Paolo VI: l’eleganza della fede

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Il 6 agosto 1978 moriva a Castelgandolfo Paolo VI. Nel 45° anniversario riproponiamo un articolo di Pierangelo Sequeri, pubblicato sull’Osservatore Romano del 18-19 agosto 2016 sulla novità della visione spirituale di Montini sull’arte.

La vera novità dell’invenzione spirituale di Paolo VI non sta in primo luogo nel messaggio che incoraggia la ripresa dell’impegno cristiano con l’arte, per allargare e favorire l’accesso e la comunicazione della fede. La novità risiede essenzialmente nella sperimentazione linguistica di un pensare poetico della verità della fede, che riporta alla sua trasparenza la res della fede, disincagliandola elegantemente dalle fasce soffocanti di una pigra gergalità metafisica, che lascia intendere l’abitudine alla parola non più pensata e non più viva di una mera comunicazione intra-ecclesiastica.

Giovanni Battista Montini – Paolo VI, come spero di avere potuto far trasparire, almeno indicativamente, produce l’esercizio ermeneutico del dogma della fede, facendone lievitare l’eloquenza con la forza innovativa dell’illuminazione metaforica, dell’incidenza esistenziale, della risonanza culturalmente ricevibile. Lo fa con altissima cura di conservare intatta la regola della fede e, al tempo stesso, la riporta all’essenza del suo contenuto, mostrando efficacemente che quel contenuto non si lascia sostituire dalla forma dottrinale: ossia che la verità della cosa di Dio è capace di toccarci nell’anima, oltre la formula.

Nel performativo poetico della prosa teologale montiniana non c’è l’inerzia di una lingua ecclesiastica automatica: che si predica, per così dire, da sola (uno dei difetti più implacabili della predicazione più corrente). Non c’è nessun avventurismo della formula ad effetto e del significato innovativo, che disinvoltamente rimuove il rapporto con la tradizione.

Paolo VI distilla l’anima oggettiva del dogma cattolico e la rende abitabile per l’anima dell’interlocutore. Il credente ne rinnova la grata meraviglia della rivelazione, che riscalda la fede; il non credente intuisce l’originalità della visione delle cose che essa accende.

È questo che intendo quando parlo dell’invenzione di una poetica teologale della fede, in actu exercito, che pure si pronuncia normalmente in prosa sapienziale dell’anima. La novità spirituale è dal lato del gesto teologale, più che dal lato della retorica discorsiva. Mi permetto infine, a questo riguardo, con licenza del lettore, una congettura personale.

Il tratto di questa assidua e profonda cura del pensiero, che punta all’aderenza della poetica e della cosa della fede, è talmente radicato nella spiritualità dell’uomo e del credente (Montini non fu teologo di professione, fu un attore geniale del pensare teologale), da far immaginare che questo sia stato uno dei doni principali che egli si sentiva impegnato a offrire alla Chiesa. Nella speranza che la Chiesa — come dice nel Pensiero alla morte — se ne accorgesse. Non credo affatto che fosse un uomo amletico dubbioso, angosciato o incerto, come una maligna narrazione, in parte ideologica in parte ecclesiastica, si è compiaciuta di sottolineare.

Non credo neppure che l’ostilità delle resistenze, secolari ed ecclesiastiche, opposte ad alcuni aspetti del suo magistero, sia stata la maggiore ragione di sofferenza. Credo invece che grande dolore gli abbia procurato il più sostanziale fraintendimento, che queste critiche mettevano in evidenza, di questa sua passione di rendere ragione del logos della speranza cristiana, con dolcezza e persuasione, attraverso l’affinamento della poetica teologale della verità cristiana.

Sia che venisse accusato di stravolgere la bellezza dell’antica sacralità della liturgia cristiana sia che venisse sospettato di cedere il nitore del dogma al dialogo col moderno, l’effetto di incomprensione doveva colpire il cuore stesso del suo progetto spirituale. La fatica e il rigore della ricerca di una conciliazione necessaria, senza cedere in alcun modo alla superficialità avventurosa che se ne andava appropriando nel post-Concilio, erano la garanzia ascetica della necessità cattolica che lo animava.

Per comprendere a fondo questo lascito, è necessario interrogare, da questo punto di vista, proprio i testi più teologici e magisteriali. Non è per caso che papa Francesco abbia potuto definire, di slancio, l’Evangelii nuntiandi come «il documento pastorale più grande che è stato scritto fino ad oggi». Però, per ritrovare l’essenza della sua lezione, e del suo metodo, è necessario ripercorrere puntualmente la finezza delle sue “trascrizioni” della verità cristiana.

Per una volta, almeno, si tratta di evitare uno studio del magistero di papa Montini che si limiti a riconoscere puntualmente l’integrità con la quale egli ribadisce i grandi temi fondanti della fede: l’importanza del cristocentrismo, il dialogo con la cultura, la natura della Chiesa. Sarebbe da avviare, piuttosto, l’esercizio contrario: ossia, l’analisi del come egli li abbia miracolosamente sottratti alla routine della lettera e restituiti alla parresia dello spirito.

Si tratta, cioè, di studiare attentamente le sue sapienti “decostruzioni” della gergalità ecclesiastica convenzionale, per cogliere il modo in cui il nitore del dogma è restituito alla poetica e alla performatività della sua novità irriducibile: tanto da arrivare a stupirci con la simultanea riscoperta della sua originaria singolarità e della sua eloquenza contemporanea. Come ha trovato, quest’uomo, la via di questa correlazione? Come ha plasmato — praticamente senza modello — un magistero di questa intonazione? Come ha scelto le tonalità culturali, non improvvisate, delle parole esatte con cui restituisce e intercetta la sensibilità contemporanea delle evidenze storiche?

E da dove gli viene la penetrazione teologica e la continuità spirituale di questo grande nucleo sintetico, che mette in relazione diretta la dottrina del soprannaturale cristiano con una fenomenologia del sensibile e dello spirituale, che riflettono la creaturalità del mondo nell’esperienza universale, aprendola dall’interno al mistero della presenza e dell’azione redentrice di Dio?

La singolarità dell’impianto spirituale della persona credente, qui, fa tutt’uno con l’invenzione di uno stile del pensiero della verità cristiana e cattolica. Sappiamo ancora poco di tutti gli infiniti dettagli di questa invenzione esplicativa e poetica, sapienziale e spirituale: e del suo metodo. Per ora, abbiamo cercato soprattutto sull’altra faccia del foglio, in cui troviamo semplicemente riscontro — e come potrebbe essere altrimenti? — delle cose dell’insegnamento cristiano che conosciamo.

Un sintomo, oggi sempre più evidente, potrebbe convincerci dell’urgenza di colmare questa lacuna con l’adeguata progettazione di una ricerca rigorosa e critica. Più passa il tempo e più sentiamo che l’intelligenza e la passione di questo esercizio ermeneutico di papa Montini, gesto inaugurale di una nuova appassionata poetica del pensare e del dire la fede, con il suo metodo non improvvisato, non avventuristico, culturalmente accorto e pareneticamente elegante, ci mancano. Non siamo ancora all’altezza della sua eredità, credo, su questo punto.

E penso che dobbiamo risarcire Paolo VI di questa perdurante incomprensione (e inadempienza). Se ne renderà più visibile il dono e se ne prolungherà il beneficio: a nostro vantaggio, del resto, in favore della Chiesa. Il suo desiderio più forte, alla fine.

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