
Da Al Azaryia, l’antica Betania, verso Gerusalemme. Carla Benelli, project manager per l’associazione no profit Pro Terra Sancta, guida l’automobile con prudenza e fermezza nel traffico caotico della città. La sua formazione di storica dell’arte e la passione per il Medio Oriente l’hanno portata a coordinare diversi interventi per la valorizzazione del patrimonio archeologico palestinese. Dopo l’emozionante visita al laboratorio di candele profumate (di cui abbiamo già raccontato qui su SettimanaNews), mi racconta di un altro progetto che l’associazione sta realizzando proprio in questa zona. Le pongo alcune domande.
- Di che cosa vivono gli abitanti di Al Azaryia?
La maggior parte erano impiegati, ma la presenza della barriera di separazione e dei checkpoint rende gli spostamenti più difficoltosi e in molti si sono reinventati come commercianti. I prezzi in Cisgiordania sono bassi, quindi il mestiere è redditizio: tutti gli arabi di Gerusalemme vengono qui a fare la spesa. Guarda che traffico! Ci sono circa trentamila residenti. Le scuole sono buone e ottima è anche l’università nella vicina cittadina di Abu Dis, un campus grande, di tutto rispetto, con molto verde, una vera oasi.
Tra poco arriveremo al checkpoint che segna l’entrata di Gerusalemme; probabilmente nessuno ci fermerà per controlli: si vede subito che non abbiamo tratti palestinesi.
Oltre al progetto della lavorazione del nardo classico, abbiamo cercato un luogo dove poter ottenere la lavanda per profumare le nostre candele; nel periodo romano, essa era anche conosciuta come nardo siriano.
In Terra Santa non possiamo far crescere l’arbusto del nardo, importato dalle lontane terre d’Oriente, il cui uso è attestato storicamente dagli ebrei, come riportato nel Cantico dei Cantici e anche in altri scritti biblici[1]. Il suo utilizzo era diffuso pure tra Greci e Romani. Oggi noi importiamo il prezioso olio dall’Himalaya e per questo è molto caro, come già ai tempi di Gesù; ne esisteva, però, una specie molto più economica: il nardo siriano, variante diffusa nel bacino del Mediterraneo. È una delle tante, la cui descrizione si trova nella letteratura latina classica: le sue foglie venivano cucite a forma di corona e donate agli ospiti[2] e la sua essenza utilizzata in campo medico e per aromatizzare vini e bevande, spesso mescolata ad altri aromi.
Eravamo, dunque, alla ricerca di un posto adatto alla coltivazione della lavanda e dell’origano siriano, detto anche zaatar, da non confondere con l’omonima miscela di spezie utilizzata nella cucina palestinese ed ebraica, con la differenza che lo zaatar palestinese, per esempio, contiene issopo, quello ebraico no. Dopo alcune ricerche, abbiamo individuato l’area di Jabal al Baba.
Carla mi indica una collina rocciosa alla nostra sinistra, una di quelle alture nel deserto di Giuda, a sud di Gerusalemme, dove il sole spietato dell’estate rende tutto color ocra. Non c’è nulla, lassù, se non un agglomerato informe di baracche. Sono le povere abitazioni di famiglie di beduini che abitano lì da decenni. Me ne aveva accennato Jawad, il responsabile del progetto del nardo.
- Come mai proprio quella collina?
È chiamata la “Collina del Papa”, Jabal al Baba: è appena fuori da Al Azaryia, quindi facilmente raggiungibile per noi e nelle vicinanze della nostra sede. Nel gennaio 1964, Paolo VI arrivò in Terra Santa, viaggio che rimase nella storia, visto che per la prima volta un papa giungeva fin qui. Incontrò l’allora re Hussein di Giordania, che gli fece dono del territorio sotto suo controllo fino all’occupazione israeliana del 1967: questa, dunque, è proprietà vaticana, ma ricordiamo che siamo in zona C; secondo gli accordi di Oslo del 1993, è Cisgiordania, ma il controllo militare spetta allo Stato d’Israele. Non è possibile costruire e nemmeno valorizzare i resti di tombe e di insediamenti molto antichi di epoca romana. Ecco il checkpoint.
- Attraversiamo i confini invisibili che affettano il territorio. Per noi visitatori l’orientamento non è facile, ma chi percorre queste strade sa ben distinguere i cammini. La collina si trova nel mezzo di un’area delicata, tra il caos di Al Azaryia e l’insediamento ebraico di Ma’ale Adumin, una città moderna di trentamila abitanti in rapida crescita, con grattacieli e case bianche dai tetti rossi. Bisogna arrivare fin qui per capire le divisioni di questa terra, bisogna vedere per capire.
Come dicevo, cercavamo un appezzamento per far crescere lavanda e zaatar: studi accurati hanno rilevato la straordinaria efficacia del suo olio essenziale, ricavato dalle piante, nell’eliminare i funghi che crescono sulle pietre: un importante impiego nel campo del restauro.
Inizialmente non avevamo pensato a Jabal al Baba, poi ci siamo interessati alla piccola comunità beduina lì residente. Le famiglie sono sotto la protezione del Patriarcato Latino e questo ha permesso una certa tranquillità, anche se molti sono stati, e lo sono tuttora, i problemi con i coloni vicini. I locali vivono in condizioni precarie, la loro economia di sussistenza si basa prevalentemente sulla pastorizia – adatta a terreni brulli, aridi – sull’allevamento e lavorazione di latte per formaggio e burro. Ci sono circa un centinaio di persone, tutte imparentate tra loro, con tanti bambini.
Nell’ottica di sostenere la popolazione locale, secondo i principi della nostra associazione, abbiamo aiutato a creare un orto con grande fatica, vedi com’è sassoso il terreno! Alcune donne beduine sono impegnate nella coltivazione dell’arbusto di zaatar. Abbiamo raccolto le prime piantine solo qualche mese fa, nella primavera 2025: le abbiamo inserite in un macchinario per la distillazione e ottenuto le prime fialette. È stata un’emozione, la realizzazione di un azzardo, la vincita di una scommessa.

- Come le commercializzate?
No, no, non le vendiamo. In futuro, probabilmente, sì. Per ora si tratta di una produzione di nicchia. Stiamo utilizzando l’olio per i nostri studi nei siti archeologici, in collaborazione con l’università locale di Al Quds: il corso di laurea in restauro prevede la sperimentazione di queste essenze naturali in accordo con l’università di Palermo. Il professor Franco Palla, esperto in biologia del restauro, sta seguendo proprio questo progetto. Da tempo si cerca di diffondere l’uso di prodotti naturali, e non è un’idea nuova: l’Italia ha un’ottima tradizione di scuole in questo campo e da molti anni si sta cercando di eliminare l’uso di sostanze artificiali a favore di quelle naturali, a motivo della pericolosità per gli operatori e perché, a lungo andare, gli oggetti trattati chimicamente si danneggiano.
I primi risultati sono incoraggianti e permettono di perseguire il nostro obiettivo: creare occasioni sostenibili per le comunità locali. Lo sforzo è grande, servono acqua e terra buona, senza contare che la coltivazione non è parte della cultura beduina.
La pianta di zaatar siriano non necessita di molta attenzione, è resistente, è una specie robusta, però va comunque curata. Un tempo, nell’antica Betania vi era un’ottima attività agricola grazie a una fonte d’acqua chiamata “Sorgente degli Apostoli” visto che, secondo la tradizione, lì si è fermato Gesù con gli apostoli prima di salire a Gerusalemme. Con il rapido sviluppo e la crescita della popolazione, negli ultimi anni le costruzioni hanno divorato i terreni.
- Siete gli unici impegnati in questo campo?
No, ci sono altre piccole realtà in Libano per la coltivazione dell’origano siriano. Con il nostro progetto, appena nato, cerchiamo di dare speranza e possibilità di guadagno a chi si trova in situazione di grande fragilità in un periodo così difficile.
[1] Cantico dei Cantici III,6 e IV,12-15; Salmi XLIV,9; Proverbi VII,17.
[2] Plinio il Vecchio, Storia Naturale XII, 42-47, in Giuseppe Squillaci, Le lacrime di Mirra, Il Mulino, Bologna 2015





