Leone IV, “restauratore di Roma”

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«Fratelli e sorelle, l’esercizio del discernimento, che nasce da questi interrogativi, permette alla nostra fede e alla Chiesa di rinnovarsi continuamente e di sperimentare nuove vie e nuove prassi per l’annuncio del Vangelo. Questo, insieme alla comunione, dev’essere il nostro primo desiderio. In particolare, oggi vorrei rivolgermi alla Chiesa che è in Roma, perché più di tutte essa è chiamata a diventare segno di unità e di comunione, Chiesa ardente di una fede viva, Comunità di discepoli che testimoniano la gioia e la consolazione del Vangelo in tutte le situazioni umane».[1]

Rinnovamento continuo e discernimento: questi – secondo Leone XIV – i desideri e gli obiettivi di tutti coloro che, essendo arcivescovi, hanno in qualche modo il compito di coordinamento delle Chiese particolari del proprio territorio. Essi, in particolare, in unione con la Chiesa di Roma, sono chiamati a testimoniare la gioia e la consolazione del Vangelo.

La Chiesa di Roma è, più di tutte le altre, segno di unità e di comunione tra i Pastori

Queste parole, con il loro riferimento particolare alla Chiesa che è in Roma, mi hanno evocato alcuni passaggi del discorso che, proprio in San Pietro, un altro Leone – papa Leone IV –, pronunciò nel corso del Sinodo di Roma dell’anno 853: «in concilio romano», come dicono le fonti, nel momento in cui il papa “restauratore di Roma” e costruttore di ponti – papa Leone IV, appunto –, si trovò alla presenza dell’imperatore Ludovico (il Germanico) e al cospetto di tutti i vescovi del circondario del territorio centro-settentrionale della penisola italica.

Due vescovi, a quel tempo in lite a motivo di pertinenze ecclesiali, erano davanti al papa di Roma insieme con tutti i vescovi dei territori interessati: Ravenna, Lucca, Pistoia, Fiesole, Pisa, Volterra, Chiusi, Roselle, Sovana, Orvieto, Tuscania, Centocelle, Spoleto… e molti altri.[2]

Assonanze ed echi dell’oggi, come ricordano gli studi attuali in campo epigenetico: sembra davvero che sia i traumi sia le esperienze difficili di vita possano lasciare tracce non solo in un tempo passato, ma attraverso i secoli.

È come se il momento di attrito e di disunione, che veniva affrontato a metà del secolo IX nell’aula di San Pietro, alla presenza di papa Leone IV e dell’imperatore e, giungesse, attraverso i secoli, se non proprio a modificare la nostra espressione genica, almeno a indirizzare lungo certe vie percettive gli ormoni e i neurotrasmettitori di chi, come noi, si trova a riflettere sulla lunga catena dei papi col nome Leone, cercando nodi storico-culturali importanti e soluzioni senza tempo per gestire e comporre unità.

Forse anche per questo ci sembrano più vive le parole che l’attuale Leone, pronuncia nel momento in cui consegna il pallio ad alcuni metropoliti, ricordando che esso è il segno del compito pastorale affidato a ogni Pastore: tutti sono chiamati alla comunione con il vescovo di Roma perché, nell’unità della fede cattolica, ciascuno possa poi alimentarla nelle Chiese locali a ciascuno affidate, vincendo gli attriti e le contese e, soprattutto, costruendo ponti.

Sotto gli imperatori Ludovico e Lotario e sotto Carlo il Calvo…

Negli atti ufficiali di papa Leone IV, si legge dunque che quel pontefice, esattamente nell’anno 853, si trova nella chiesa di San Pietro in Roma con le autorità politiche imperiali e con molti altri vescovi. È il momento del Sinodo romano: oltre al papa, è presente il piissimo (al superlativo!) imperatore Ludovico, detto, nei libri di storia, il Germanico.

La riunione ecclesiastica racconta plasticamente i primi esiti ecclesio-politici del sistema feudale, inaugurato, come si ricorderà, da Carlo Magno con la benedizione di papa Leone Magno.

All’epoca del quarto papa di nome di Leone, si vede, per così dire plasticamente in azione quel “sistema”, e proprio nella chiesa del principe degli apostoli.

In quel sinodo, il pontefice romano viene presentato in perfetta unione con l’imperatore Lodovico, l’Augusto piissimo: bisogna, infatti, dirimere un litigio territoriale, insorto tra vescovi del centro della penisola, anzi proprio per questo è stato indetto il Sinodo.

Questo del litigio territoriale, nella stagione feudale, è come l’emblema degli effetti perversi prodotti dalla soluzione feudale, a seguito dell’ingresso dei Longobardi in Italia. Ne farà cenno anche una tragedia manzoniana (l’Adelchi), attraverso la figura di Ermengarda, principessa longobarda sposata a Carlo Magno, il cui matrimonio fu poi dichiarato nullo.

Sul piano storico generale, si ricorderà che, scomparso Pipino nell’838, morto l’imperatore Ludovico il Pio nell’840, i tre figli sopravvissuti, Lotario (che fu re d’Italia dal 818 al 839), Ludovico (detto il Germanico), e Carlo (detto il Calvo), si disputano l’eredità dell’advocatus sanctae ecclesiae, per cui il conflitto tra fratelli si concluderà con la stipula del Trattato di Verdun (843).

E questo, proprio alla vigilia dell’elezione del quarto papa che sceglie il nome di Leone: nell’842, infatti, Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico strinsero un’alleanza a Strasbourg contro il fratello, imperatore Lotario: alleanza che fu rotta dopo il Trattato di Verdun (843), che aveva confermato Carlo il Calvo e Ludovico il Germanico nel possesso dei loro domini e assegnato a Lotario (figlio di Ludovico il Pio che, a sua volta, era figlio di Carlo Magno) il titolo di imperatore, nonché il controllo dell’Italia e della Lotaringia (una fascia di territori che partiva dal Mare del Nord nei Paesi Bassi e scendeva fino alle Alpi Occidentali).

L’alleanza trono-altare, dovuta al sistema feudale, comportava procedure insieme clericali e politiche, anche perché diversi vescovi erano allora dignitari feudali.

Ma torniamo nell’aula di San Pietro, alla presenza di Leone IV e di Ludovico (il Germanico), per conoscere il motivo della lite tra vescovi, che i due poteri, politico ed ecclesiale, sono chiamati a dirimere, sotto la presidenza primaziale del papa: «Nullum inibi fuisse litigium manifesta res docet, nisi ab ingressu gentis Langobardorum in Italiam». Era stata, insomma, l’invasione longobarda nella penisola che, introducendo un elemento esterno negli accordi feudali e territoriali pre-esistenti, a favorire delle controversie (non solo politiche, ma anche religiose) circa il territorio delle diocesi.

La fonte ecclesiastica romana racconta: «In concilio Romano pro episcopo Senensi contra episcopum Aretinum, in controversia de diversis ecclesiis sive parochiis, anno 853…».

Il vescovo di Siena, Canzio, è, dunque, in controversia con Pietro, vescovo di Arezzo, e contesta addirittura una precedente decisione di papa Adriano.[3] Ed ecco il criterio che viene enunciato da Leone IV: «ubi inveterata pacis debent consistere bona, decide Episcopus alienam civitatem, quæ non est illi subjecta, non invadat».[4] Siano, dunque, restituite alla Chiesa di Siena le parrocchie e i territori che erano già stati suoi, in nome di una prassi di bene invalsa nel tempo.[5] Una soluzione, diremmo oggi, politico-ecclesiastica che fa appello alla tradizione ed alla pace consolidata più che alla mera forza.

Quando cardinali e vescovi abbandonavano le loro sedi e i Saraceni premevano sulle coste…

Oggi, dopo la fine di un potere politico ecclesiastico, i sistemi concordatari (come quello stipulato, in Italia, tra Stato e Chiesa nel 1929) consentono di risolvere a livello intra-ecclesiale le controversie territoriali. Ma quelle presenze episcopali e imperiali nell’aula di San Pietro ai tempi di Leone IV, ci raccontano non soltanto un’altra storia, ma anche degli aspetti di confronto, collaborazione, e anche eventuale dissenso, tra Chiesa di Roma e poteri pubblici, a riprova che i rapporti tra Chiesa e potere politico rappresentano uno dei nodi di quella che chiamiamo dottrina sociale della Chiesa, in epoca ormai postmoderna.

Un’epoca con dei criteri, a cui il quattordicesimo Leone non può non rifarsi, quando, ad esempio, indirizza un Messaggio ai partecipanti alla Settimana sociale di Lima in Perù (14-16 agosto 2025), ricordando come devono procedere i rapporti tra Chiesa e popolo: «Come non ricordare il ministero episcopale di san Toribio de Mogrovejo, spagnolo di nascita, ma evidentemente peruviano per la sua attività missionaria e il suo immenso lavoro pastorale? Nel corso del suo episcopato fondò un centinaio di parrocchie, convocò un Concilio Panamericano, due consigli provinciali e dodici sinodi diocesani; tutto questo mentre usava ogni giorno il meglio delle sue forze a favore degli abbandonati e di coloro che abitavano quelle regioni geografiche o culturali che il mio predecessore, papa Francesco, chiamava “le periferie”. Possiamo dire che Toribio fu, nel XVI secolo, il simbolo episcopale dell’autentica sinodalità e del Vangelo offerto nelle periferie. Le terre peruviane lo hanno visto non solo nel fragore di un’azione apostolica che ancora oggi ci stupisce, ma anche nella quiete del suo volto sereno e nel suo aspetto raccolto e devoto, che mostravano bene da dove gli venisse quella forza: da un’intensa preghiera e unione con Dio».[6]

Azione religiosa, stile sinodale, annuncio evangelico a tutti, particolarmente agli umili: ecco ancora quali sono le pietre miliari della dottrina sociale circa i rapporti tra annuncio, territori e relative autorità, popoli e missione.

Ai tempi del quarto Leone, la cui azione si dovette necessariamente svolgere soprattutto in Roma, non mancarono, oltre alle preoccupazioni di tipo socio-politico, come quella evocata nella lite territoriale tra vescovi-conti, quelle di valenza pastorale: ad esempio, le fonti dell’epoca di Leone IV parlando di gente cristiana che va ancora alla ricerca di indovini, o imita ancora la prassi dei non cristiani esercitando arti malefiche. Il tutto mentre s’intensificano le pressioni dei Saraceni (popoli musulmani, principalmente arabi e berberi, originari del Nord Africa e della Spagna, che compivano incursioni piratesche nel Mediterraneo), di cui arrivavano preoccupanti notizie che presto sarebbero giunti nel porto di Roma, magari non in massa, ma furtivamente e a piccoli gruppi.[7]

Anche per tutto questo il 103° papa della Chiesa, che fu sommo pontefice dal 10.V.847 al 17.VII.855 – quarto dei pontefici romani che scelse il nome di Leone – passa alla storia soprattutto per l’opera difensiva della città di Roma. Iniziata già dal predecessore, circondando l’area dei borghi con mura e torrioni e creando la cosiddetta “Città Leonina”:[8] strutturata appunto in funzione di creare un baluardo contro le vere e proprie orde di quei predoni di fede monoteista, che allora cercavano di sbarcare, se non intercettati dai bizantini e dai carolingi, anch’essi di fede monoteista, ma cristiana.

Le imprese che valgono a Leone IV l’appellativo di “restauratore di Roma”, sono quelle che egli realizza, dopo aver ottenuto da Lotario un’ingente somma di denaro per la costruzione di una cinta muraria più ampia di quella eretta all’epoca da Aureliano, per restaurare le basiliche di San Pietro e San Paolo, fortificare lo scalo marittimo di Porto e ricostruire l’antica Centumcellae, oltre a Tarquinia, Orte e Amelia.

Le epistole e i decreti del quarto Leone sono, perciò, ricchi di riferimenti alla difesa “maschia” di Roma dagli assalti degli avversari e nemici della santa fede. Capiamo anche perché Vatican news presentava così san Leone IV nel giorno della memoria liturgica del 17 luglio, ricordandone le origini e gli orientamenti spirituali di tipo monastico: «Viene “prelevato” dal monastero benedettino di San Martino in cui è monaco da papa Gregorio IV che lo vuole accanto a sé nel clero romano. Così diverrà papa nell’847 per acclamazione di popolo».[9]

Un Papa è sempre, principalmente, un Pastore e un “facitore di ponti”.

Un papa resta soprattutto un Pastore, proprio in tempi assai difficili per la società: come avvenne già ai tempi del quarto Leone, prima monaco e poi membro del clero.

In tempi assai difficili per la società e la Chiesa, servono uno spirito governato da una regola pastorale e uno spirito sia orante che dottrinale. Ciò resta vero anche ai tempi nostri, quando siamo sul baratro di un conflitto mondiale e in un contesto di grandi conflitti sociali e culturali, allorché un pontefice di origini agostiniane (quindi, un consacrato e soggetto a un’antica regola già eremitica) ce lo ricorda, peraltro menzionando, non a caso, Gregorio Magno: «Oggi celebriamo la memoria liturgica di san Gregorio Magno, il cui corpo riposa nella basilica di San Pietro. Questo papa è detto “il grande” per la sua eccezionale attività di pastore e maestro di fede in tempi assai difficili per la società e la Chiesa: una “grandezza” che attingeva forza dalla fiducia nel Cristo».[10]

Ma papa Leone IV volle soprattutto essere un Pastore e, come tale, dedica il suo pontificato a rafforzare e a moralizzare il proprio gregge, particolarmente i membri del clero, all’epoca afflitti da non poche deviazioni ed errori, anche per l’inesistenza di una formazione organica e universale.

Di qui le insistenze di papa Leone IV sulla disciplina del clero, ai suoi tempi, come ricaviamo dai canoni, afflitto da problemi di concubinato, matrimoni non ammessi, condotte immorali, “vendita” delle azioni sacre, adeguamento succubo a prassi superstiziose di origine pagana e popolare.

Proprio per questo Leone IV indice due sinodi particolari: quello di Pavia nell’850 e quello, già citato, di Roma nell’853.

Intanto, con lo stesso obiettivo, si moltiplicano i sinodi in tutta Europa: a Magonza, Limoges, Lione, Parigi e in Inghilterra. Nel corso di tutti questi sinodi (oggi diremmo: stile sinodale!), viene risolta anche la questione disciplinare legata alla scomunica di Anastasio: cardinale di S. Marcello con velleità di antipapa che, sordo ai richiami del pontefice, aveva lasciato la sua diocesi, stabilendosi altrove ormai da due anni e restava sordo agli appelli a presentarsi ai sinodi, di fatto escludendosi dalla comunione: «ab hodie sit communione privatus, donec ipse meæ speciali præsentiæ in canonico judicio fuerit præsentatus, et si non venerit, nunquam communicet».[11]

Decisione disciplinare, dolorosa, ma inevitabile. Ieri, come oggi: non è forse vero che anche Leone XIV, ricordando peraltro papa Albino Luciani, ha dovuto ribadire il valore dell’allenamento alla disciplina, soprattutto nella formazione del futuro clero? «Oggi tocca a noi continuare quest’opera appassionante. In particolare, voi seminaristi siete chiamati a inserirvi in questa ricca storia di grazia, per custodirla e rinnovarla nella sequela del Signore. Non scoraggiatevi se a volte il cammino che vi sta davanti si fa duro. Come ebbe a dire al clero di Roma il beato Giovanni Paolo I, allenatevi alla disciplina di uno “sforzo continuato, lungo, non facile”. Perfino gli angeli visti in sogno da Giacobbe non volavano, ma facevano uno scalino per volta; figuriamoci noi, che siamo poveri uomini privi di ali” (Discorso al clero romano, 7 settembre 1978). Parlava così un Pastore in cui sono brillate le migliori virtù della vostra gente: in lui avete un vero modello di vita sacerdotale».[12]

Costruire e ricostruire ponti, del resto, comporta, ieri come oggi, non soltanto la cura materiale degli edifici e dei borghi, ma soprattutto la cura dei rapporti con i due polmoni della Chiesa cattolica (quello occidentale e quello orientale).

Nella stazione a San Martino ai Monti, quasi evocando alcuni tratti di papa Leone IV – restauratore della città di Roma – lo stesso papa Prevost ha potuto affermare, non senza citare il quarto Leone: «Era questo il “Titulus Equitii”, una grande cappella domestica della prima metà del III secolo che il prete Equizio, secondo gli studi fatti sui materiali e le tecniche di costruzione, vissuto al tempo dei Severi, fece qui costruire e che quindi è uno dei più antichi luoghi di culto. San Silvestro, all’inizio della pace costantiniana, eresse sopra questa dimora una chiesa; fu poi papa Simmaco (498-514), a costruirvi accanto due celebri oratori dedicati uno a san Martino di Tours e l’altro san Silvestro papa. Sergio I ne intraprese un completo rifacimento che fu continuato da Leone IV che al restauro volle annettere alla chiesa un cenobio di monaci…».[13]

Purtroppo, sui rapporti di Leone IV con Costantinopoli, si è meno informati, anche se oggi, in clima giubilare e nel ricordo di Nicea, vorremmo sapere altro.

Il Liber pontificalis tace del tutto circa una serie di contrasti fra il papa di Roma e il patriarca Ignazio, generati da interventi compiuti da quest’ultimo, come la deposizione del vescovo di Siracusa e altri vescovi siciliani (evidentemente ancora dipendenti dall’Oriente e, quindi, filobizantini). Evidentemente, agli occhi dei monarchi occidentali post-carolingi, non mancavano i sospetti di doppio gioco da parte del papa di Roma. Del resto, per questo, nel giorno di Pasqua dell’850, Lotario fa incoronare imperatore, da papa Leone IV, suo figlio Ludovico. Da quel momento in poi saranno molti i sovrani dei regni cristiani europei a chiedere di essere incoronati dal pontefice, con l’intento di ottenere in questo modo il riconoscimento della propria sovranità “per grazia divina” e, quindi, senza dover rendere conto ai sovrani orientali e relative Chiese “separate”.

Sempre sul piano delle connessioni con l’Oriente, bisogna ricordare un profilo teologico e politico, anch’esso oggi molto attuale. Infatti, il secolo di Leone IV seguiva il periodo (quello che si svolgeva dal sesto secolo in poi, ovvero da Boezio al Medioevo alto), che appare politicamente tra i più difficili nei rapporti di Roma con la sede imperiale di Costantinopoli: gli imperatori di Oriente non riuscivano a fermare i Goti, che premevano da ogni parte, con esiti di turbolenza che si riverberavano anche sulla sede romana, laddove, frattanto, le grandi famiglie romane, quelle che di fatto influenzavano l’elezione dei papi, pur non potendo interferire con l’impero orientale, gestivano finanziariamente e amministrativamente una città la quale vedeva in pericolo, oltre che i traffici e i commerci, le due lingue “teologiche” dei due lati dell’impero (il latino e il greco): se Boezio conosceva ancora il greco, come Cassiodoro e lo stesso Isidoro di Siviglia, non tutti erano ormai in grado di tradurre i grandi trattati teologici greci verso il latino; ma soprattutto sempre meno persone erano in grado d’influenzare la relativa discussione teologica in quei testi contenuta.

Se Beda e Alcuino erano inglesi – che risentivano influssi del monachesimo irlandese –, Giovanni Scoto Eriugena, che giunge sul continente verso l’845 (due anni dopo, ricordiamolo, viene eletto a Roma papa Leone IV) utilizza le sue poche conoscenze dal greco, per redigere il De divisione naturae: una mirabile cosmologia che s’intreccia con la teologia speculativa che influenzerà non poco i grandi intellettuali del Medioevo alto e basso.

Certo, si dovrà aspettare molto (il secolo XI), per avere l’astro di Anselmo d’Aosta; e tuttavia, dei non angli sed angeli contribuiscono a mantenere viva la teologia classica in Occidente, soprattutto se sono provenienti, come Leone IV, da contesti monastici –, che era educato nel monastero di S. Martino al Vaticano, adiacente alla basilica di S. Pietro –: qui pregando, lavorando, copiando e trascrivendo testi, si conservava la fiaccola antica della dottrina della fede.

Vi ammoniamo e preghiamo la vostra fraternità

Nell’anno giubilare 2025, papa Leone XIV ci ha esplicitamente ricordato le opere di misericordia corporale: dar da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, vestire gli ignudi, accogliere i forestieri, assistere gli ammalati, visitare i carcerati, seppellire i morti; ci ha sollecitati altresì a riscoprire le opere di misericordia spirituale. È proprio questo il monotono e perenne ritmo degli ammonimenti e delle omelie che un pontefice romano deve esercitare, non solo sui suoi fratelli nell’episcopato, ma su tutti i christifideles.

Ricordiamo che, dei sinodi tenuti a Magonza sotto il pontificato di Leone IV, si conservano tre atti. Dal Moguntinum I (primo sinodo di Magonza),[14] ricaviamo un bellissimo frammento delle omelie di Leone IV, che dovettero essere diffuse, e anche adattate, nelle varie zone in cui esse venivano trascritte e lette (perciò il Mansi ne propone un triplice schema).

Rivolgendosi ai «fratelli, presbiteri, sacerdoti del Signore cooperatori del nostro ordine», papa Leone fondava su base biblica il rapporto tra papa, vescovi e clero: «Io occupo il posto di Aronne, voi quello di Elezaro e Ithamar. Noi siamo al posto dei XII apostoli, voi siete a modello dei 70 discepoli. Noi siamo vostri Pastori, voi a vostra volta Pastori delle anime a voi affidate. Noi dovremo dare ragione di voi al Pastore supremo, nostro Signore Gesù Cristo, voi del popolo a voi affidato».[15]

Di qui il senso dei diversi canoni giuridico-disciplinari («la vostra vita e il vostro parlare sia irreprensibile: la vostra cella sia presso la chiesa e non introducete donne in casa vostra»), diversi dei quali presentano anche una precisa ritualità liturgica: cum timore et reverentia, bisogna prendere il corpo di Cristo,[16] indossare abiti liturgici solenni, non far accostare donne all’altare, usare vasi sacri d’oro, non di legno o di vetro… Ma soprattutto, a Magonza viene sancita la retta prassi sacramentale: visitare gli infermi, ungendoli con olio e comunicandoli direttamente, senza permettere a dei laici di dare essi la comunione.[17]

A sua volta, il canone XV vieta di chiedere denaro per il sacro crisma, per il battesimo, per dare la comunione, la riconciliazione, per la sepoltura, o per consacrare chiese.[18]

Gli altri canoni, sanciti dal papa Leone IV, ci forniscono uno spaccato indiretto dello stato della disciplina del clero, quando, ad esempio, raccomandano che «nessuno di voi sia ubriaco, litigioso, nessuno abbia armi durante le sedizioni, nessuno intervenga ai giochi con cani e con uccelli, nessuno vada a bere nelle taverne».[19]

Bisogna, insomma, soprattutto annunciare al popolo la parola del Signore e non inutili favole desunte dal proprio cuore; occorre sollecitare i fedeli a comunicarsi tre volte l’anno (Natale, Pasqua e Pentecoste);[20] devono essere proibiti i canti diabolici che il popolo soleva cantare sui morti e vietare le grida fragorose che erano in uso; bisogna prender moglie dopo una pubblica celebrazione, evitando rapimenti, convivenza con proprie parenti, o prendendo la sposa di un altro[21]

Secondo la versione storica ed ufficiale, il successore di Leone IV fu papa Benedetto III (anche se, secondo la leggenda popolare, si indica papa Giovanni VIII, cioè la Papessa Giovanna). Guardando retrospettivamente agli anni e agli atti del suo servizio petrino, si possono ben adattare a lui le parole del nuovo Leone che gli è succeduto sul soglio di Pietro: «La Chiesa vi manda come pastori premurosi, attenti, che sanno condividere il cammino, le domande, le ansie e le speranze della gente; pastori che desiderano essere guide, padri e fratelli per i sacerdoti e per le sorelle e i fratelli nella fede».[22]

In questa lunga storia di Leoni, il IV e il XIV si rispondono a distanza di secoli: l’uno restaurando mura, chiese e coscienze nella Roma assediata dai Saraceni, l’altro ricostruendo fiducia, comunione e speranza in una Chiesa e in un mondo attraversati da nuove forme di assedio.


[1] Santa Messa e benedizione dei palli per i nuovi arcivescovi metropoliti nella solennità dei santi Pietro e Paolo. Cappella papale, omelia del santo padre Leone XIV, Basilica di San Pietro, Domenica, 29 giugno 2025https://www.vatican.va/content/leo-xiv/it/homilies/2025/documents/20250629-omelia-pallio.html [12.9.2025].

[2] PL 115: Epistolae et Decreta papae Leonis IV, col. 660.

[3] Cf. Mario Bezzini, Controversia territoriale tra i vescovi di Siena ed Arezzo dal VII al XIII secolo, edizioni il Leccio, Monteriggioni (Siena) 2015. La lunga controversia fra i vescovi di Siena e di Arezzo si prolunga per quasi sette secoli, che si contendevano la gestione religiosa di vari baptisteria (poi detti plebes) ubicati in un’ampia e lunga striscia di territorio, già appartenuto ad Arezzo, che si estendeva lungo tutto l’antico confine orientale di Saena Iulia (secondo alcuni storici un territorio appartenente ad Arezzo fin dal periodo etrusco, divenendo poi parte dell’ampio territorio municipale romano). Tra la fine del secolo VI e l’inizio del secolo VII, quel territorio fu annesso, dai Longobardi a Saena Iulia, lasciando però al vescovo di Arezzo la gestione religiosa, anche perché all’epoca i Longobardi, essendo ariani, non erano interessati alle Chiese legate a Roma.

[4] PL 115: Epistolae et Decreta papae Leonis IV, col. 659.

[5] Ivi, col. 662.

[6] https://www.vatican.va/content/leo-xiv/it/messages/pont-messages/2025/documents/20250804-messaggio-settimana-sociale-peru.html [12.9.2025].

[7] PL 115: Epistolae et Decreta papae Leonis IV, can. IX, col. 669.

[8] Commentario di S. Leone papa quarto di questo nome fondatore della città leonina la quale città è il rione di Borgo dell’alma città di Roma, presso il Contedini Lino, 1824, pp. 24.

[9] https://www.vaticannews.va/it/santo-del-giorno/07/17/san-leone-iv–papa.html [12.9.2025]. Per comprendere meglio la figura di Leone IV e il suo stile di governo, non si può ignorare il vivo tessuto monastico romano dell’VIII–IX secolo. I monasteri cittadini – in particolare il benedettino di San Martino al Vaticano, dove Leone fu monaco – erano: centri di copiatura e conservazione dei testi biblici e teologici; luoghi di elaborazione liturgica, in cui la tradizione romana si confrontava con influssi franchi e bizantini; spazi di formazione del clero, attraverso la vita comune, la lectio divina, l’obbedienza alla Regola; crocevia tra Oriente e Occidente, grazie alla circolazione di monaci, pellegrini, testi.Da questo humus monastico proviene lo stile di Leone IV: unire rigore disciplinare e cura pastorale, difesa della città e custodia della tradizione, restaurazione materiale e riforma morale del clero. Non stupisce che il profilo di Leone IV delineato dalle fonti – raccolto, orante, sobrio – richiami quello di un abate più che di un semplice amministratore.

[10] Leone XIV, Udienza generale in Piazza San Pietro, mercoledì 3 settembre 2025. https://www.vatican.va/content/leo-xiv/it/audiences/2025/documents/20250903-udienza-generale.html [12.9.2025].

[11] PL 115, Epistolae et Decreta papae Leonis IV, can. VII, col. 665.

[12] Discorso del santo padre Leone XIV ai seminaristi del Triveneto, Largo Giovanni Paolo II, Mercoledì, 25 giugno 2025https://www.vatican.va/content/leo-xiv/it/speeches/2025/june/documents/20250625-seminaristi-triveneto.html [12.9.2025].

[13] Giovedì della IV settimana di Quaresima, Stazione a San Martino ai Monti: https://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_academies/cult-martyrum/stazioni/descrizioni/vc_pa_martyrum_20030125_martinomonti_it.html [11.9.2025].

[14] Cf. Mansi, Sacrorum conciliorum nova amplissima collectio, vol. 18, 889- 898.

[15] Ivi, col. 889.

[16] Ivi, col. 891.

[17] Ibidem.

[18] Ivi, coll. 892-893.

[19] Ivi, col. 893.

[20] Ivi, col. 895.

[21] Ivi, col. 896.

[22] Discorso del santo padre Leone XIV ai vescovi ordinati nell’ultimo triennio, Aula del Sinodo, Giovedì, 11 settembre 2025https://www.vatican.va/content/leo-xiv/it/speeches/2025/september/documents/20250911-vescovi.html [12.9.2025].

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