Vattimo: anarchia dell’amicizia

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Il filosofo italiano Gianni Vattimo è morto il 19 settembre 2023 all’età di 87 anni. Con lui si è spenta una voce importante del discorso filosofico contemporaneo. Ma un pensatore che ha inteso tutta la sua filosofia come un dialogo amichevole tace davvero con la sua morte? Un ricordo e un ringraziamento a Vattimo.

Deutsche Fassung unten

Più volte Gianni Vattimo, professore di estetica e poi di filosofia teoretica all’Università di Torino dal 1964 al 1982, ha intessuto nei suoi testi una parola dell’inno di Hölderlin “Celebrazione della pace”:

Molto ha dal mattino,
Da quando siamo un colloquio e udiamo l’uno dall’altro,
Uomo esperto; ma presto però saremo un canto (Celebrazione della pace, VV 91-93).

Come esseri umani non siamo semplicemente esseri parlanti – siamo una conversazione e possiamo essere compresi solo da questo. Siamo conversatori e uditori gli uni degli altri. In questo modo facciamo le nostre esperienze dal mattino, cioè dall’inizio. Esperienze che possiamo anche trascendere: siamo conversazione e possiamo anche diventare canto.

Filosofia come colloquio

In quanto esseri umani, non siamo fissati a un unico essere, ma siamo aperti alla sua sempre nuova configurazione. Questa è la natura estetico-aperta dell’essere umano. Nel suo pensiero filosofico, Vattimo ha sperimentato questa conversazione in costellazioni insolite. In numerosi testi ha avviato un dialogo tra posizioni che all’inizio sembrano distanti – non per trovare un’intersezione, ma perché dalla conversazione aperta di ciò che può essere inconciliabile può emergere qualcosa di nuovo.

Così Vattimo ha fatto incontrare Marx con Nietzsche, Nietzsche con Heidegger, Heidegger con Benjamin e anche con Paolo, per citare solo alcuni esempi. E così Vattimo ha cercato, infine, di far dialogare anche comunismo e cattolicesimo, postmodernità e cristianesimo.

Da qui nasce una certa concezione della filosofia. Per Vattimo filosofia significava, non da ultimo, mantenere il dialogo con i defunti. Lo esprime in modo impressionante in un’intervista rilasciata nel 1980 al quotidiano di sinistra Lotta continua. Il filosofo torinese scrive che «il luogo verso cui si dirige l’esistenza è la morte», non «l’essere con gli attributi dell’eternità e della permanenza».

E si chiede: «Si tratta dunque di una filosofia pessimista, disperata, “nichilista”? Io penso di no. Heidegger parla della morte come di un “santuario”, un deposito di tesori. Non solo il piacere delle cose della vita è strettamente legato alla loro non permanenza e caducità, al loro divenire e passare. Anche la ricchezza della storia umana, nel suo cambiamento e arricchimento (di significati e sfumature) attraverso il susseguirsi delle generazioni e la diversità delle interpretazioni, dipende strettamente dal morire. La morte è il santuario in cui si conservano i valori: l’esperienza di vita delle generazioni passate, i grandi e i belli del passato con cui vogliamo essere e parlare, le persone che abbiamo amato e che sono scomparse.

Anche il linguaggio, in quanto cristallizzazione di atti verbali, modi di fare esperienza, è conservato nel santuario della morte. Questo santuario è in fondo anche la fonte delle poche regole che possono aiutarci a non muoverci in modo caotico e disordinato nella nostra esistenza, anche se sappiamo di essere senza meta. Le nuove esperienze che facciamo hanno senso solo in quanto continuazione del dialogo con ciò che il santuario della morte – storia, tradizione, linguaggio – ci ha tramandato» (Jenseits vom Subjekt, 17s.)

Non è dall’appello a un’origine assoluta, a un fondamento incrollabile o a una meta onnicomprensiva che tutte le cose acquistano senso e significato. La mortalità è troppo profondamente inscritta in tutte le relazioni e con essa si rompono tutte le strutture di significato. Ma proprio questo può essere inteso anche come un momento di speranza. Amiamo gli altri, amiamo le cose per la loro caducità, vulnerabilità e fragilità.

C’è – questo è il momento di speranza nel pensiero di Vattimo – un legame debole che abbraccia le persone nella loro mortalità. La continuità non è la linea che collega un terreno metafisico a un telos utopico, ma l’intreccio di esseri umani mortali in una conversazione in cui ci rivolgiamo e rispondiamo gli uni agli altri. I morti fanno parte di questo dialogo.

Vattimo ha dato un esempio di come può essere questo dialogo: non gli interessa chiedersi se Platone avesse ragione nella sua dottrina delle idee e giudicare la sua filosofia dal nostro punto di vista, ma scoprire le potenzialità sovversive del suo pensiero per il nostro tempo. A questo si collega la concezione di Vattimo della filosofia come ermeneutica, che confida nel fatto che i testi di un passato lontano si aprano ancora oggi a noi in una lettura produttiva, cioè critico-sovversiva.

Tuttavia, non si tratta di legittimare la propria posizione a partire dalle fonti del passato. Piuttosto, Vattimo si è posto il compito di tracciare, più e più volte, una storia di indebolimento delle forti pretese metafisiche, teologiche, ideologiche e politiche e del loro intrinseco potenziale di violenza. Ha dato a questa concezione della filosofia il nome di «pensiero debole», diventando così (insieme a Pier Aldo Rovatti) l’iniziatore di una forma italiana di espressione della filosofia postmoderna.

Ritorno della religione?

Quando Vattimo parla della morte nell’intervista sopra citata, si vede come un ateo che si è allontanato dalla fede cattolica della sua giovinezza. Dopo il 1989, si è riavvicinato a essa. Nel 1995 scrive in Credere di credere: «Ma come ritorna allora il religioso nella mia/nostra esperienza attuale, se “ritorna” come mi sembra? Per quanto mi riguarda personalmente, non mi vergogno di dire che l’esperienza della morte ha qualcosa a che fare con essa – la morte di persone care con le quali pensavo di percorrere una strada molto più lunga; in alcuni casi, di persone che avevo sempre immaginato al mio fianco quando sarebbe arrivato il momento di andare, che mi sembravano amabili proprio anche per il loro dono […] di rendere accettabile e vivibile la morte stessa (come nel verso di Hölderlin: “guarire, entusiasmando come te”)» (Glauben – Denken, 10).

Per Vattimo la questione della morte dei propri cari fa parte di un insieme di motivi che lo portano a parlare di un «ritorno della religione». Per lui, tuttavia, non si tratta necessariamente di un fatto sociologico (come se le persone tornassero a essere più religiose) e certamente non di un’esigenza normativa (come se dovessimo tornare a un tempo precedente alla secolarizzazione).

Innanzitutto, per Vattimo, la religione non può essere pensata in altro modo che come un ritorno: nessuno parte da zero nella questione della fede religiosa. L’esperienza religiosa non è uno zero assoluto, dice, perché questo sarebbe, secondo le parole del filosofo della religione berlinese Klaus Heinrich, l’evocazione di un mito delle origini che vuole tenerci fuori dalle esigenze della storia.

«È la realizzazione di qualcosa che pensavamo di aver definitivamente dimenticato, la ricomparsa di una traccia che era stata spazzata via, la rottura di una ferita, il ritorno di qualcosa che era stato rimosso, la rivelazione di qualcosa che si pensava di aver superato (di essere diventato vero e di conseguenza di essere stato liquidato) come qualcosa che era solo ferito, una lunga convalescenza in cui dobbiamo riaprire i conti con la traccia indelebile della malattia» (Die Spur der Spur, 107).

Il «ritorno della religione» non offre quindi una certezza assoluta, ma è legata alla lettura e all’interpretazione dei messaggi che ci arrivano dagli altri – prima e intorno a noi.

Vattimo scopre che il suo modo di filosofare, cioè l’indebolimento delle pretese forti e assolute, lo riporta alla religione. Nei profeti di Israele, nei vangeli di Gesù e nella predicazione di Paolo, il filosofo riconosce l’origine del pensiero debole così come lo aveva sviluppato sulla scia di Nietzsche e Heidegger.

Se Dio, l’Assoluto, entra lui stesso nella storia, come dice la storia di Gesù, anche ogni altra pretesa assoluta perde la sua legittimità e viene così messa in discussione. Per Vattimo, la parola di Paolo è di importanza decisiva: Cristo non si è aggrappato all’essere come Dio, ma ha svuotato se stesso e ha assunto la forma di servo (cf. Fil, 1,5-9). In Gesù, l’indebolimento dell’assoluto può essere sperimentato in un modo che storicamente continua nella filosofia postmoderna e non potrebbe mai essere messo a tacere nemmeno dalle interpretazioni autoritarie del cristianesimo, che pure ci sono state e ci sono.

L’approccio di Vattimo alla tradizione biblica non è un ritorno a un fondamento metafisico e alle sue autorità corrispondenti, ma un invito a una rilettura sovversiva del cristianesimo e della tradizione occidentale.

L’amicizia

Centrale per Vattimo è anche una parola di Gesù tratta dal vangelo di Giovanni, dove si legge: “Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamato amici” (Gv 15,15).

Questa amicizia ha legato Vattimo a molti defunti oltre la loro morte. È un’amicizia che non può essere giustificata da nessuna ragione, da nessuna arché, e può quindi essere definita an-archica. Se alcuni testi di Vattimo continuano a essere letti e interpretati in un’anarchia dell’amicizia, anche la sua voce non tace.

Epilogo (ricordi)

Quando ho incontrato Vattimo, nel 2013 al convegno “Futuro religione. Sul rilievo sociale del cristianesimo nel XXI secolo”, organizzato da Karlheinz Ruhstorfer, mi sono seduto accanto a lui a cena. Ricordo ancora due delle domande che ho potuto porre a Vattimo durante la conversazione. Quando gli chiesi cosa pensasse del papa appena eletto, rispose pieno di attese e disse che sarebbe stato felice se papa Francesco lo avesse chiamato un giorno. Quello che non sapevo all’epoca è che Vattimo e Bergoglio si sarebbero quasi incontrati se non ci fosse stato un imprevisto.

Scrive Santiago Zabala: «Sapevamo che Vattimo e l’uomo nato in Argentina Jorge Mario Bergoglio hanno molti amici in comune; avrebbero dovuto persino far parte dello stesso gruppo di discussione in una conferenza, quando Bergoglio fu eletto al papato nel marzo 2013».

Quando nel 2018 è uscita l’ultima grande pubblicazione di Vattimo, il libro Essere e dintorni, il papa si è congratulato con lui per telefono. La mia seconda domanda riguardava la Fenomenologia dello spirito di Hegel. Volevo sapere cosa pensava Vattimo di quest’opera. Senza ulteriori indugi, il filosofo mi disse che non era sicuro di cosa pensare e di quale influenza avesse avuto sul suo pensiero, poiché non aveva mai compreso appieno quest’opera. Sentire una parola così sincera dalla bocca di un pensatore di fama mondiale mi fece una grande impressione.

Negli anni ’90, quando Vattimo ha ricominciato a occuparsi di religione, era uno dei filosofi più conosciuti. Quasi nessun altro filosofo laico ha aperto una conversazione così ampia alle Chiese e alle teologie come lui, ma l’offerta è rimasta in gran parte inascoltata, se non addirittura rifiutata.

L’ultima volta che ho incontrato Vattimo è stato in occasione di una conferenza organizzata nel 2016 al Sant’Anselmo, l’Università romana dell’Ordine benedettino, in occasione del suo 80° compleanno (organizzata da Philippe Nouzille). Il fatto che un’università pontificia ospitasse un simposio in onore del filosofo semi-credente – come lui si definiva occasionalmente – era chiaramente una gioia per lui.


Anarchie der Freundschaft. Dank an Gianni Vattimo

Der italienische Philosoph Gianni Vattimo ist am 19. September 2023 im Alter von 87 Jahren verstorben. Mit ihm ist eine wichtige Stimme des philosophischen Diskurses der Gegenwart verstummt. Aber verstummt ein Denker, der seine gesamte Philosophie als freundschaftlichen Dialog verstanden hat, mit seinem Tod wirklich? Ein Nachruf und Dank an Vattimo.

Philosophie als Gespräch

Immer wieder hat Gianni Vattimo, der von 1964 bis 1982 Professor für Ästhetik und danach für theoretische Philosophie an der Universität Turin war, in seine Texte ein Wort aus Hölderlins Hymne „Friedensfeier“ eingeflochten:

Viel hat von Morgen an,
Seit ein Gespräch wir sind und hören voneinander,
Erfahren der Mensch; bald sind wir aber Gesang.
(Friedensfeier, VV 91–93)

Als Menschen sind wir nicht bloß sprechende Wesen – wir sind ein Gespräch und nur von diesem her verstehbar. Wir sind ein Gespräch und voneinander Hörende. Darin machen wir von Morgen, d.h. von Beginn an, unsere Erfahrungen. Erfahrungen, die wir aber auch überschreiten können: Wir sind Gespräch und können auch zum Gesang werden. Als Menschen sind wir nicht auf ein Wesen festgelegt, sondern für dessen immer neue Gestaltung offen. Darin besteht das ästhetisch-offene Wesen des Menschen. In seinem philosophischen Denken hat Vattimo dieses Gespräch in ungewöhnlichen Konstellationen erprobt. In zahlreichen Texten initiierte er einen Dialog von Positionen, die zunächst weit auseinander zu liegen scheinen – nicht, um die verbindende Schnittmenge zu finden, sondern weil aus dem offenen Gespräch von durchaus Unvereinbarem etwas Neues entstehen kann: So brachte Vattimo Marx mit Nietzsche zusammen, Nietzsche mit Heidegger, Heidegger mit Benjamin und auch mit Paulus, um nur einige Beispiele zu nennen. Und so suchte Vattimo schließlich auch Kommunismus und Katholizismus, Postmoderne und Christentum in einem Dialog zu halten.

Daraus erwächst ein bestimmtes Verständnis von Philosophie. Für Vattimo bedeutete Philosophie nicht zuletzt, mit den Verstorbenen im Gespräch zu bleiben. In beeindruckender Weise hat er dies 1980 in einem Interview mit der links-revolutionären italienischen Tageszeitung „Lotta continua“ ausgedrückt. Der Turiner Philosoph schreibt, „der Ort, auf den das Dasein zusteuert, ist der Tod“, nicht das „Sein mit den Attributen der Ewigkeit und Beständigkeit“. Und er fragt:

Ist das also eine pessimistische, verzweifelte, „nihilistische“ Philosophie? Ich glaube nicht. Heidegger spricht vom Tod als „Schrein“, einem Hort von Schätzen. Nicht nur die Lust an den Dingen des Lebens ist eng an deren Unbeständigkeit und Vergänglichkeit, an deren Werden und Vergehen gebunden. Auch der Reichtum der menschlichen Geschichte in seiner Veränderung und Anreicherung (an Bedeutungen und Nuancen) durch die Abfolge der Generationen und die Vielfalt der Interpretationen hindurch steht in strenger Abhängigkeit zum Sterben. Der Tod ist der Schrein, in dem die Werte aufbewahrt sind: die Lebenserfahrung der vergangenen Generationen, die Großen und Schönen der Vergangenheit, mit denen wir zusammen sein und sprechen wollen, die Personen, die wir liebten und die verschwunden sind. Selbst die Sprache als Kristallisation von Wortakten, Erfahrungsweisen liegt im Schrein des Todes aufbewahrt. Dieser Schrein ist im Grunde auch die Quelle der wenigen Regeln, die uns helfen können, uns in unserem Dasein nicht chaotisch und ungeordnet zu bewegen, obgleich wir um unsere Ziellosigkeit wissen. Die neuen Erfahrungen, die wir machen, haben nur Sinn als Fortführungen des Dialogs mit dem, was der Todesschrein – die Geschichte, die Tradition, die Sprache – uns überliefert hat. (Vattimo: Jenseits vom Subjekt, 17f)

Nicht aus der Berufung auf einen absoluten Ursprung, ein unerschütterliches Fundament oder ein allumfassendes Ziel gewinnen all die Dinge Bedeutung und Sinn. Zu tief ist die Sterblichkeit in alle Beziehungen eingeschrieben, mit ihr zerbrechen sämtliche Sinnstrukturen. Gerade das kann aber auch als ein hoffnungsvolles Moment verstanden werden. Wir lieben die Anderen, wir lieben die Dinge aufgrund ihrer Vergänglichkeit, Verletzlichkeit und Fragilität. Es gibt – das ist das Hoffnungsmoment in Vattimos Denken – ein schwaches Band, das die Menschen in ihrer Sterblichkeit umfasst. Kontinuität ist nicht die Linie, die einen metaphysischen Grund mit einem utopischen telos verbindet, sondern die Verwobenheit sterblicher Menschen in ein Gespräch, in dem wir uns aneinander adressieren und einander antworten. Die Toten sind Teil dieses Dialogs.

Wie dieser Dialog aussehen kann, hat Vattimo an einem Beispiel deutlich gemacht: Es gehe ihm nicht darum zu fragen, ob Platon mit seiner Ideenlehre Recht habe, und von unserem Standpunkt aus über seine Philosophie zu urteilen, sondern darum, die subversiven Potentiale seines Denkens für unsere Zeit freizulegen. Damit verbunden ist Vattimos Verständnis von Philosophie als Hermeneutik, welche Texten einer fernen Vergangenheit zutraut, dass sie sich uns noch heute in einer produktiven – d.h. kritisch-subversiven – Lektüre eröffnen können. Dabei geht es aber gerade nicht um eine Legitimation der eigenen Position aus den Quellen der Vergangenheit. Vielmehr hat Vattimo es sich zur Aufgabe gemacht, immer wieder neu eine Geschichte der Schwächung starker metaphysischer, theologischer, ideologischer und politischer Ansprüche und des ihnen innewohnenden Gewaltpotentials nachzuzeichnen. Er gab diesem Verständnis von Philosophie den Namen „pensiero debole“ („schwaches Denken“) und wurde damit (gemeinsam mit Pier Aldo Rovatti) zum Initiator einer italienischen Ausdrucksform postmoderner Philosophie.

Wiederkehr der Religion?

Als Vattimo im oben zitierten Interview über den Tod sprach, verstand er sich als Atheist, der sich vom katholischen Glauben seiner Jugend abgewandt hatte. Nach 1989 näherte er sich diesem wieder an. 1995 schreibt er in „Credere di credere“:

Wie aber kehrt dann das Religiöse in meiner/unserer gegenwärtigen Erfahrung wieder, wenn es denn „wiederkehrt“, wie es für mich den Anschein hat? Was mich persönlich betrifft, so schäme ich mich nicht zu sagen, daß die Erfahrung des Todes damit zu tun hat – des Todes geliebter Menschen, von denen ich dachte, ich würde ein viel längeres Stück Weges mit ihnen gemeinsam gehen; in einigen Fällen von Menschen, die ich mir immer an meiner Seite vorgestellt hatte, wenn die Reihe zu gehen an mich kommen würde, die mir liebenswert erschienen gerade auch aufgrund ihrer Gabe […], den Tod selbst annehmbar und lebbar zu machen (wie in dem Hölderlin-Vers: „heilend, begeisternd wie du“). (Glauben – Philosophieren, 10)

Die Frage nach dem Tod geliebter Menschen zählt für Vattimo zu einem Ensemble von Motiven, die ihn von einer „Wiederkehr der Religion“ sprechen lassen. Diese ist für ihn jedoch nicht unbedingt eine soziologische Tatsache (als würden die Menschen wieder religiöser) und schon gar keine normative Forderung (als sollten wir zu einer Zeit vor der Säkularisierung zurückkehren). Zunächst ist für Vattimo Religion gar nicht anders denn als Wiederkehr zu denken: Niemand fange in der Frage des religiösen Glaubens bei Null an. Die religiöse Erfahrung sei kein absoluter Nullpunkt, wäre das doch, mit dem Berliner Religionsphilosophen Klaus Heinrich gesagt, die Beschwörung eines Ursprungsmythos, der uns aus den Erfordernissen der Geschichte heraushalten wolle. „Sie ist die Vergegenwärtigung von etwas, das wir endgültig vergessen zu haben meinten, das Wiederauftauchen einer verwehten Spur, das Aufbrechen einer Wunde, die Wiederkehr eines Verdrängten, die Offenbarung eines für überwunden (wahr geworden und folglich für abgetan) Gehaltenen als eines bloß Verwundenen, eine lange Konvaleszenz, in der wir die Rechnung mit der unauslöschlichen Spur der Krankheit noch einmal aufmachen müssen.“ (Die Spur der Spur, 107) Sie bietet darum keine absolute Sicherheit, sondern ist an das Lesen und Interpretieren der Botschaften gebunden, die uns von anderen Menschen – vor und um uns – erreichen.

Vattimo entdeckt, dass seine Weise des Philosophierens, nämlich die Schwächung starker, absoluter Ansprüche, ihn zurück zur Religion führt. In den Propheten Israels, in den Evangelien von Jesus und in der Verkündigung des Paulus erkennt der Philosoph die Herkunft des schwachen Denkens, wie er es im Ausgang von Nietzsche und Heidegger entwickelt hatte. Wenn Gott, das Absolute, selbst in die Geschichte eingehe, wie das die Erzählung von Jesus besagt, verliere auch jeder andere absolute Anspruch seine Legitimation und werde dadurch infrage gestellt. Entscheidende Bedeutung hat für Vattimo dabei das Wort des Paulus, dass Christus nicht daran festhielt, wie Gott zu sein, sondern sich entäußerte und die Gestalt eines Knechtes annahm (Brief an die Gemeinde von Philippi, 1,5–9). An Jesus wird die Schwächung des Absoluten in einer Weise erfahrbar, die geschichtlich bis in die postmoderne Philosophie nachwirke und auch von autoritären Auslegungen des Christentums, deren es zur Genüge gab und gibt, nie zum Verstummen gebracht werden konnte. Vattimos Annäherung an die biblische Tradition ist nicht die Rückkehr zu einem metaphysischen Fundament und den ihm korrespondierenden Autoritäten, sondern die Einladung zur subversiven Relektüre des Christentums und der abendländischen Tradition.

Freundschaft

Zentral ist für Vattimo auch ein Wort Jesu aus dem Johannes-Evangelium, wo es heißt: „Ich nenne euch nicht mehr Knechte; denn der Knecht weiß nicht, was sein Herr tut; euch aber habe ich Freunde genannt“ (Joh 15,15). Diese Freundschaft hat Vattimo mit vielen Verstorbenen über ihren Tod hinaus verbunden. Es ist eine Freundschaft, die sich durch keinen Grund, keine arché rechtfertigen lässt und deshalb als an-archisch bezeichnet werden kann. Wenn manche Texte Vattimos in einer Anarchie der Freundschaft weiterhin gelesen und interpretiert werden, verstummt auch seine Stimme nicht.

Epilog (Erinnerungen)

Als ich Vattimo 2013 bei der Tagung Zukunft Religion. Zur gesellschaftlichen Relevanz des Christentums im 21. Jahrhundert, veranstaltet von Karlheinz Ruhstorfer, traf, kam ich beim Abendessen neben ihm zu sitzen. An zwei der Fragen, die ich Vattimo im Gespräch stellen konnte, erinnere ich mich noch. Auf meine Frage, was er denn vom neugewählten Papst halte, äußerte er sich erwartungsvoll und meinte, er würde sich freuen, wenn ihn Papst Franziskus einmal anriefe. Was ich damals nicht wusste – fast hätten Vattimo und Bergoglio einander getroffen, wäre nicht etwas dazwischen gekommen. Santiago Zabala schreibt: „We knew that Vattimo and the man born Jorge Mario Bergoglio in Argentina have many friends in common; they were even supposed to be on the same panel at a conference when Bergoglio was elected to the papacy in March 2013.” Als 2018 Vattimos letzte große Veröffentlichung, das Buch „Essere e dintorni“, erschien, gratulierte ihm der Papst telefonisch dafür. Meine zweite Frage betraf Hegels „Phänomenologie des Geistes“. Ich wollte wissen, was Vattimo von diesem Werk halte. Ohne Umschweife sagte mir der Philosoph, er sei sich nicht sicher, was er darüber denken solle und welchen Einfluss es auf sein Denken ausgeübt habe, habe er doch dieses Werk nie ganz verstanden. Ein so ehrliches Wort aus dem Mund des weltbekannten Denkers zu hören, hat mich sehr beeindruckt.

In den 1990er Jahren, als Vattimo sich wieder mit Religion zu beschäftigen begann, war er einer der bekanntesten Philosophen. Kaum ein anderer säkularer Philosoph hat ein so weitreichendes Gesprächsangebot an die Kirchen und Theologien gemacht wie er, das jedoch weitgehend ungehört verhallte, wenn es nicht gar zurückgewiesen wurde. Zum letzten Mal bin ich Vattimo bei einer Konferenz begegnet, die 2016 in Sant’Anselmo, der Universität des Benediktinerordens in Rom, anlässlich seines 80. Geburtstags von Philippe Nouzille veranstaltet wurde. Dass eine päpstliche Universität ein Symposium zu Ehren des halbgläubigen Philosophen – so bezeichnete er sich gelegentlich – ausgerichtet hat, war für ihn sichtlich eine Freude.

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4 Commenti

  1. Adelmo Li Cauzi 22 settembre 2023
    • Pietro 23 settembre 2023
  2. Pietro 22 settembre 2023
  3. Paolo Marraffa 21 settembre 2023

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