Paolo Dall’Oglio: uomo di dialogo, uomo di fede

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dall'oglio

Dal 29 luglio del 2013 non abbiamo più notizie di padre Paolo Dall’Oglio. A dieci anni dalla sua scomparsa rimangono, oltre l’esperienza diretta di chi lo ha incontrato, i suoi scritti e la testimonianza del monastero di Mar Musa.

La vita monastica di questo luogo risale al VI secolo e sarebbe stata legata al rito siro-antiocheno. Dall’iscrizione sul muro si legge che la chiesa attuale del monastero è del 450 dell’Egira (1058 d.C.).

Caratteristica dell’iscrizione sono le parole tipicamente coraniche «In nome di Dio il Misericordioso, il Compassionevole». Nel XVI secolo il monastero fu in parte ricostruito e ampliato anche se poi fu abbandonato dai monaci che vi si riunivano la domenica mattina e che forse trovavano una qualche difficoltà a farlo in quelle condizioni.

Verso il 1850 la proprietà passò all’Eparchia siriaca-cattolica di Homs, Hama e Nebek e la parrocchia locale cercò di conservarla al meglio poiché cristiani e musulmani spesso vi si recavano per visite devozionali. Particolare rilievo assumono gli affreschi e, nel terzo strato, dopo gli ultimi restauri, si legge: “Terminato nell’anno seicentoquattro [dell’Egira, 1208 d.C.] per mano del decoratore Sergio figlio del prete Ali, figlio di Barran. Dio abbia pietà di lui e di tutti coloro che vengono in questo oratorio benedetto e fa’ che siano guariti. Amen”[1].

Mar Musa: una comunità interreligiosa

Padre Paolo Dall’Oglio si impegna per ottenere fondi al fine di recuperare pienamente la struttura, far giungere l’acqua, l’elettricità, rianimare l’intera vallata. In vario modo ha cercato di coinvolgere il governo siriano e anche quello italiano, recuperando una parte dei fondi necessari che pure arrivano da diversi benefattori del territorio e anche dall’Europa.

La comunità presente è mista, interreligiosa, consacrata al dialogo islamico-cristiano.

Ciò che caratterizza la comunità monastica, può essere sintetizzata in tre priorità e un orizzonte[2]:

  1. la vita contemplativa
  2. l’impegno nel lavoro manuale
  3. l’ospitalità abramitica.

La prima priorità, la vita contemplativa, trae ispirazione dalla tradizione siriaca e dal contesto vicino orientale e arabo islamico.

L’impegno nel lavoro manuale parte dall’esempio della famiglia di Nazareth, che unisce in sé l’esperienza ‘conclusa’ dove si unisce corpo e spirito, la materialità e l’orizzonte del Regno.

In ogni epoca i monaci hanno praticato l’ospitalità; “ospitalità fatta di servizio, misericordia e perdono, ospitalità di saggezza e direzione spirituale, ospitalità della mensa comune e del silenzio, ospitalità dell’accoglienza dell’altro nella sua ricchezza e nel bisogno, il suo carisma particolare e la sua sete spirituale”; un’ospitalità abramitica.

L’orizzonte è quello di una speciale consacrazione all’amore di Gesù Redentore per i musulmani. In questa cornice, la comunità monastica si pone come ‘lievito evangelico nella comunità musulmana’ con uno spirito di mutuo amore nella considerazione e nel rispetto reciproco tenendo con giusta attenzione questo lavoro di dialogo che consente anche agli stessi cristiani di avere un modo in più per restare in quel territorio.

Islam

Nella direzione di questa considerazione e nel rispetto reciproco, padre Paolo riconosce almeno tre funzioni dell’islam[3].

La prima riguarda la produzione delle grandi Scritture. Attraverso il Corano è come se si fosse completata una tappa umana. Non che non vi siano nuovi testi sacri o gruppi religiosi, ma questi appaiono piuttosto come uno ‘sciame sismico’ che segue un grande terremoto. In questo senso Muhammad è l’ultimo dei profeti e “ciò non vuol dire che la dimensione profetica dell’umanità si è esaurita per sempre, al contrario. Deve essere riscoperta ed è una responsabilità condivisa da tutti”.

La seconda funzione vede la ‘fede come rivelazione naturale’. Riprendendo Louis Massignon in Les Trois prières d’Abraham, che dice: “Se Israele è radicato nella speranza, e la Cristianità votata alla carità, l’Islam è centrato sulla fede”, il musulmano vede Abramo come la persona a cui Dio affida una rivelazione. Abramo è l’amico di Dio ed è un modello di un’alleanza in cui la fiducia, diciamo reciproca, è di ogni giorno, di ogni momento. Ma è anche l’alleanza come obiettivo finale, escatologica e, quindi, di fede.

Vi è poi una terza funzione che è quella della sfida. L’islam da sempre per i cristiani è stato percepito come una sfida. Ma possiamo dire che la stessa cosa sia accaduta ed accada per il mondo dove vivono più numerosi i fedeli dell’Islam quando osserva il mondo occidentale (nel proprio immaginario ‘cristianizzato’), che si avventa nelle dinamiche della propria realtà araba ad esempio.

Padre Paolo ci fa riflettere anche in una direzione diversa quando ci invita a leggere la storia del medioevo, per esempio. Come sarebbe andata a finire la storia, quale deriva avrebbe avuto la fede cristiana senza il “limitare” del mondo dei seguaci di Mohammed? Parla di quel mondo cristiano, rappresentato in diversi tra affreschi e mosaici, di una forza imperiale e totalizzante impressionante, certa non di matrice strettamente evangelica.

Quel limite, per gli uni e per gli altri, rappresenta un’opportunità per ritrovarsi nella propria fede e nell’incontro con l’altro. La sfida iniziale non è dunque quella di convertire o l’uno o l’altro, ma è quella di convertirsi all’opera di Dio[4].

Islamofilia

Le risposte non verranno da archeologia o storia, da dogmi o teologie, dalle sole istituzioni o dalle religioni; le risposte saranno date da incontri che faranno storie e teologie con uomini religiosi, nelle istituzioni e dalla base. Incontri che sono già iniziati a Mar Musa, come nel mondo, e che hanno bisogno di maggiore continuità, oltre che di essere rappresentati in modo più deciso.

Padre Paolo ha voluto coniare un termine che nella comunità di Mar Musa riecheggia costantemente: Islamofilia[5]. Al contrario di islamofobia, paura per l’islam (per tanti aspetti deriva fobica accecante), islamofilia completa in qualche modo il percorso iniziato con il proprio viaggio verso l’Islam; potrebbe diventare paradigma di un nuovo viaggio personale verso cui appuntare altrettanto nuove esperienze di dialogo.

C’è un primo Incontro che rende possibile gli altri incontri. Questo Incontro richiama la prima priorità della comunità monastica di Mar Musa. È posto a principio e cardine dell’esperienza di padre Paolo. È il carattere, è il sigillo del cristiano che non può aver paura dell’incontro con chiunque altro, dopo essere stato ed essere con l’Altro. La cosa più entusiasmante è che è possibile vivere questo non in modo estemporaneo e saltuario, ma nella ferialità, nel quotidiano, con una possibilità infinita di ripetersi, di allontanamenti e di riavvicinamenti.

L’impegno del lavoro manuale offre una concretezza e, come dei monaci in città, è come se ogni giorno, in tutte le mansioni ordinarie, queste possibilità d’incontro, apparentemente così lontane nello spirito, fossero continuamente rese possibili per merito delle relazioni quotidiane. Più queste relazioni diventano incontri decisamente umani, più si diventa divini. Più si rinnova quest’esperienza, più si diventa rinnovati. L’altro, trova spazio nell’ospitalità abramitica di un dialogo.

“Un dialogo di successo lascia un senso di comunione: ciò che sembrava contrapposto è ormai in armonia. Ciò che era diverso è diventato complementare. Ciò che faceva paura da quel momento in poi nutre la fiducia. Ciò che era da perdere, i pesi reciproci, è perso per davvero. Alla fine di un buon dialogo, ognuno copre il peccato dell’altro, perdona se stesso. Non siamo più estranei gli uni agli altri: formiamo un solo popolo.

Il mondo moderno è un’arena di sordi che parlano tra loro. Come in quei talk show in televisione dove il presentatore si diverte ad attivare la follia verbale degli interlocutori, le parole del mondo sgorgano ma nessuno le ascolta.

Se questi discorsi non ci interessano, se non ci attirano, è perché proviamo un senso di insofferenza, che proviene da una paura profonda, lontana: quella che Dio ci abbandoni, che non ci sia fedele. Ecco perché cerchiamo di fare meglio di lui, proteggiamo le nostre identità, i nostri particolarismi, ci attacchiamo a quello che sappiamo. Ma Dio è fedele! Ogni disegno di vita ha una bellezza straordinaria”[6].

Questo monastero può essere considerato un laboratorio di virtù? Delle virtù, se ne sente parlare sempre meno nel linguaggio ordinario, come se fosse un termine anacronistico e che invece appare sempre più necessario. Possono le virtù di padre Paolo, del monastero di Mar Musa, essere utili al nostro vivere quotidiano, per questo nostro mondo?

Monachesimo

Non possiamo affidare questo momento storico così importante a pochi dilettanti, vittime, in diverso modo, di paure più o meno esplicite cui spesso, proprio per queste paure, tendono ad aggredire, piuttosto che ad ascoltare. Non possiamo farci annoverare nemmeno fra quelli che presi dal vortice del quotidiano, dimenticano se stessi.

L’appello a formarsi senza farsi imbonire, a sapere senza dare per scontato, a disporsi a conoscere l’altro senza chiudersi nei propri pregiudizi, a riconoscere valori comuni a tutti, credenti e non, deve e può avere risposta in tutti gli uomini che vogliono essere migliori, che applicano semplici virtù di buon senso, incamminati verso il bello, il bene, il giusto, il vero, verso un ethos globale di riferimento: ci sono molte persone su questa strada.

È questo un “monachesimo” possibile che corregge i falsi appelli all’andare via da se stessi, verso consumismi, dispersioni esistenziali, superficialità. In un monastero interiore, spirituale in dote ad ogni uomo, dove poter essere in ogni città, in ogni luogo di vita.

Mar Musa sembra dire che occorre mantenere questo spazio di incontro come il più ambito.

Perché questo incontro avvenga, il dialogo è un metodo. Il vantaggio di uno strumento è che oltre a velocizzare i passaggi del tuo lavoro, mentre ti rendi specialista, non ti lascia più e non lo lasci più. Gli incontri fatti di dialogo sono intensi, vivono di empatia, mettono ciascuno degli interlocutori sempre in una posizione nuova, ri-generante.

Può il terrazzo di Mar Musa, dove s’incontrano all’imbrunire gli ospiti proveniente da vari luoghi, di diverse religioni, essere lo spazio di dialogo come proposto in queste pagine, più dei canali virtuali della globalizzazione? Può quel terrazzo di Mar Musa essere uno spazio laboratoriale per le terrazze e per le piazze d’Europa e del mondo?

Dialogo

Senza dialogo c’è un terrore che rimane dentro, che può rimanere lì o può manifestarsi fuori, nell’espressioni più disparate e, a volte, disperate. Il dialogo interiore come una forma di preghiera, espressione di un incontro, dell’Incontro, è fonte di una buona operosità. La concretezza del lavoro comune a Mar Musa, può essere segno di un’operosità dialogante necessaria che segue le nostre liturgie. È un fare pratico con-creativo, costruttivo e sociale che rende visibile l’esperienza dell’Incontro e degli incontri.

Paolo Dall’Oglio, partecipando alla Marcia per la Pace di Lecce, il 31 dicembre 2012, condivise il sentimento che lo univa al popolo siriano e, sebbene espulso, maturava l’idea di ritornare nella terra martoriata per amore del suo popolo. Era quel popolo che lo richiamava alla responsabilità personale, più che la paura di tornare, più che la possibile restrizione della sua libertà, più che la morte stessa che poteva subire, narrava che non poteva non testimoniare quanto accadeva in Siria, non solo in Italia o in Europa, ma anche e soprattutto in quella terra martoriata.

Dialogava qui, ma sentiva la responsabilità sociale di dialogare lì, anche se non voluto dal regime. Ci insegna così ancora oggi un modo nuovo di contemplare, di unirsi alla preghiera-grido delle vittime dell’odio generato da interessi di parte, ci dice di un’accoglienza abramitica professata e possibile anche se, purtroppo, non abbiamo avuto più sue notizie, da 10 anni.

È così che, forse, al prezzo della sua assenza può seguire il ticket del nostro impegno a cercare e trovare vie di Dialogo in ogni nostra circostanza.


[1] P. Dall’Oglio, Innamorato dell’Islam credente in Gesù, Jaca Book, Milano, 2013, 2-3.

[2] Cf. P. Dall’Oglio, Innamorato dell’Islam credente in Gesù, op. cit., 185.

[3] P. Dall’Oglio, Innamorato dell’Islam credente in Gesù, 30-31

[4] Ib., 85

[5] Ib., 178.

[6] P. Dall’Oglio, L’uomo del dialogo, a colloquio con Guyonne de Montjou, 199.

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