Lettera a Marko Rupnik

di:

Mio caro fratello, operatore di malefatte,

voglio iniziare ad essere duro con le tue azioni, ma non con te come persona che non posso giudicare. E voglio che la durezza sia all’inizio di questa lettera e non alla fine.

Ti scrivo perché ho sofferto molto per tutto ciò che si va pubblicando su di te. Vorrei che tu capissi tutti i danni che hai fatto e che ancora puoi fare.

Marko Rupnik

Marko Rupnik

Voglia di condanna

Quello che leggo in questi giorni mi fa pensare a un fatto che forse tu non conoscevi perché sei molto più giovane di me. Mi è tornato alla memoria senza volerlo.

Il Generale prima di Arrupe (J.B. Janssens), morto nel 1964, aveva come regola che chi veniva condannato per un solo reato in quello che noi chiamiamo «il secondo voto» fosse immediatamente espulso dall’Ordine. Lo ricordo perché ad alcuni di noi, allora giovani, sembrava eccessivamente severo e, inoltre, faceva nascere il sospetto che, se un gesuita attivo lasciava l’Ordine, doveva essere per quelle che chiamavamo «cose di sottana».

Nella vita reagiamo sempre andando all’altro estremo e non vorrei che ora casi come il tuo ci facessero tornare alla regola di Janssens, perché la realtà umana è spesso più complessa.

Dopo questo, e prima delle riflessioni che vorrei proporti fraternamente, devo riconoscere che sto parlando a partire dai dati che circolano, e questo mi lascia alcuni dubbi sulle procedure, che non capisco e che spero un giorno di poter vedere chiariti. La velocità con cui tutto circola nelle reti e l’ossessione dei media per tutto ciò che riguarda il sesso fanno sì che, a volte, le notizie non possano essere valutate a sufficienza.

Il vescovo più bravo e più di sinistra che la Spagna di Franco abbia avuto (A. Iniesta) mi disse una volta che, in un noto giornale spagnolo, un giorno trovarono uno spazio libero che poteva essere occupato da due notizie: una riguardava un sacerdote che era caduto martire e l’altra un sacerdote protagonista di una scappatella sessuale. Naturalmente, è stato scelto quest’ultimo senza esitazione.

La questione dell’assoluzione

Questo è il contesto da cui vi scrivo e che mi fa sorgere alcune domande. Perché guardate: secondo il canone 977 dell’attuale Codice di Diritto Canonico (CIC), «l’assoluzione data a un complice di un peccato contro il sesto comandamento del Decalogo» è sempre invalida (a meno che non sia data al momento della morte). Inoltre, secondo il canone 1378, chi dà tale assoluzione è ipso facto scomunicato (ciò si chiama scomunica latae sententiae, che significa come “già comminata”). Infine, questa scomunica non può essere assolta dal vescovo, ma è riservata alla Sede romana (la “Santa Sede” – come si usa dire –, ma trovo sconveniente riservare continuamente questo aggettivo a un’istituzione o a persone che sono sante e peccatrici come tutti gli altri cristiani).

Questi sono i fatti che ho studiato. Me li ricordo bene, perché l’insegnante di morale, che era una persona abbastanza tranquilla, visto che sapeva quanto poco ci interessasse il diritto canonico, alzava la voce e ci diceva: «Avete capito bene? Assoluzione invalida e scomunica latae sententiae». È vero che allora il CIC in vigore era quello vecchio (quello nuovo, se non sbaglio, è del 1983); ma su questo punto il contenuto del Codice non è cambiato, anche se possono essere cambiati i numeri dei canoni.

Se questo Codice è ancora in vigore, non capisco cosa significhi quando i media scrivono che, nel 2020, «sei stato scomunicato» per un mese. Scomunicato lo eri già da quasi 30 anni! Mi risulta che la commissione d’inchiesta, nel gennaio 2020, abbia dichiarato all’unanimità che, se c’è stata assoluzione del complice, la Curia romana non ti ha comminato la scomunica, ma ha semplicemente dichiarato che eri scomunicato. Pertanto, non è nemmeno vero che la scomunica sia stata revocata dopo un mese. Si limitava a dichiarare che la scomunica era già prescritta (mi risulta che il termine massimo per la prescrizione delle pene sia di dieci anni).

È così che affronto i dubbi lasciati dalle informazioni ricevute. Io e te possiamo capire che i giornalisti conoscono le regole del calcio meglio del Codice di Diritto Canonico. Ma ci sono casi in cui dovrebbero cercare di essere più coscienziosi, nonostante la fretta di diffondere le notizie prima degli altri…

Accuse affrettate

E, a proposito di fretta, ricordo una frase di uno degli assistenti del nostro Generale, in visita in Spagna quando ero un giovane gesuita, a proposito di una delle nostre lamentele: «Riceviamo in Curia un numero di denunce quasi dieci volte superiore a quelle che si rivelano vere; questo ci obbliga a esaminare ogni caso con attenzione e ad essere più lenti di quanto vorremmo».

Non si trattava allora solo di accuse sessuali, ma di ogni tipo e, dato lo spirito di quel tempo, è lecito pensare che la maggior parte di esse fossero accuse di eterodossia.

Ma, se questo era quanto accadeva nella Curia generale di un ordine religioso, possiamo anche supporre che la proporzione fosse almeno la stessa nella Curia romana. E non è che queste false accuse siano intenzionalmente calunniose, ma ci sono temperamenti semplicistici e autoritari che credono di risolvere tutto in questo modo. Il che – come abbiamo visto in altre occasioni in casi di giustizia civile – è molto doloroso per alcune vittime che hanno il diritto di non aspettare così a lungo. Ma la realtà umana è più o meno questa.

Mi chiedo anche, con tutto il rispetto, che tipo di suora fosse e quale formazione avesse quella povera ragazza che ha mandato giù così facilmente le regole del suo presunto direttore spirituale. Questo può aggravare il tuo abuso, ma punta il dito anche contro alcune congregazioni femminili per la mancanza di formazione dei loro membri. Ancora una volta mi torna un’immagine del passato, quella di padre Riccardo Lombardi che, nei corsi «Per un mondo migliore», grida: «Le mettono il velo e la chiamano suora contemplativa. E COSA CONTEMPLA?». Di grazia: sono passati tanti anni da allora, eppure siamo ancora così.

Marko Rupnik

Cristo, di Marko Rupnik

Gesù e i perduti del suo tempo

Ma pur con tutti questi dubbi, che saprai risolvere meglio di me e che sono piuttosto procedurali, penso di potermi rivolgere a te direttamente e come fratello ferito.

Vorrei capissi che hai fatto un danno enorme non solo a un gruppo di suore (anche qui il numero varia) ma alla Compagnia di Gesù e a tutta la Chiesa. Quando alcune persone sentono qualche parola, magari vera ma fastidiosa (come a volte accade con il Vangelo), la loro reazione spontanea sarà quella di dire più o meno: «Sei un gesuita come Rupnik»; e «non ho più bisogno di ascoltarti».

Gli esseri umani sono così e ricorderai come Gesù sia stato delegittimato per essere stato definito «amico dei pubblicani e della gente di bassa lega». È vero che, nel caso di Gesù, c’era un motivo in più per questi aggettivi (come dirò più avanti), ma ciò non significa che questa relazione non sia stata usata come prova per sconfessare le sue parole. Ripeto: noi esseri umani siamo così.

E aggiungo che, benché questa nostra reazione sia scorretta, rivela sempre qualcosa di molto vero che ci rifiutiamo di riconoscere: il peccato non è qualcosa di esclusivamente personale (anche se in un ambito così intimo come la sessualità), ma ha sempre una dimensione comunitaria.

Che sia conosciuto o meno, che sia reso pubblico o meno, ogni peccato danneggia la Chiesa e la comunità, cosa che l’individualismo esagerato della nostra cultura, che ci plasma tutti, non ammette (o preferisce ignorare).

E lo cito perché, se il male ha questa dimensione sociale, la bontà ce l’ha ancora di più: è a questo che si riferisce quella frase del Credo che parla di «comunione del Santo» (traduzione migliore dell’incomprensibile comunione «dei santi» che, siccome non la capiamo, non ci facciamo caso). Ma ha le sue conseguenze, se vorrai prestare attenzione a ciò che sto per dirti.

Conosci la scena evangelica della vocazione di san Matteo. La guardiamo già come «san Matteo» e nulla ci colpisce nel passaggio. Ma quando Gesù lo chiamò, non era un santo, bensì un pubblicano. E lo scandalo dei pubblicani di quella società era incredibile: più grande degli abusi sessuali di un gesuita pubblico come te oggi.

Lo sottolineo per comprendere la rabbia che deve aver suscitato allora vedere Gesù mangiare in pubblico con il pubblicano Matteo e con altri della sua risma. E mi chiedo: cosa succederebbe, cosa direbbero i media e la gente se oggi trovassero Gesù a mangiare in pubblico con te e altri come te? Credo che nemmeno gli insulti di Vox sarebbero sufficienti a esprimere la nostra reazione.

Ed è qui che entrano in gioco alcune delle parole più inascoltate (nel senso letterale di “mai ascoltate”) del Vangelo: di fronte a questo scandalo e a questa rabbia, Gesù risponde semplicemente: «Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. E non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori alla penitenza»…

Dovremmo tutti cambiare molto per accettare queste parole: perché noi, in effetti, crediamo di essere i buoni (non semplicemente i perdonati o i graziati), e questo ci dà il diritto di credere che Dio e il suo Messaggero siano totalmente dalla nostra parte e che possiamo scagliare pietre contro tutti gli adulteri e le adultere della società, perché sono assolutamente malvagi e non c’è nulla di salvabile in loro.

Se farai questo passo…

Ma, nota, fratello Marko: in questo momento Dio è più dalla tua parte che dalla nostra: perché cerca di chiamarti alla penitenza. E se rispondi a questa chiamata «ci sarà più gioia in cielo per te solo che per 99» di noi che pensiamo di non averne bisogno.

Questo mi obbliga a salutarti, caro Marko, dicendoti che, se farai questo passo, soprattutto di fronte alle povere vittime che hai cammellato, ti dovrò un abbraccio più grande di quello che do a molti dei miei cari. Perché non solo avrai redento te stesso: avrai riscattato tutto il tuo lavoro; e, si potrebbe dire parodiando una frase biblica: «anche se i tuoi peccati sono neri come la pece, diventeranno preziosi come un quadro di Rupnik».

Strano, vero? Ebbene, ti assicuro che questa è la stranezza del Vangelo. E noi preferiamo dimenticarcene per non metterci nei guai.


Nostra traduzione dall’originale spagnolo Carta a Marko Rupnik, pubblicato su Religión Digital il 25.12.2022

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