Padre Spoto a 61 anni dal martirio

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Il 27 dicembre 1964 il padre Francesco Spoto moriva a Biringi (Congo) in seguito ai maltrattamenti subiti quindici giorni prima.

Questo articolo vuole essere non solo memoria commemorativa, ma anche riflessione teologica e spirituale su una testimonianza che ha molto da dire al nostro tempo. Una testimonianza che si può riassumere in un’immagine semplice ma profonda: i piccoli passi silenziosi di un Servo dei Poveri.

Non passi da gigante. Non passi rumorosi. Non passi protagonisti. Ma piccoli passi. Silenziosi. Fedeli. Quotidiani. Passi che accompagnano. Passi che servono. Passi che amano.

E questi passi, fermati violentemente a Biringi il 27 dicembre 1964, continuano ancora oggi. Continuano nella memoria della Chiesa. Continuano nella vita di chi è stato accompagnato. Continuano nell’intercessione dal cielo.

Chi era Francesco Spoto: una vita donata

Francesco Spoto nasce a Raffadali, in provincia di Agrigento, l’8 luglio 1924, in una famiglia modesta ma profondamente cristiana. La Sicilia di quegli anni è terra di contrasti: povertà e fede, bellezza e sofferenza, tradizione e cambiamento.

A soli dodici anni, Francesco entra nella Congregazione dei Servi dei Poveri, fondata dal beato Giacomo Cusmano. È una scelta precoce, come spesso accadeva allora, ma una scelta che rivela già una chiamata profonda. I Servi dei Poveri sono una congregazione particolare: non solo contemplazione, non solo azione, ma servizio concreto ai più poveri, agli ultimi, agli scartati.

Francesco cresce in questa spiritualità. Studia. Si forma. Matura. E, il 22 luglio 1951, viene ordinato sacerdote. Ha ventisette anni. Sono gli anni del dopoguerra, della ricostruzione, della speranza ma anche della fatica. L’Italia esce distrutta dal conflitto mondiale. La Sicilia porta ancora le ferite della povertà endemica.

Padre Spoto si dedica all’insegnamento, alla formazione dei giovani, all’accompagnamento vocazionale, al servizio nella Congregazione. Non cerca ruoli di prestigio. Non ambisce a carriere ecclesiastiche. Serve. Semplicemente. Fedelmente. Nel nascondimento.

Ma nell’estate del 1959 accade qualcosa di inatteso: a soli trentacinque anni viene eletto Superiore Generale della Congregazione dei Servi dei Poveri. È giovane. È timido. Non ha l’aspetto del leader carismatico. Ma viene scelto. Perché? Forse proprio per questo: perché non cerca il potere. Perché non ama il protagonismo. Perché sa servire.

E per quattro anni guiderà la Congregazione. Non dall’alto di un ufficio. Non da lontano. Ma camminando. Visitando le comunità. Ascoltando i confratelli. Accompagnando i giovani. Con piccoli passi. Silenziosi. Fedeli.

P. Giovanni Avena: «Ho sentito i suoi passi accanto ai miei»

Per comprendere veramente chi era Padre Spoto, dobbiamo ascoltare chi lo ha conosciuto. E, in particolare, dobbiamo ascoltare la testimonianza straordinaria di padre Giovanni Avena, scritta nel 1998, trentaquattro anni dopo il martirio.

Padre Avena aveva quindici anni quando incontrò padre Spoto per la prima volta. E questo ragazzino liceale gli chiese, con l’audacia tipica dell’adolescenza, se poteva comprare dei libri per permettergli di vincere un viaggio a Lourdes.

Lo Spoto poteva liquidare il ragazzo con una battuta. Poteva sentirsi disturbato. Poteva dire: «Non ho tempo per queste sciocchezze».

Ma non lo fece. Padre Avena racconta: «Non si meravigliò, né si sentì importunato. Ne prese una buona metà, mi assicurò che me li avrebbe pagati quando avrei finito di vendere l’altra metà».

Gesto piccolo. Apparentemente insignificante. Ma decisivo. Perché quel ragazzo di quindici anni, accolto così, decise di restare. Di continuare. Di diventare prete. E oggi, oltre sessant’anni dopo, può testimoniare: «Ho sentito i suoi passi accanto ai miei».

Questa frase è il cuore di tutto. «Ho sentito i suoi passi accanto ai miei». Non: «Ho seguito i suoi passi». Non: «Mi ha guidato». Ma: «Ho sentito i suoi passi accanto ai miei».

Accanto. Non davanti. Non dietro. Ma accanto. Presenza. Compagnia. Accompagnamento.

E padre Avena continua, descrivendo quegli anni cruciali tra adolescenza e giovinezza, quando tutto sembra possibile e tutto sembra impossibile: «Erano gli anni dell’ultimo tratto di strada che mi conduceva all’ordinazione. Gli anni del grande entusiasmo per la meta ormai vicina, ma anche gli anni – i miei vent’anni! – dei grandi pensieri d’amore e di rinuncia, delle vittorie e delle sconfitte, dei ripensamenti e delle grandi passioni ideali, dei progetti di futuro e delle inquietudini del presente, dei dubbi, delle attese, delle delusioni. Gli anni in cui paradossalmente ti incontri con la vita e credi di scontrarti con Dio».

E in quegli anni cruciali, «p. Spoto mi fu accanto con attenzione e discrezione, con tenerezza e rigore, con serenità. Non gli veniva di fare “il padre”, il superiore o lo zelante consigliere. Era soltanto lui, parola e silenzio, preghiera e attesa, carne e sangue, lacrime e allegria, sudore della semina e gioia del raccolto».

«Era soltanto lui». Non recitava un ruolo. Non indossava una maschera. Non fingeva. Era semplicemente sé stesso. E questa autenticità era paternità. Era autorevolezza. Era educazione.

Ma cosa significa concretamente «piccoli passi silenziosi»? Dobbiamo analizzare i tre elementi separatamente per poi ricomporli in sintesi.

I PASSI: l’accompagnamento che cammina accanto

Il passo è movimento. È cammino. È andare avanti. Ma è anche ritmo. È misura. È presenza che si fa sentire.

Antonio Machado, il grande poeta spagnolo, ha scritto versi immortali: «Caminante, no hay camino, se hace camino al andar» – «Viandante, non c’è sentiero, si fa il sentiero camminando». Non esiste una strada già tracciata. Non c’è un percorso predefinito. Il sentiero si crea camminando. Passo dopo passo.

E padre Spoto camminava. Non da solo. Ma accanto. Questa è la chiave: camminare accanto.

Chi cammina davanti comanda. Decide il percorso. Impone il ritmo. E gli altri devono seguire, devono adeguarsi, devono obbedire.

Chi cammina dietro dipende totalmente. Non decide mai. Non sceglie mai. Non rischia mai. Aspetta che l’altro gli dica cosa fare.

Ma chi cammina accanto accompagna. Non comanda. Non dipende. Ma è presente. Al passo dell’altro. Con il ritmo dell’altro. Rispettando i tempi dell’altro.

Questo era padre Spoto. Padre Avena racconta un episodio rivelatore: quando tornò da Lourdes, felice di aver servito i sacerdoti malati, padre Spoto «sembrò indifferente al racconto del viaggio. Mi chiese non quanti sacerdoti ammalati avevo servito ma se da questi, a Lourdes, avevo imparato a pregare».

Non: «Cosa hai fatto?». Non: «Quanti hai servito?». Ma: «Hai imparato a pregare? Hai incontrato Dio? Hai colto l’essenziale?».

Una domanda che spiazza. Che va al cuore. Che non si accontenta dell’esteriorità. Una domanda che rivela: qui c’è uno che accompagna veramente. Che non si ferma alla superficie. Che cerca l’essere, non solo il fare.

LA PICCOLEZZA: la scelta dell’umiltà

Ma perché i passi devono essere “piccoli”? Perché non grandi? Perché non veloci? Perché non imponenti?

Padre Avena ce lo dice con una frase sintetica ma profondissima: «La sua “grande” umanità? Quella d’essersi sentito piccolo agli occhi di Dio, fragile, mite e fraterno agli occhi degli uomini».

Piccolo agli occhi di Dio. Non per svalutazione. Non per disprezzo di sé. Ma per verità. Perché davanti a Dio siamo tutti piccoli. Tutti creature. Tutti dipendenti.

E riconoscere questa piccolezza non è umiliazione. È liberazione. Perché quando sei piccolo, non devi fingere di essere grande. Non devi portare pesi impossibili. Non devi salvare il mondo da solo.

Sei piccolo. E Dio è grande. E questo basta.

Ma padre Spoto era piccolo anche davanti agli uomini. Non per necessità. Ma per scelta. L’episodio più significativo lo racconta sempre padre Avena: «Quando gli comunicammo che avevamo conosciuto un padre gesuita, docente all’Istituto Biblico, che aveva accettato di venire settimanalmente al collegio Cusmano per delle conferenze e per farci da direttore spirituale, colse la prima opportunità di un viaggio a Roma per incontrarlo e ascoltarlo. Volle partecipare con la comunità alla conferenza, ma ci pregò di presentarlo come ospite di passaggio e non come Superiore generale».

Superiore Generale. Poteva presentarsi come tale. Poteva sedersi al posto d’onore. Ma chiese di essere presentato come «ospite di passaggio».

«Molti anni dopo rivelai quell’episodio a p. Martini, frattanto divenuto vescovo e cardinale. Ne rimase ammirato».

Carlo Maria Martini, che divenne uno dei cardinali più importanti del mondo, ricordava quell’«ospite di passaggio» che era in realtà Superiore generale. E ne era ammirato. Perché la piccolezza scelta è rara. È controcorrente. È evangelica.

IL SILENZIO: l’eloquenza della presenza

E veniamo al terzo elemento: il silenzio. Perché i passi non solo sono piccoli. Sono anche silenziosi.

Ma attenzione: non il silenzio dell’assenza. Non il silenzio dell’indifferenza. Non il silenzio della paura. Ma il silenzio della presenza attenta. Il silenzio della contemplazione. Il silenzio della custodia.

Padre Avena descrive padre Spoto come «parola e silenzio». Non solo parola. Non solo silenzio. Ma entrambi. In equilibrio. In armonia.

«I momenti espliciti e diretti di “insegnamento” da parte di p. Spoto erano quasi inesistenti. Un po’ il ruolo istituzionale, un po’ la sua naturale timidezza lo facevano, sì, apparire serio e austero, affatto paternalistico o autoritario. Lo rendeva autorevole, semmai, la schietta linearità dei suoi ragionamenti e il modo diretto e deciso con cui affrontava situazioni di vita quotidiana o di livello esistenziale. Da ciò certi suoi modi ruvidi e avari di parole, al limite dello scostante».

Ruvido. Avaro di parole. Quasi scostante. Così poteva apparire. A prima vista.

Ma: «Dopo l’iniziale e inevitabile sconcerto non si poteva non cogliere in quella ruvidezza la sopportata fatica della timidezza, che nascondeva e rivelava insieme una personalità soave e serena, la cui riservatezza era semplicemente la gelosa custodia di grandi e profondi sentimenti, di forti e convinte amicizie».

Ecco la verità. La ruvidezza nascondeva tenerezza. La riservatezza custodiva profondità. Il silenzio proteggeva sentimenti grandi.

Come un tesoro in un vaso di coccio. Come una perla in un’ostrica ruvida. Come oro nascosto nella roccia.

Padre Spoto custodiva. Nel silenzio. Nel nascondimento. Nella fedeltà. Come Maria che «custodiva tutte queste cose nel suo cuore».

Gli anni del Concilio: quando i sogni diventano realtà

Ma padre Spoto non era solo uomo di silenzio. Era anche uomo di sogni. Sogni teologici. Sogni profetici. Sogni che vengono da Dio.

Gli anni Sessanta furono anni di grande fermento. Il Concilio Vaticano II stava aprendo finestre. Stava facendo entrare aria nuova. Stava cambiando la Chiesa.

E padre Spoto viveva tutto questo con intensità incredibile. Padre Avena racconta: «I primi anni sessanta furono gli anni dello scuotimento conciliare. P. Spoto veniva spesso a Roma per ragioni istituzionali, ma non nascondeva un motivo che forse lo interessava di più: trascorrere intere giornate e lunghe notti di conversazioni con noi studenti di teologia al collegio Cusmano».

Lunghe notti di conversazione. Con giovani studenti. Parlando del Concilio. Dei nuovi orizzonti. Delle possibilità che si aprivano.

«Una sera parlammo a lungo degli avvenimenti conciliari e dei nuovi orizzonti verso i quali la Chiesa cominciava ad essere spinta. Mi confidò che lui stesso si sentiva personalmente scosso dalla dirompenza dell’evento-Concilio. Sentii nelle sue parole le vibrazioni di chi aveva sognato e ora cominciava a vedere nella realtà qualcuno dei suoi sogni o delle sue intuizioni».

Aveva sognato. Per anni. Forse per decenni. Orizzonti più larghi. Teologia più profonda. Chiesa più aperta.

«Dinanzi alla mia meraviglia, tentò di farmi capire cosa provava a sentirsi sciogliere e diradare dentro, la coltre grigia della teologia manualistica, dei suoi anni di studi, oltre la quale non aveva potuto vivere altro che il sogno, la speranza di orizzonti più larghi e vicini e la voglia cocente di superare la non rassegnata mortificazione dell’intelligenza e del proprio intelligente amore alla Chiesa».

Coltre grigia. Mortificazione dell’intelligenza. Orizzonti ristretti. Questo era stato il suo percorso formativo.

Ma lui non si era rassegnato. Aveva sognato. E quel sogno lo aveva tenuto vivo. Lo aveva tenuto aperto. Lo aveva salvato dall’aridità.

E ora, con il Concilio, quel sogno diventava realtà. E padre Spoto si nutriva. Avidamente.

«Felicissimi i momenti che mi invitava a trascorrere nelle librerie di via Conciliazione. Faceva incetta, per me e per lui, del meglio di Congar, Rahner, De Lubac, Chenu, Daniélou: tutti teologi censurati prima del Vaticano II e poi riabilitati e nominati da Giovanni XXIII e da Paolo VI periti o consultori conciliari».

I grandi teologi che stavano rinnovando la Chiesa. E padre Spoto li leggeva. Li studiava. Li amava.

Perché sognare non è restare nell’astrazione. È nutrirsi. È studiare. È crescere.

4 agosto 1964: l’ultimo incontro, l’ultima parola

E arriviamo al momento decisivo. Estate 1964. Padre Spoto deve partire per il Congo, per la missione di Biringi. Ci sono problemi in comunità. Ci sono tensioni politiche crescenti. La situazione è incerta, potenzialmente pericolosa.

Padre Avena è a Milano. E riceve una telefonata: Padre Spoto vuole vederlo. Urgentemente. All’aeroporto di Fiumicino.

«Il pomeriggio del 4 agosto un confratello mi avvertì che p. Spoto era già a Roma e voleva incontrarmi. Lo chiamai al telefono alla Perseveranza. Mi chiese di rientrare subito e di attenderlo all’aeroporto di Fiumicino da dove si sarebbe imbarcato intorno alle 23 di quello stesso giorno per il Congo».

Un ultimo incontro. Prima della partenza.

«Nella fretta telefonica non avevamo convenuto un punto d’incontro. Fu lui a vedermi per primo e a chiamarmi ad alta voce. Cercai inutilmente di individuare la sagoma di un prete tra la folla densa e variopinta di un aeroporto d’agosto. Mi sentii preso per un braccio: era lui in borghese, un po’ impacciato ma raggiante».

In borghese. Perché stava andando in una situazione difficile. «Un po’ impacciato ma raggiante». Impacciato perché non era abituato. Ma raggiante perché stava andando. Stava rispondendo alla chiamata.

«Mi abbracciò con una tenerezza che da lui non avevo mai sentito».

Una tenerezza mai sentita. Perché? Perché sapeva che poteva essere l’ultimo abbraccio? Non lo sappiamo. Ma quel gesto resta.

E poi la conversazione: «Gli chiesi subito della durata della sua visita a Biringi per decidere con lui la data della mia ormai imminente ordinazione. Mi prese sottobraccio e mi sorrise, con l’aria di chi vuol farsi perdonare in anticipo una notizia spiacevole. “Preparati all’ordinazione – mi disse –, concorda la data con il vicario generale, ma non tener conto della data del mio ritorno. Non so se ci sarò, né quando”».

Non so se ci sarò, né quando. Parole pesanti. Parole che dicono: potrei non tornare.

«Evitò di raccogliere il mio disappunto e mi parlò subito di Biringi. “C’erano problemi seri in comunità – mi disse – e qualche nuvola cominciava ad intravvedersi sull’orizzonte politico del Congo”. Per questo non poteva programmare altro che una sua permanenza sine die».

Problemi in comunità. Nuvole all’orizzonte politico. Permanenza senza termine.

«Colsi nel suo volto un’estrema tensione, nei suoi gesti e nelle sue parole l’inutile sforzo per dissimularla».

Tensione estrema. Aveva paura. Era preoccupato. Ma andava. Perché bisognava andare.

E poi l’ultima raccomandazione. L’ultimo messaggio. L’ultimo testamento: «Gli augurai buon viaggio e buona missione. Quasi costretto dai miei auguri anche lui volle dirmi qualcosa di augurale. Mi ricordò che l’ordinazione sarebbe stata soltanto una tappa nella storia della mia vita e della mia vocazione. Mi ripeté con tono asciutto e senza retorica la sua idea di futuro che altre volte mi aveva manifestato con qualche venatura di poesia e di commozione: “Non smettere mai di sognare e di realizzare il sogno di Dio su di te”».

«Non smettere mai di sognare e di realizzare il sogno di Dio su di te».

Questa è l’eredità. Questo è il testamento. Queste sono le parole che padre Spoto ci lascia.

Non: «Ricordati di me». Non: «Prega per me». Ma: «Non smettere mai di sognare».

E poi l’addio: «Non aspettò che io gli dicessi qualcosa, una parola, una reazione, un impegno… Mi salutò abbracciandomi. Lo stesso fece con gli altri che erano venuti ad accompagnarlo e si avviò verso l’uscita di imbarco lentamente e rilassato, come per un viaggio breve di routine. Non si voltò per il rituale saluto prima di sparire oltre il banco di controllo».

Non si voltò.

Non cercò l’ultimo sguardo. Non cercò l’ultima emozione. Andava avanti. Verso Biringi. Verso la missione. Verso il martirio.

E non si voltò.

Il 27 dicembre 1964 , i passi si fermarono.

Il Congo era nel caos. Dopo l’indipendenza dal Belgio (1960), il paese era precipitato in una guerra civile sanguinosa. I ribelli Simba controllavano vasti territori. E consideravano i missionari occidentali come nemici. La missione di Biringi era in una zona particolarmente instabile. Padre Spoto arrivò nell’agosto 1964 e trovò la situazione che temeva. Ma restò. Cercò di mediare. Cercò di pacificare. Cercò di tenere unita la comunità ma il 27 dicembre 1964 il p. Spoto in seguito ai maltrattamenti subiti quindici giorni prima da due Simba che con il calcio del fucile gli ruppero il torace morì. Biringi quel giorno divenne giorno di morte.

Padre Spoto aveva quarant’anni. Superiore generale. Aveva attraversato l’oceano per essere lì. Per accompagnare. Per servire. Per amare.

E lì, in quella missione sperduta nel cuore dell’Africa, i suoi passi furono fermati. Violentemente. Cruentemente.

Ma padre Avena scrive qualcosa di profondo: «Il martirio non lo aveva sognato. Lo aveva accettato nella consapevolezza umile del quotidiano patire quando, titubante ma generoso, prese sulle spalle il governo della congregazione. Biringi rese cruento nella sua carne quel martirio incruento ma non meno trafiggente».

Il martirio non comincia a Biringi. Comincia prima. Molto prima. Nel quotidiano patire. Nella fatica del governare. Nella solitudine della responsabilità. Nella tenacia del servizio.

Biringi è solo il compimento. La sigillatura. La trasformazione del martirio incruento in martirio cruento.

L’eredità: i passi che continuano

Ma i passi di padre Spoto non si sono fermati. Non potevano fermarsi.

Padre Avena, cinquantaquattro anni dopo quella sera all’aeroporto di Fiumicino, può ancora scrivere: «Ho vissuto (e vivo ancora) la sua compagnia, sentito i suoi passi accanto ai miei».

Vivo ancora. Presente indicativo. Non passato. Non ricordo nostalgico. Ma presenza reale. Compagnia viva. Passi che continuano.

Perché i passi veri, i passi che accompagnano, i passi che amano, i passi che servono, non possono essere fermati dalla morte. Continuano. Nel cuore di chi è stato accompagnato. Nella vita di chi ha ricevuto il suo amore. Nella memoria viva della congregazione. Nella testimonianza della Chiesa.

Il servo di Dio Francesco Spoto è stato beatificato il 21 aprile 2007 nella Cattedrale di Palermo.

La Chiesa ha detto ufficialmente: quei passi erano santi. Quei passi erano evangelici. Quei passi erano cristici.

E ora brillano nella gloria di Dio. Ora camminano nella Gerusalemme celeste. Ma continuano anche qui. Continuano ad accompagnare. Continuano ad ispirare. Continuano a chiamare.

La chiamata per oggi: camminare con piccoli passi silenziosi

E ora la domanda si rivolge a noi. A sessantuno anni dal martirio, cosa ci dice la testimonianza di padre Spoto?

Ci dice che la santità è possibile. Non solo per pochi eletti. Non solo per eroi straordinari. Ma per tutti. Per te. Per me. Per chiunque scelga di camminare con piccoli passi silenziosi.

Accompagnare chi è solo

La prima chiamata è: accompagnare. Nel nostro mondo di solitudini crescenti, di isolamenti digitali, di frammentazione sociale, accompagnare è rivoluzione.

Non ti chiedo di risolvere i problemi degli altri. Ti chiedo solo: cammini accanto? Un’ora alla settimana. Una telefonata al giorno. Una visita al mese. Piccoli passi. Ma decisivi.

Intorno a te ci sono giovani che cercano la strada. Anziani dimenticati. Malati abbandonati. Stranieri senza patria. Puoi camminare con loro? Non davanti. Non dietro. Ma accanto?

Scegliere la piccolezza

La seconda chiamata è: scegliere la piccolezza. In un mondo ossessionato dalla visibilità, dal successo, dal protagonismo, la piccolezza è profezia.

Quando fai un’opera buona, non la fotografare per Instagram. Falla e basta. Nel silenzio. Nel nascondimento.

Quando servi, non cercare riconoscimenti. Servi e basta. Perché il servizio è il suo stesso premio.

Quando hai un ruolo, usalo per servire, non per dominare. Per accompagnare, non per comandare.

Custodire il silenzio

La terza chiamata è: custodire il silenzio. Non il silenzio vuoto, ma il silenzio pieno. Il silenzio che ascolta. Il silenzio che accoglie. Il silenzio che custodisce.

Impara ad ascoltare. Veramente. Senza interrompere. Senza giudicare. Senza dare subito soluzioni.

Impara a tacere. Quando qualcuno ti confida qualcosa, custodiscilo. Non divulgarlo. Non raccontarlo. Custodiscilo come un tesoro.

Impara a contemplare. Dedica tempo alla preghiera. Al silenzio davanti a Dio. All’adorazione.

Sognare il sogno di Dio

La quarta chiamata è: sognare il sogno di Dio. «Non smettere mai di sognare e di realizzare il sogno di Dio su di te». È stata l’ultima parola di padre Spoto.

Non il tuo sogno egoista. Ma il sogno di Dio. Il sogno che Dio sogna per te. La chiamata. La vocazione. Il progetto d’amore che Dio ha su di te.

Cercalo nella preghiera. Nell’ascolto della Parola. Nella direzione spirituale. Nella comunità. E quando lo hai trovato, realizzalo. Passo dopo passo. Giorno dopo giorno.

Anche se costa. Anche se fa paura. Anche se sembra impossibile.

Restare, non fuggire

La quinta chiamata è: restare. Quando la missione diventa difficile, quando il servizio costa, quando l’accompagnamento pesa, resta.

Nel matrimonio: quando arrivano le crisi, resti o scappi? Nel lavoro: quando diventa pesante, resti o molli? Nel servizio: quando costa, resti o abbandoni?

Restare è la vera rivoluzione. In un mondo che fugge appena diventa difficile, restare è profezia.

Padre Spoto è andato a Biringi. Sapeva che era pericoloso. Ma è andato. E quando è arrivato ed era ancora più pericoloso, è restato. Fino alla fine. Fino al martirio.

Conclusione: «Non si voltò»

E torniamo all’immagine finale. Aeroporto di Fiumicino. 4 agosto 1964. Ore 23.

«Si avviò verso l’uscita di imbarco lentamente e rilassato, come per un viaggio breve di routine. Non si voltò per il rituale saluto prima di sparire oltre il banco di controllo».

Non si voltò.

Questa è l’immagine che dobbiamo portare con noi. Quando Dio chiama, si va avanti. Non si torna indietro. Non si guarda indietro. Non si rimpiange.

Si va avanti. Con fede. Con speranza. Con amore. Anche se costa. Anche se fa paura. Anche se potrebbe essere l’ultimo viaggio.

Padre Spoto non si voltò. E cinque mesi dopo era martire. Ma quell’andare avanti senza voltarsi è diventato testimonianza eterna. È diventato santità. È diventato luce per noi.

Sessantuno anni dopo, i suoi passi continuano. Piccoli passi. Silenziosi. Ma eterni.

E ci chiamano. Ci provocano. Ci interrogano: E tu? Cammini così? Accompagni? Sei piccolo? Custodisci il silenzio? Sogni il sogno di Dio? Resti quando è difficile?

E quando Dio chiama, vai avanti senza voltarti?

Questa è la sfida. Questa è la chiamata. Questa è la santità possibile.

Piccoli passi. Silenziosi. Fedeli. Ogni giorno. Fino alla fine. Fino alla gloria.

Beato Francesco Spoto, piccoli passi silenziosi di un servo dei poveri, prega per noi.

Preghiera finale

Beato Francesco, tu che hai camminato con piccoli passi silenziosi, tu che hai accompagnato con fedeltà, tu che hai scelto la piccolezza, tu che hai custodito il silenzio, tu che hai sognato il sogno di Dio, tu che non ti sei voltato.
Insegnaci a camminare come hai camminato tu.
Insegnaci ad accompagnare chi è solo, a camminare accanto, non davanti né dietro, a essere presenza discreta ma fedele.
Insegnaci a scegliere la piccolezza, a non cercare il protagonismo, a servire nel nascondimento, a prendere l’ultimo posto.
Insegnaci a custodire il silenzio, il silenzio che ascolta, il silenzio che accoglie, il silenzio che protegge i sentimenti grandi.
Insegnaci a sognare il sogno di Dio, a non rassegnarci alla mediocrità, a credere che orizzonti più larghi sono possibili, a non smettere mai di sperare.
E insegnaci a non voltarci indietro, quando Dio chiama verso missioni difficili, quando la paura ci assale, quando vorremmo tornare indietro.
Tu che ora cammini nella gloria, cammina anche accanto ai nostri passi.
Accompagnaci nelle fatiche quotidiane. Sostienici nelle missioni difficili. Incoraggiaci nei momenti di scoraggiamento. Illuminaci nelle scelte decisive.
E quando verrà la nostra ora, quando saremo chiamati a passare da questo mondo al Padre, sii con noi.
Insegnaci a non voltarci, a guardare avanti, a camminare verso la luce.
Per Cristo nostro Signore, che ci ha detto «Seguimi», che ha camminato con noi fino alla croce, che cammina con noi fino alla fine dei tempi. Amen.

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