
Claudia Fanti – giornalista – scrive per Adista, Il Manifesto, MicroMega e altre testate. Attenta ai movimenti popolari, ecologici ed ecclesiali, i suoi testi sono dedicati ai temi sociali, scientifici e ambientali in connessione con la spiritualità e la teologia. È autrice del volume A casa nel cosmo. Qui risponde alle domande di Giordano Cavallari riguardo al post- o trans-teismo.
- Cara Claudia, ti definisci post-teista. Come e perché?
Pur sostanzialmente diffidente verso qualsiasi etichetta, mi riconosco, sì, nel post-teismo, ma intendendolo, più che come un traguardo, come il punto di partenza di una ricerca spirituale svincolata da ogni pretesa di verità e da ogni appartenenza che non sia quella alla nostra casa comune e alla nostra comune umanità. Anziché guardare a un nuovo punto di arrivo, credo insomma che sia necessario accettare di trovarsi permanentemente in viaggio, in un cammino spirituale destinato a non giungere da nessuna parte ma ad arricchirsi ad ogni passo.
Una ricerca maturata – nel mio caso – in maniera graduale e senza strappi, attraverso tappe successive e incontri decisivi, come quello con l’eco-teologo della liberazione Leonardo Boff, di cui ritengo determinante il contribuito non solo allo sviluppo di quella coscienza ecologica – quella terrestre spiritualità, quell’etica della cura, che costituisce indubbiamente un aspetto rilevante del post-teismo – ma anche a quel fecondo rapporto con le scienze da cui è derivato il nuovo racconto cosmico, a cui si richiama tanta teologia post-teista e sicuramente il mio percorso umano.
Mi sento debitrice anche nei confronti di tanti altri compagni e compagne di cammino, alcuni dei quali autori e autrici di quella collana, dal titolo “Oltre le religioni”, che ho avuto la fortuna di curare insieme a Ferdinando Sudati prima e a José María Vigil poi.
- Cosa significa essere post-teista? Quale l’idea-guida?
Non essendo una dottrina, il post-teismo accoglie al suo interno, nella più ampia creatività spirituale, molte e variegate posizioni, accomunate però dal superamento dell’immagine teista di Dio, come un essere dal potere soprannaturale e dai tratti antropomorfi e patriarcali, onnipotente e onnisciente, creatore, signore e giudice, che dimora al di fuori di questo mondo imperfetto e passeggero e che esercita il suo governo su di noi intervenendo “miracolosamente” nel dominio della natura; con tutto ciò che tale superamento comporta rispetto ai dogmi della tradizione cristiana, anche cristologici.
Ma con Dio non si intende più – e questo è un passaggio più difficile da accettare – nemmeno un padre amorevole e giusto che ascolta le nostre suppliche, viene in nostro soccorso e ci ricompenserà per il male che abbiamo sofferto in questa vita, per quanto dolorosa e persino traumatica possa risultarci questa rottura dell’adesione affettiva alla rassicurante figura di un dio personale.
Dire Dio come persona sul modello di ciò che siamo noi, appare, nell’ambito del paradigma post-teista, una modalità di pensare antropomorfica: perché di Dio non possiamo dire nulla, né che è Padre, né che è Madre, né che è personale e neppure che è impersonale.
Già Margarita Porete affermava, nel XIII secolo, che «l’unico vero Dio è quello di cui non si può pensare nulla». Per quanto mi riguarda, preferisco tralasciare qualsiasi definizione della realtà divina, inchinandomi semplicemente di fronte a un Mistero che va oltre – immensamente oltre – la nostra capacità di comprenderlo.
- Quindi, come pensi Dio?
Ora che sappiamo che il mondo non ha un sopra e non ha un sotto, che non ci sono dualismi né trascendenze, che non ha senso parlare di naturale e di soprannaturale, è nella realtà stessa che finalmente possiamo cogliere quella sacralità che avevamo trasferito in una divinità separata, esterna, collocata su un piano superiore.
Per questo mi ritrovo nell’invito del biologo Stuart Kauffman ad usare l’antico e potente «simbolo di riverenza» che abbiamo chiamato Dio: quale altro simbolo umano, si chiede, è altrettanto possente, per indicare l’incessante creatività dell’universo in cui siamo immersi e di cui siamo a nostra volta co-creatori?
Una meravigliosa creatività – riflessa nei tre grandi misteri che ci troviamo di fronte, ossia l’origine dell’universo, l’origine della vita, la natura della coscienza – può diventare, al di là del riduzionismo scientifico e del dogmatismo religioso, uno spazio spirituale ed etico condiviso da tutti, credenti e non credenti, per educarci al rispetto di tutte le forme di vita e del pianeta che le accoglie, senza fare distinzioni.
Kauffman lo definisce «un Dio sufficiente», un’idea non così lontana da quella di un Dio immanente che si rivela nel dispiegarsi dell’universo. Si tratta di una rilettura di straordinaria portata, essendo davvero enorme la distanza che separa l’universo mentale delle rappresentazioni cristiane tradizionali (secondo cui il nostro mondo sarebbe completamente dipendente dall’altro mondo e dalle sue prescrizioni) dalla nuova visione in cui esiste solo un mondo, il nostro, che è un mondo santo, in quanto autorivelazione di quella Realtà originaria che intendiamo con la parola Dio.
- Come si rapporta tale idea di Dio con le conoscenze scientifiche?
Tale immagine è decisamente più plausibile dal punto di vista scientifico e più credibile per la società contemporanea rispetto a quella di un Dio tappabuchi attivo solo in quelle aree che la scienza deve ancora spiegare oppure di un Dio trascendente che interviene violando le leggi naturali, così da sottrarre alla creazione l’autonomia di cui essa è dotata: un’immagine che non contribuisce affatto alla comprensione della realtà, limitandosi a spiegare un mistero (l’origine dell’universo) con un altro mistero (Dio).
Ritengo, del resto, che, per la teologia, il dialogo con la scienza – dalla nuova cosmologia alla fisica quantistica fino alla neurobiologia – non sia più una scelta, ma una necessità. Se, infatti, il cristianesimo vorrà continuare a parlare al mondo postmoderno, salvandosi così da un’altrimenti sicura irrilevanza, lo dovrà fare sulla base di idee e di parole radicalmente nuove. Idee e parole che non possono in alcun modo prescindere da quanto sappiamo oggi dell’universo e dei suoi processi.
Tanto più che quella scienza che il poeta inglese John Keats aveva giudicato colpevole di tagliare «le ali di un angelo», di «disfare un arcobaleno» derubandolo della sua magia, oggi ci appare invece come una riserva inesauribile di meraviglia di fronte alla misteriosa bellezza di tutto ciò che è.
Sono convinta che, attraverso un’alleanza inedita tra scienza e spiritualità, sia possibile recuperare il senso di connessione con il tutto che noi Sapiens abbiamo spezzato, con le conseguenze tragiche che sono sotto gli occhi di tutti.
- In che modo questa idea post-teista di Dio risulterebbe salvifica?
Quello che più mi sta a cuore di questo cammino di riflessione sul divino è che, attraverso di esso, può passare la nostra salvezza, come umanità. Perché è stato in buona parte proprio a causa dell’immagine del Dio teista, con tutta la catena di dualismi che si è portata dietro, che ci siamo sentiti – quali umani – qualcosa di separato e di superiore rispetto alla natura, alle altre specie, alla comunità di vita, al cosmo.
Ed è così che abbiamo dimenticato – pagando per questo un prezzo altissimo – quanto tutto sia interrelato e interdipendente, quanto tutto sia imparentato con tutto; e abbiamo iniziato a remare contro quella che il teologo Matthew Fox ha giustamente definito la «legge morale» dell’universo, quella dell’interconnessione.
Ad essere in discussione, cioè, è quell’idea strettamente trascendente della divinità che desacralizza e spoglia di dimensione divina la natura, riducendola a un contenitore inerte di risorse su cui l’essere umano può esercitare liberamente il suo dominio. Quell’essere umano ora non è chiamato ad andare oltre la materia per divinizzarsi, perché non viene “da fuori”, bensì, al contrario, viene “da dentro”, formato com’è dagli stessi atomi che compongono le stelle dell’universo: letteralmente e non metaforicamente siamo “polvere di stelle”.
Non smetteremo di distruggere la natura finché non scopriremo la sua stessa dimensione divina e non ci sentiremo parte di essa, superando il nostro radicato antropocentrismo, in direzione di una visione biocentrica e cosmocentrica.
C’è una frase bellissima che Gilbert Fowler White ha attribuito negli anni ’40 ad Albert Einstein: «Ci sono solo due modi di vivere la propria vita: uno come se niente fosse un miracolo; l’altro come se tutto fosse un miracolo»: è questo il bivio di fronte a cui ci troviamo. Mentre appare evidente come, in pieno Antropocene, stiamo trattando il pianeta, la natura, gli altri e noi stessi come se niente fosse un miracolo. Dovremmo provare a imboccare l’altra strada. Dopotutto, nel miracolo siamo immersi permanentemente. Solo che non suscita più in noi alcuna meraviglia.
Non a caso il monaco buddhista vietnamita, poeta e attivista per la pace Thich Nhat Hanh, ha posto l’accento sulla necessità di una «rivoluzione spirituale» per affrontare le sfide ambientali che abbiamo di fronte, aggiungendo che «il vero cambiamento può avvenire solo quando ci innamoriamo del nostro pianeta».
- E Gesù – il Cristo – che “posto” conserva in questa visione?
La “buona novella” di Gesù conserva intatta tutta la sua forza di attrazione anche all’interno del paradigma post-teista. Perché, se, per chi ha superato la concezione teista di Dio, non ha più senso vedere Gesù come incarnazione di una divinità soprannaturale che vive al di là dei cieli, né immaginarlo come il vertice definitivo dell’evoluzione, tutto ciò non solo non toglie nulla alla centralità del suo messaggio e al suo sogno del “Regno di Dio”, anzi rende ancora più vivo e attuale lo straordinario modello di umanità che la sua figura incarna.
Dopo averlo liberato dai panni mitologici con cui è stato rivestito in epoca premoderna, ciò che emerge pienamente è il ritratto di una vita in cui – come afferma Spong – «ciò che è umano si apre al divino»: una vita così integra e piena da consentire di abbattere qualsiasi barriera che impedisce e limita la nostra umanità, così da aprirci ad una nuova dimensione di ciò che significa essere veramente umani.
- Quale speranza, dunque, secondo la tua proiezione?
Tra l’esplosione dei sovranismi, la crescita dell’autoritarismo, la corsa al riarmo, le guerre, i genocidi – di cui quello contro i palestinesi che Israele sta consumando nella più totale impunità è il caso più eclatante –, le crescenti disuguaglianze, le incognite dell’intelligenza artificiale, le minacce del transumanesimo e, soprattutto, l’imminente collasso ambientale e climatico, a cui l’umanità sembra andare incontro senza quasi più opporre alcuna resistenza, conservare speranza non è un compito facile.
Ma speranza è una parola ambigua. Non a caso, in spagnolo e in portoghese esperar significa sia sperare che aspettare. Tant’è che il grande pedagogista brasiliano Paulo Freire preferiva far derivare la parola dal verbo esperançar, nel senso di sollevarsi, resistere, fare le cose in un altro modo. L’ottimismo della volontà di Gramsci contrapposto al pessimismo della ragione.
Forse, a noi che è capitato in sorte di abitare questi tempi così difficili e dolorosi, non resta molto altro che tenere accesi dei fiammiferi nella notte. Ma più alto sarà il numero di questi piccoli punti di luce, maggiore sarà il chiarore a disposizione di quelli che verranno dopo di noi, chiamati a costruire sulle macerie della vecchia civiltà un mondo nuovo.
E di queste piccole luci ve ne sono davvero tante. Quanto amore, quanta amicizia, quanta solidarietà, quanto coraggio, quanto eroismo, quanta bellezza abbiamo incontrato nel cammino della nostra vita?
C’è poi un secondo elemento di speranza. La vita si è rivelata sorprendentemente resiliente durante tutta la storia del pianeta, sopravvivendo già a cinque grandi estinzioni di massa. Quando, circa 66 milioni di anni fa, un asteroide ha provocato la scomparsa dei dinosauri, insieme a tre quarti delle specie animali che allora abitavano il pianeta, la vita è nuovamente sbocciata con rinnovata magnificenza, fino a produrre, appena 300.000 anni fa, quegli esseri così sorprendenti e contraddittori che hanno saputo dare un nome a tutto, ma ne hanno scelto uno per sé stessi così poco adeguato.
E questo senza in nessun modo sottovalutare la gravità della sesta estinzione che incombe, o è già in corso, causata da noi stessi. Anche perché, dopo la quinta estinzione, ci sono voluti centinaia di migliaia di anni perché la vita riprendesse tutto il suo slancio.
Siamo una specie giovanissima e abbiamo ancora tutto da imparare. A partire dalla lezione più importante: prenderci cura della nostra Casa, con tutti i suoi abitanti umani e non umani. Resta solo da vedere se avremo il tempo di farlo prima di estinguerci. Nel caso di fallimento, però, la vita saprà forse sostituirci nel modo migliore: ciò che di bello, di grande, di luminoso abbiamo generato troverà forse una nuova fioritura in altre specie. Dopotutto, la creatività dell’universo è incontenibile.
Vi è, infine, un terzo elemento di speranza, sicuramente il più incerto, il più azzardato. E che riguarda le vittime, tutte quelle che il processo evolutivo ha lasciato indietro, ma anche ciascuno di noi. La speranza che la nostra essenza più profonda, l’essenza di ciascun essere passato anche fuggevolmente su questo pianeta, non sia andata perduta, ma abbia fatto ritorno nella coscienza infinita in cui tutti siamo uno: infinita o fondamentale – o comunque la si voglia chiamare – senza escludere neppure il termine Dio, per chi ne sente ancora il bisogno.
La speranza è che questo – la vita oltre la vita – sia il destino di ognuno e ognuna di noi. Ed è una speranza di cui, nel mio ultimo libro A casa nel cosmo, ho cercato di mostrare la plausibilità.






L’articolo di Claudia Fanti ha sollecitato reazioni che rivelano come la questione del post-teismo imponga un cambio di prospettiva, un vero e proprio cambio di paradigma nel fondare la fede cristiana e nello specifico il cattolicesimo.
I paradigmi sono quelli che fondano la visione del mondo, ovvero ciò che crediamo essere vero sul mondo e su come funziona nello specifico il ruolo del cristianemso in essi. Sebbene si parli spesso di “cambio di paradigma” noi cristiani raramente ci interroghiamo sui “nostri paradigmi”. Non possiamo più eludere ormai le interpellanze imposte dalla fisica quantistica e dalla ricerca scientifica, sapendo che favorire il rapporto tra spiritualità e scienza è un fatto ineludibile. La sfida per la nostra fede è, allora, quella di non aggiungere qualcos’altro quanto piutttosto di liberarsi di paradimi absoleti e ideologici.
Fra questi «paradigmi obsoleti e ideologici» c’è anche la certezza, che sta al centro di tutto il messaggio di Gesù, dell’esistenza di un «Padre che è mei cieli», vicino a tutti perchè irriducibile alle logiche terrne – in una parola: trascendente – , da amare con tutte le nostre forze come una Persona a cui dare del “tu”?
Secondo me, il post teismo, portato all’Essenza, va al centro del Cristianesimo e della fede in Dio, non alla sua negazione.
Una critica che sento spesso sarebbe una contaminazione con il panteismo. Ma dire che tutto è Sacro, non vuol dire che tutto esprima pienamente Dio, ma che possiede in se stesso la Via della Redenzione. Come posso ri-sorgere, se non appartengo già a quella Sorgente?
Io prendo molto sul serio la Resurrezione: ma non come la magia del Dio fuori di me, ma come realizzazione di Ciò che posso essere.
Forse ciò che sposta davvero il paradigma è l’esclusività o meno dell’Incarnazione, non l’incarnazione in sé.
Gesù, unico Figlio di Dio, o il Figlio pienamente identificato con il Padre, quale tutta la creazione, facendo maturare e crescere il Seme divino in sé, potrà esprimere?
Il male: Gesù invita ad amare il nemico. Ma Gesù non era un moralizzatore. Era il testimone, la Via della Verità.
E allora, non sarà che quel nemico, esprime alla fine un’altra parte di me? Che non devo combattere, ma superare..e di nuovo torna questo lavoro di svelamento, come quando sbuccio un frutto e ne rimane il Seme..
Il bene e il male sono relativi alla manifestazione , non sono degli assoluti. Sono gli opposti in cui viviamo. Ma la ricerca della non dualità, che caratterizza il post teismo, contiene secondo me una chiave, se non la chiave stessa.
Porre il nemico fuori di me, significa instaurare la guerra. Ciò non significa che tutto mi vada bene. Significa guardare oltre, avere un obiettivo e seguire quello. Guardare la luna e non il dito. In me c’è il Bene? Benissimo: e allora devo fare emergere quello, convinta che nessun male in me potrà mai avere l’ultima parola.
Gesù non ha temuto di morire e di andare fino in fondo a ciò in cui credeva. Ha dato l’anima, il sangue, pur di non perdere lo Spirito..e noi?
Gent.ma Paola, il punto centrale mi sembra quello che lei esprime dicendo: «Forse ciò che sposta davvero il paradigma è l’esclusività o meno dell’Incarnazione, non l’incarnazione in sé». Il post-teismo – almeno nelle sue versioni teologicamente più rigorose – nega la distinzione fra la generazione del Figlio e la creazione del mondo. Perciò l’incarnazione non è qualcosa di unico, ma l’espressione della presenza del divino in tutto in tutti allo stesso modo che in Gesù di Nazareth. Può sembrare un allargamento dell’orizzonte salvifico, ma in realtà lo vanifica, perché a questo punto non si vede perché aderire al vangelo piuttosto che a qualunque altro testo sacro. Solo che Gesù è morto per sostenere ciò che il suo messaggio annunziava di nuovo e di diverso rispetto alla religione dei farisei. Se fosse stato post-teista non ne avrebbe visto il bisogno, perché avrebbe riconosciuto che la salvezza veniva anche da quella, anzi anche dalla religione dei romani. Ma allora siamo già salvi senza bisogno del cristianesimo! E il problema della salvezza svanisce.
Io credo che, proprio perché riconosciamo un Principio che trascende ogni cosa, quel Principio non possa che essere in tutte le cose.
Abbiamo trasformato il dono in ricompensa.
E lo abbiamo circoscritto in un tempo e in uno spazio.
Se la Salvezza è dono di Vita eterna, questa peternità, come fa a non essere già nell’Essere stesso delle cose?
Questo non annulla la nostra responsabilità.
Perché un dono bisogna saperlo ricevere, riconoscendolo.
Gesù salva nella misura in cui mi aiuta a fare Memoria di quel dono interiore, di quel Seme del Padre eterno in me, in virtù del quale siamo tutti fratelli, al di là delle differenze esteriori, perché accomunati da un Principio comune, che non muta.
Secondo me, il Cristianesimo è molto più che una religione. Sarebbe una religione come un’altra se fosse la regola del profeta Gesù.
Ma Gesù è il Cristo che si è fatto uomo. E il Cristo è il Soffio Infinito che anima ogni cosa..Gesù, come uomo, ha incarnato puntualmente il divino, ma il divino non può ridursi ad una persona, per forza di cose limitata ad un tempo e ad uno spazio. Voglio dire che l’esclusività dell’Incarnazione, non smentisce la sua possibilità inclusiva. Sta all’uomo dar corpo o meno al divino in sé.
Gesù dice: và, la tua fede ti ha salvata. Il Salvatore agisce se io faccio spazio, non usa la bacchetta magica. La Religione, come uno strumento, ha richiamato le nostre coscienze con le categorie di peccato e castigo. Ma un comando ha i suoi limiti, non ci si innamora a comando.
Secondo me, è tempo di allargare lo sguardo e il cuore..non per ridurre Gesù ad un uomo, profeta che sbaglia profezia ecc..ma per ritrovare in noi stessi quel Cristo attraverso di Lui.
In questo senso il post teismo, secondo me, deve andare ancora più in profondità, se no effettivamente rischia di essere compreso come un agnosticismo di ritorno..c’è tanto lavoro da fare, ma chi prova a smuovere le acque va incoraggiato, secondo me, per trovare tutti insieme ciò che ci unisce, prima di ciò che ci divide.
Ma il posteismo riconosce questo “Principio”? Da quello che capisco io riconosce l’immanenza dell’Universo e spera che questa stessa imnanenza, per il solo fatto di esistere, abbia un significato.
Già se parli di Padre ricadi nel teismo.
So che ci sono tanti “post teismi”, tra l’altro, io stessa faccio fatica a definirmi tale eh. Posso dire però che in alcuni suoi contributi, ho trovato qualcosa che smuove le acque un po’ stagnanti di una certa religione..
Ma ho detto “certa”..perché, alla fine, se vai all’Essenza, anche il teismo, quando riconosce una Realtà ultima oltre a tutte le cose, parla di quell’Essenza che non si può umanamente comprendere e declinare..
Personalmente, a me, nella religione, manca l’aspetto mistico, ma non è detto che non ci sia. Secondo me, tutto può incontrarsi, basta volerlo. Ed ammettere che tutti siamo in ricerca, che ognuno comprende secondo la propria capacità, ma per arrivare ad un punto comune più elevato per tutti, non per farci la guerra..Un punto stabile è necessario, ma mai senza quella consapevolezza del limite e direi quell’umiltà, nel senso più nobile del termine, che spinge in alto la freccia ..
Cara Claudia, è davvero bellissimo questo tuo intervento. Grazie per la tua capacità di sintesi e per la chiarezza espositiva. Spero che ne faremo tesoro anche noi nei Cenacoli romani.
Si resta più che perplessi di fronte all’intervista e alla stessa sua presentazione. Non si può oggettivizzare il post-teismo né farne una conquista. E’ solo una forma di moderato agnosticismo. L’intervistata mette da parte “Gesù come incarnazione di una divinità soprannaturale che vive al di là dei cieli” e anche “come il vertice definitivo dell’evoluzione”, ma si tratta di un gesù che non è mai stato reale, in nessun caso. Tutto sta ad intendere che la nostra mente ha bisogno di pensare Dio antropomorficamente ma di trascendere l’immaginazione stessa e che teologia negativa non significa non poter dir nulla di Dio ma dirlo per esclusioni. Insomma gli agnostici ci son sempre stati, anche di quelli che negano una sapienza sulla trascendenza perché negano la trascendenza. La scienza elevata a sapere è una chimera, l’universo della intervistatrice è il mondo ingannatore e l’etica cristiana non è socialista ma teologica. Trascendenza significa un oltre, qualcos’altro, significa che la nostra mente intuisce senza poter pensare tutto quel che intuisce. La visione scientifica usata per affermare Dio è un circolo vizioso che afferma l’idolo.
Chi garantisce che questo nuovo Dio apofatico non sia un’ennesima antropizzazione quanto quella del vecchietto con la barba regnante dall’alto dei cieli? Questa alleanza con la scienza non è di fatto una ennesima variazione della scolastica, con Einstein al posto di Aristotele? Prendendo come paradigma la scienza dobbiamo ammettere che vi è una pluralità di scienze spesso in contrasto tra loro. L’universo di Einstein è molto statico (Parmenide gli rimproverò Popper) tanto più che ancora oggi non si riesce a far conciliare relatività e quantistica, quello di Kauffman allegramente caotico e creativo. Infine su quali basi testuali si costruisce il posteismo? Ora le religioni rivelate richiedono un minimo di fede, dato che Dio “nessuno l’ha mai visto” ma hanno anche un minimo di coerenza interna nel loro dispiegarsi secolare (libri fondatori, interpretazioni..). Non ho capito qui su cosa ci si basi se non appunto una generica speranza che che dia un significato alla nostra esistenza su questo minuscolo pianeta.
Grazie innanzi tutto di aver risposto. Ma, nello stesso spirito dialogico, le faccio presente che tutti coloro che – da Parmenide a Plotino, a Spinoza, ad Hegel – hanno cercato di eliminare il dualismo (effettivamente inaccettabile) di Dio rispetto al mondo e alla storia negando, alla radice, la sua trascendenza, hanno dovuto concludere che il male non esiste, o perché, in una prospettiva mistica, il mondo e la storia si identificano con Dio (in cui non ci può essere male), o perché, in una prospettiva più secolare, Dio si identifica col mondo e la storia, cosicché quello che a noi sembra a prima vista male (compreso il genocidio di Gaza) è sempre in realtà necessario per l’armonia del tutto. Non vedo come il post- o il trans -teismo possa eludere questa alternativa.
Caro Prof. nello stesso spirito dialogico Le ricordo che il teismo (classico e personale) trova nella questione della teodicea il proprio limite teoretico. Il dualismo non è affatto la soluzione del problema del male. Infatti, o il male vince Dio (cf. Sergio Quinzio e tutti i pareysoniani) oppure Dio vince il male (Tommaso d’Aquino) integrandolo dentro al Sommo Bene (quindi nell’armonia del tutto). Conclusione: teismo e post-teismo lasciano irrisolta la questione del male. Tra le due soluzioni, quella post-teista dell’armonia del tutto rimane più convincente. (NB: anche ammettere un inferno eterno la questione non viene risolta, poiché per il teismo classico l’inferno rende ragione del BENE SOMMO).
Anche Agostino nega esistenza al male! Secondo me il problema del post-teismo non è la teodicea, ma l’incarnazione. Senza incarnazione perchè l’uomo dovrebbe valere più di un buco nero? Cioè manca un qualche centro aggregatore che dia “forma” all’universo. Rispetto a questa mancanza affermare che quello che facciamo è bene, anche nel senso più nobile di pace e solidarietà è un desiderata come un altro piuttosto che una verità di fede.
Cioè come fai a recuperare una qualche idea di bene quando hai radicalmente eliminato il paradigma di quel bene?
Per me è questa l’aporia fondamentale di molte filosofie moderne post-metafisiche. Il bene diventa necessariamente uno dei tanti beni possibili.. Per parlare di teodicea devi avere prima una qualche idea di bene, diventa un problema successivo.
Caro don Gamberini, secondo Tommaso d’Aquino, nella sua visione della Provvidenza, Dio vince il male che però rimane tale, anche se Lui ne trae un bene. La conversione dell’Innominato per Manzoni non toglie nulla alla malvagità di don Rodrigo, che pure ne è stata l’occasione. Nella visione hegeliana, invece, il negativo nella sintesi si rivela necessario al processo e solo isolandolo moralisticamente può essere condannato. In questa visione, l'”astuzia della Ragione” si serve anche di Netanyahu, come di Napoleone (e di don Rodrigo), ed è assurdo combatterlo, perché la storia per il suo incessante progresso ha bisogno di lui come di madre Teresa. Probabilmente il post-teismo non si appiattisce su Hegel, ma se tutto è sacro, perché generato da Dio, è difficile uscire da questa logica. Per quanto mi riguarda, penso che la trascendenza ci permetta di guardare all’immanenza con maggiore senso della differenza tra il bene il male.
Penso che nessuna vittima possa venir considerata appena come uno spiacevole effetto collaterale di un processo evolutivo volto comunque al bene. Gamberini ha ragione, la questione del male resta irrisolta e non si può nasconderla sotto il tappeto. L’unica risposta coerente al riguardo è quella atea, che tuttavia mi/ci è estranea. In un’ottica post-teista, posso solo portare avanti la speranza espressa nell’ultima risposta e sondarne la plausibilità (cosa che cerco di fare nel mio libro)
Gent.ma Dott. Fanti, ho pieno rispetto per il suo appello alla speranza, che condivido. Ma quello che obiettavo a padre Gamberini è che non mi sembra vero, sul piano razionale, che tutte le soluzioni filosofiche del problema della trascendenza portino a una impossibilità di dare un senso (non una soluzione definitiva, questo è davvero impossibile) al problema del male. Ammettere la trascendenza di Dio significa, a quel livello, poter riconoscere il negativo e combatterlo per quello che è, in un mondo e in una storia che non sono parte di Dio. Negarla costringe, logicamente a considerarlo parte necessaria dell’interconnessione del tutto. Come accade, de resto, anche all’ateismo. Detto ciò, possiamo condividere comunque la speranza.
Intervista molto bella e interessante, ricca di spunti di riflessione notevoli. Ma ciò che più mi fa piacere è constatare che ci sono persone libere, capaci di ragionare con la propria testa, al di là di condizionamenti di tipo religioso. Ottima intervista, che mi lascia una profonda gioia!
La lettura di questa intervista mi lascia una profonda amarezza, non per l’intelligenza o la sensibilità ecologica che certamente la animano, ma per la distanza radicale che segna il suo pensiero dal cuore stesso della fede cristiana. Il “post-teismo” descritto qui non è un passo avanti nella comprensione del Mistero, ma una dissoluzione di ciò che la Rivelazione ha reso conoscibile: il volto personale di Dio in Gesù Cristo.
Nel tentativo di liberarsi dal “Dio onnipotente e patriarcale”, si finisce per smarrire il Dio vivente, che ha voluto entrare nella storia, farsi carne, soffrire e amare fino alla Croce. Un mistero che non annulla la trascendenza, ma la riempie di prossimità.
Senza la trascendenza, resta solo l’immanenza del cosmo; senza la Persona, solo l’energia impersonale dell’universo; senza Cristo, solo l’eco sbiadita di un simbolo.
Non è Dio ad aver bisogno di essere “aggiornato” secondo i paradigmi scientifici o culturali: è il nostro sguardo che deve continuamente convertirsi a Lui, riconoscendo che “il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi” (Gv 1,14). Tutto il resto — post-teismo compreso — è un ritorno all’antico sogno dell’uomo che vuole farsi dio senza Dio.
Anche io ho avuto questa sensazione di impoverimento più che di semplificazione.
Considerazioni entusiasmanti che aiutano ad uscire dalla solitudine del riflettere in modo aperto. Quando penso a Dio, amo l’espressione: “è Altro”. Con questa visione la preghiera diventa contemplazione e ringraziamento.
Gentilissima signora Claudia, la Sua adesione al post-deismo, oscillante tra il “Dio non esiste” e “se esiste non si cura di noi” da un lato, e il “comunque il Vangelo è cosa buona e giusta” dall’altro lato, mi ricorda un po’ la politica della “bistaffa”. La quale politica del tenere il piede in due staffe di fondo dice: “io non credo in Dio, ma se poi magari esiste davvero, allora, in virtù della mia vita etica (qualunque cosa si intenda per vita etica), questo Dio mi accoglierà.” E no!, gentile signora! Con il Buon Dio (qualunque cosa o qualunque persona si intenda con Dio) non si mercanteggia. O lo si accetta o lo si nega. Tertium non datur.
Gentilissimo signore, mi dispiace averle dato questa impressione. Io in realtà, più che tenere i piedi in due staffe, mi sento un po’ sospesa nel vuoto e aggrappata con tutta me stessa a una speranza, quella a cui accenno nell’ultima risposta, abbastanza forte per dare un senso alla mia vita. Un caro saluto
Personalmente mi ritrovo nel post teismo quando aiuta a leggere il mondo in termini non duali e quando considera Dio non più un ente, per quanto immensone onnipotente, ma come la Sostanza di tutte le cose..Sostanza che abita “dentro”, come il Seme di un frutto..in questo senso l’immagine del Padre, intesa come Fonte di tutte le cose, a me ancora sa parlare e ad Essa, che mi abita, mi rivolgo, anche quando ho bisogno di conforto, di più Luce..
Ma ogni frutto matura gradualmente, e da qui forse l’idea di evoluzione..e di divinizzazione del creato, come piena real-izzazione di quell'”umano” in noi che ci distingue da una macchina..
Qualcuno la chiama Coscienza Universale, o Cristica..se il Vangelo trasmette valori universali, quindi divini, e lo fa sull’esperienza dell’uomo Gesù, secondo me, quell’uomo, ha compreso pienamente in sé quella Coscienza, incarnandola..
Non siamo macchine ma Dio quale Sostanza non è direttamente delle cose ma nelle cose. Ciascuna cosa ha la sua materia. Oltre non c’è il Creatore ma il Grande Intontimento.
Dio quale Sostanza significa, secondo me, che non è altro da me. La Materia che forma il mio corpo ne è gravida, perché tutto vive..non un dentro, non un fuori, ma la Vita..
Il creatore, o è nella Sua creazione, come costituente, o diventa una cosa tra le altre.
Il mondo non sarebbe più la Sua riflessione, ma qualcosa di autonomo.
Prendo talmente sul serio Dio, da pensare di non essere nulla senza Dio.
Dio è anche il Mistero, il fondo infinito che ci abita che, appunto, ci distingue dalla prevedibilità di una macchina.
È il Sacro in tutte le cose.
Non è una grossa novità questo post-teismo… è il deismo degli illuminista del secolo XVIII riverniciato e depurato dell’odio per la Religione, sostituito da uno sguardo di sufficienza e tolleranza… provvisoria?
Molti deisti del mondo anglosassone si consideravano cristiani e religiosi ed erano anche molto attivi nel loro mondo ecclesiale. Degli esempi possono essere Thomas Jefferson e lo scienziato e teologo Joseph Priestley .
Sfortunatamente nell’Europa Continentale ha prevalso un illuminismo fortemente anticlericale.
Secondo me questo filone ricorda più il New Age, perché c’è un forte influsso orientale. (Un po’ di Nietzsche di la morte di Dio.)
Fa riflettere che mentre si celebrano i 1700 anni dal Concilio di Nicea qualcuno ancora degradi a “panni mitologici premoderni” le verità di fede su Gesù, Unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli… Senza contare il fatto che i Vangeli non sono certamente post-teisti: al Dio che si rivela, qui si sostituisce l’ennesima elucubrazione
Mi sono accorto che l’autrice cita favorevolmente il vescovo episcopale John Shelby Spong.
Un autore le cui tesi teologiche sono state fortemente distruttive
Giovanni 1:18
Nessuno ha mai visto Dio; l’unigenito Dio, che è nel seno del Padre, è quello che l’ha fatto conoscere.
Dio nessuno lo ha visto: quindi nessuno di noi può parlare di Dio perchè è oltre le nostre capacità di comprensione. Ma Gesù che è Dio ci ha mostrato il suo volto. E’ evidnete che non si può parlare di Dio senza parlare di Gesù che ci ha reso comprensibile la natura di questo Dio.
Gesù quindi la traduzione umana di Dio. Non c’è nulla di mitico nel ritenerlo Dio ma è la sola chiave di lettura che ci consente di avvicinarci a Dio. Tutto ciò che contraddice il Dio mostrato da Gesù nei vangeli è in contrasto con Dio stesso. E’ molto grave ritenere “obsoleta” la visione di Gesù come Dio. Dio è come Gesù.
Parlare di Dio prescindendo da Gesù porta a gravi errori. Dio non si è mai collocato in una dimensione superiore. Infatti è diventato uomo proprio per dimostrarci che la nostra dimensione non gli è estranea e che pur di farsi conoscere è disposto a venire Lui da noi e non il contrario. “Dio è Spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità”. La natura di Dio è spirituale quindi si colloca in una dimensione esterna alla materia ma non necessariamente superiore in senso gerarchico. Quando creò il mondo Dio disse che era cosa buona.
Il Vangelo è molto di più di quello che leggo in questo articolo. Il vangelo non è mai stato preso sul serio e quindi gli uomini si sono immaginati Dio in mondo troppo umano. Alla fine teismo e post teismo si assomigliano molto. Sembrano più frutti dell’immaginazione umana che del Vangelo.
«E’ nella realtà stessa che finalmente possiamo cogliere quella sacralità che avevamo trasferito in una divinità separata, esterna, collocata su un piano superiore». Mi sembra di capire: “in tutta la realtà”. Accettandola integralmente, così com’è. Comprese le religioni, spogliate della loro pretesa di assolutezza e accolte come esperienza umana. Lei parla con ammirazione di Gesù, ma – sempre se capisco bene – nella visione post-teista la sua persona e il suo messaggio non hanno in sé nulla di più di quelli di altri personaggi religiosi. Qualunque divinità adorata dalle diverse religioni esprime egualmente il mistero della realtà. Nessuna prospettiva religiosa, intellettuale, morale, può essere assolutizzata come più vera rispetto alle altre, perché altrimenti si ricadrebbe nella trascendenza, che non è un semplice “star sopra” ontologico, ma anche in termini di verità e di bene. Sarebbe azzardato concluderne che in questa prospettiva tutto è vero e tutto è buono? Accetterei volentieri una precisazione che smentisca questa impressione “a caldo”. Perché se invece essa dovesse essere fondata, lei si rende conto delle conseguenze devastanti che l’abolizione di un Assoluto – o meglio, la sua identificazione con il magma del relativo – avrebbe sulla sua stessa tesi e per le implicazioni (che condivido) sul rispetto del cosmo, valide per lei ma non per altri che professano visoni diverse e perfino opposte, e che appartengono anch’essi alla grande e inafferrabile complessità del reale.
Assolutamente no! Non tutto è vero e non tutto è buono, né tantomeno tutto deve essere accettato così com’è (sarebbe forse possibile accettare il genocidio a Gaza?). Mi soffermo molto su questo punto nel mio libro “A casa nel cosmo”. È impossibile negare che la creatività dell’universo abbia una componente distruttiva, per quanto possa essere una distruzione generativa (e prima o poi ne farà le spese anche il nostro pianeta con tutto quello che c’è dentro, e non mi sembra una cosa da poco). E noi, che siamo co-creatori di questa creatività in cui siamo immersi, abbiamo il compito di fare ogni cosa in nostro potere per ridurre la portata di questa distruttività, in linea con la legge morale dell’interconnessione e tenendo ferma la speranza (perché di certezza non posso parlare) a cui accenno nella mia ultima risposta. Non c’è e non può esserci nessun relativismo in questa posizione.