di un sistema inteso come espressione della volontà di un essere divino superiore) per scoprire le esigenze pratiche del vangelo, a servizio del regno di Dio, partendo da un Dio che si inserisce nella vita degli uomini, agendo dal basso, dai poveri e dagli esclusi, come dice Paolo (cf. Fil 2,6-11), come fece Gesù.

Non vuole, pertanto, un piccolo cambiamento esterno, ma una trasformazione radicale della Chiesa, sia sul piano esterno (a servizio della liberazione dei poveri) sia interno, superando così una visione di Dio come potere che impone dall’alto e che si rivela attraverso una gerarchia con potere sul popolo. In questo contesto si collocano i numerosi casi di cristiani difensori della giustizia sociale, assassinati da questi poteri stabiliti, tra cui mons. O. Romero (1989), I. Ellacuría e i suoi compagni dell’UCA, nel Salvador (1989).

Ma Giovanni Paolo II temeva che in fondo ad un tipo di liberazione e di libertà evangelica (cristiana) si nascondesse un puro anti-cristianesimo, una pura ideologia sociale contraria all’ordine sacro del vangelo. Fu una grande sofferenza, un grande dolore, un’occasione persa di vangelo. Oggi (2020), a 40 anni dalla lotta contro la teologia della liberazione (con tutto ciò che essa avrebbe potuto essere ), forse è troppo tardi. Non si tratta più di tornare semplicemente a ciò che avrebbe potuto essere una Chiesa della liberazione. Si tratta, piuttosto, di cominciare dal basso, dalla concretezza della vita, dal vangelo.

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11 Commenti

  1. Fiorella Bocci 28 febbraio 2022
  2. gsimy 31 maggio 2020
    • Angela 31 maggio 2020
  3. Maria Teresa Pontara Pederiva 30 maggio 2020
    • Angela 30 maggio 2020
    • Angela 30 maggio 2020
  4. FS 30 maggio 2020
  5. Donatella 29 maggio 2020
  6. Stefania 28 maggio 2020
  7. Stefania 28 maggio 2020
    • Davide 29 maggio 2020

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