Contraerea

di:

mean ucraina

Dalla missione del MEAN in Ucraina per il Giubileo della Speranza 1-5 ottobre 2025: pensieri (1)

Il suono secco della contraerea è inconfondibile anche per chi, come noi, non conosce i rumori della guerra e per un po’ li confonde addirittura con lo sferragliare del treno notturno, con un migliaio di passeggeri a bordo, che già si è fermato per più di un’ora in mezzo al nulla e al buio della pianura ucraina (per fingersi morto?) e poi è ripartito di gran carriera, quasi sbandando sulle rotaie per la fretta di togliersi dalla zona di attacco russo, ed ora, alle 4,30 ora ucraina, 3,30 ora italiana del 5 ottobre 2025, è fermo alla stazione di Leopoli, del tutto silenziosa.

Siamo stanchi per le giornate intensissime di incontri e di emozioni che abbiamo vissuto come MEAN (Movimento Europeo di Azione Nonviolenta) tra Kyiv e Kharkiv e per la fatica delle quasi venti ore di ferrovia dall’Ovest all’Est dell’Ucraina, ed ora viceversa sulla via del ritorno, perché dal 2022 non ci sono voli possibili in Ucraina, e se vedi qualcosa volare in cielo puoi solo pensare al peggio.

Siamo 110 e occupiamo tre dei vagoni letto del lungo convoglio. Si cerca di riposare se non si riesce a dormire, perché dopo Leopoli ci sarà il lungo controllo passaporti, poi la dogana di Przemysl, poi tre ore di pullman fino a Cracovia e poi l’aereo per l’Italia. Ma ormai il viaggio è finito e la tensione si è allentata. Leopoli è zona sicura, non è mai stata attaccata direttamente, e il nostro air alert (l’app di allarme che ci hanno fatto installare sui cellulari) è ancora selezionato sulle regioni di Kyiv e Kharkiv. Per altro, tutti abbiamo già silenziato l’alert dopo il primo giorno, perché non si può fare nulla se si è sempre interrotti dal suono delle sirene e anche perché (come ci spiegava con un sorrisetto un insegnante dell’Università Beketov di Kharkiv durante un incontro interrotto dall’allarme dei nostri cellulari) un missile impiega 40 secondi per arrivare da Mosca a Kharkiv, per cui «non serve correre».

Le prime esplosioni ci trovano perplessi, confusi, del tutto spaesati. Non è possibile, non qui.

Quando i colpi diventano boati, rombi e sibili inquietanti, sempre più vicini, siamo come increduli.

E poi la contraerea, vicinissima, quella sì riconoscibile, ci toglie ogni dubbio: è in corso una battaglia aerea vicino alla stazione.

***

Difficile comunicare tra noi, divisi negli scompartimenti notturni, difficile valutare l’entità del pericolo, ma ci siamo impegnati a rimanere sempre insieme e ad affidarci ai responsabili della missione per la nostra sicurezza. Qualcuno esce in mutande nello stretto corridoio di comunicazione e si accorge che il sottopassaggio della stazione è già stracolmo di passeggeri evacuati da altri treni. Nemmeno ce ne siamo accorti, non un grido, neanche il normale vociare di una folla in movimento. Qualcuno vede i bagliori oltre l’edificio della stazione e il fumo delle esplosioni. Io, con le tre amiche che occupano lo scompartimento a cuccette, non vedo nulla: abbiamo abbassato i due scuri del finestrino, come abbiamo imparato a fare anche negli hotel, per evitare non certo i missili, ma almeno le schegge.

E poi arriva su whatsapp, lapidario, il messaggio di Angelo (Angelo Moretti, portavoce e responsabile della missione), in grassetto:

MEGLIO AVERE LE SCARPE AI PIEDI, CI SONO ESPLOSIONI NEI DINTORNI

E l’invito a tenerci pronti per una «fuga leggera».

Qui ci sarebbe da riportare anche qualche scena comica, perché trovare, scarpe, giacca e passaporto nel caos compresso di uno scompartimento a cuccette, al buio, comporta un certo parapiglia.

E poi la luce: accendi che non vedo, no non accendere, ma non vedo niente, accendi la luce bassa, usiamo le torce dei cellulari, no è meglio rimanere al buio…

Fino al whatsapp di Marco (Marco Bentivogli, altro portavoce e responsabile MEAN):

GLI SHAHED IRANIANI NON HANNO OCCHI O ORECCHIE

È così che abbiamo misurato la pochezza della nostra preparazione bellica, ferma ai film sulla seconda guerra mondiale. Ed è un po’ come diceva il professore della Beketov: non puoi fare niente, accendi la luce e mettiti il cuore in pace.

VAGONE 11 TUTTI PRONTI ALLA FUGA

VAGONE 12?

VAGONE 10?

NON DOBBIAMO SCENDERE

DOBBIAMO SOLO ESSERE PRONTI A FARLO

Alla fine non siamo scesi perché i capitreno hanno valutato preferibile (secondo le indicazioni dell’esercito) portare il convoglio lontano dall’area dell’attacco il più rapidamente possibile. Ma anche dopo la cessazione dei combattimenti abbiamo aspettato molto tempo, pare per la necessità di abbattere tutti i droni in volo.

Abbiamo poi saputo che nell’attacco eccezionale alla città di Leopoli e dintorni sono stati lanciati 78 droni, non si sa quante bombe a grappolo e 12 missili, alcuni dei quali ipersonici.

I missili ipersonici, per intenderci, sono quelli che prima colpiscono, poi si vedono e infine si sentono pure.

Il combattimento è arrivato a soli 5 km dal nostro treno e un drone pare sia stato abbattuto a 100 metri da noi.

Abbiamo saputo che sull’area di Leopoli, nella notte dell’attacco, si trovavano tre satelliti cinesi per il controllo delle operazioni.

Abbiamo purtroppo anche saputo che un missile ha colpito un’abitazione civile, uccidendo nel sonno una famiglia di quattro persone (tra cui una ragazza quindicenne), oltre ad aver distrutto infrastrutture industriali.

Difficile immaginare che il nostro treno fosse un obiettivo, anche se due giorni prima era stato colpito un treno nella zona di Sumy, dove pure le locomotive viaggiano protette da una «gabbia anti-droni». Intanto pare che droni e missili ancora non riescano a colpire i treni con precisione, anche se risulta che stiano effettivamente prendendo di mira le infrastrutture di trasporti e comunicazione.

Ma soprattutto non potevano colpire 110 cittadini europei a meno di 80 km dal confine polacco, con gli F16 della NATO immediatamente fatti decollare come presidio.

Ovvio che sapevano della nostra presenza. Non è solo il Mossad a controllare tutti i cellulari.

***

Quanti pensieri, a posteriori naturalmente, sul puro e semplice fatto che l’abbiamo scampata!

Per cominciare, essere sul posto coi nostri corpi può fare qualche differenza, e non solo per noi che ci siamo.

Per continuare, il fatto di essere cittadini europei conta qualcosa.

E ancora, tutte le agenzie di stampa si sono scatenate nel dare la notizia centrandola sulla presenza dei 110 italiani sul treno (che pure portava un migliaio di passeggeri, per lo più frontalieri che lavorano in territorio polacco), e poco rilievo ha avuto anche la notizia della famiglia uccisa nell’attacco.

Ancora, la missione del MEAN ha avuto visibilità mediatica quasi esclusivamente per via di questo incidente finale, perché l’impegno per la pace tra i popoli, pur condito con un po’ di audacia, non è abbastanza interessante.

Per finire, come accettare che noi «l’abbiamo scampata», appunto, mentre chi è rimasto dall’altra parte del confine e non ha passaporto europeo sia continuamente esposto a questo rischio?

E per finire veramente, ma con un sorriso amaro, fa pensare il fatto che un «leone da tastiera» ha subito commentato la notizia avanzando l’ipotesi che i 110 attivisti italiani sul treno Kyiv–Leopoli fossero verosimilmente «mercenari al soldo di Zelenskyj».

***

Occorre però tornare alla contraerea con cui abbiamo cominciato, perché se ancora avessimo avuto dei dubbi in merito, dalle sue raffiche alla stazione di Leopoli abbiamo capito davvero e fino in fondo la ragione per cui tutti gli ucraini con cui abbiamo parlato si riferiscono ai soldati chiamandoli sempre «difensori», «i nostri difensori». Abbiamo sentito anche nostro l’atto di esporre sull’altare maggiore della chiesa romano-cattolica di Kharkiv gli stemmi di tutti i battaglioni combattenti, immagine che a noi, che non sappiamo cosa sia la guerra, pareva proprio stonata. E un po’ stonata ci pareva pure la bandiera ucraina drappeggiata davanti all’altare delle due cattedrali di Kyiv e di Kharkiv. E anche l’inno-preghiera per l’Ucraina con cui si è conclusa ogni celebrazione religiosa.

stemmi

Patriottismo d’altri tempi?

Di certo non è patriottismo retorico, anche se noi fatichiamo a comprenderlo.

Senza protezione aerea queste città non potrebbero vivere, senza i «difensori» non esisterebbe più neppure l’Ucraina. Lo stesso Nunzio Apostolico Visvaldas Kulbokas ci ha parlato con ammirazione di uomini che di giorno guidano gli autobus e di notte stanno appostati sui tetti della città per avvistare e abbattere i droni (troppo bassi per essere intercettati dai radar).

La popolazione sostiene pienamente l’esercito dei «difensori» e pare che in questi anni di terribile e sofferta resistenza, militare e civile, si stia definendo in modo sempre più netto l’identità affettiva, culturale e politica di un popolo.

Potrebbe una Chiesa di popolo non sentire con il popolo?

Eppure qualcosa di stonato c’è, e stonato è giusto che rimanga.

Una stonatura dolorosa.

altare-kiev

La guerra, con tutta la violenza che la prepara e l’accompagna, contraddice radicalmente il quinto dei comandamenti biblici e ancor più il comandamento evangelico dell’amore.

Ma tra la purezza del principio e la necessità di dar risposta al male sta proprio lo spessore della scelta morale.

E se peccato c’è, allora è peccato di tutti, tutti ne siamo contaminati, non meno dei soldati che sparano e uccidono.

Non c’è purezza di cuore o di principio che ce ne possa liberare.

La pervasività del male non ci consente innocenza, è l’insegnamento di D. Bonhoeffer, ci chiede di «dare risposta», di essere «responsabili» anche sporcandoci le mani.

Detto in termini politici, gli errori della storia si pagano, a lungo e a caro prezzo.

Il rettore dell’Università Beketov di Kharkiv, professor Ihor Biletsky, ci ha accolto letteralmente a braccia aperte, venendoci incontro ai cancelli d’ingresso dell’edificio che sembra un cantiere, perché è stato colpito 24 volte da droni e missili. Ma ancora nelle fasi di preparazione del viaggio del MEAN aveva voluto chiarire il senso del nostro incontro: non veniteci a dire che non dobbiamo combattere. La guerra è il male assoluto – ci ha detto poi nei tre minuti di un discorso indimenticabile – e corrompe tutto ciò che tocca, ma c’è un male ancora peggiore della guerra, ed è l’indifferenza.

Non so decidere se certi pacifismi da salotto o da sacrestia siano irresponsabilità o indifferenza. Forse ambedue le cose, qualche volta ingenuità.

Quello che il MEAN ha capito è che per entrare nei panni degli altri bisogna spostare anche il corpo, non solo il pensiero.

***

Girando per Kyiv e per Kharkiv, incontrando numerose persone e associazioni, non abbiamo trovato la retorica bellica e patriottica che ci si potrebbe aspettare in un Paese che resiste all’invasione russa, a noi pare dal 2022, per loro dal 2014. Un paio di scritte di tipica parenesi guerresca sì, alla stazione di Kharkiv. Senz’altro sui manifesti di invito all’arruolamento, esposti in tutti i luoghi pubblici, del tutto comprensibilmente.

Ci ha sorpresi qualche logo di battaglione riprodotto sui muri per iniziativa di privati cittadini, come da noi possiamo trovare i simboli della squadra del cuore, a suggerire ben altre passioni che quelle sportive. E ci ha colpiti per la sua forza espressiva la scritta monumentale FREEDOM in piazza Mykhailivska, davanti alla chiesa di San Michele, a lapidario commento dei mezzi militari russi disposti dietro la scritta, catturati quando fu respinta l’invasione della città nel febbraio 2022.

soldato

Eppure, il soldato non più giovane che sosta seduto e come abbandonato sulla panca della cattedrale di Kharkiv; il veterano ossuto che nei giorni di congedo concessi segue da lontano la moglie che deve presentare il concerto in nostro onore alla sala d’organo della Filarmonica di Kharkiv, che rimane in ultima fila ma è seguito dallo sguardo adorante di lei; il giovane mutilato, per di più devastato da un’alopecia di facile diagnosi psicosomatica, che chiede l’elemosina in metropolitana; lo sguardo limpido di Viktor che può passare qualche giorno di congedo con la moglie e i tre bambini ad Anacapri grazie ai volontari del MEAN sentendosi come in paradiso; perfino i gesti spicci, di chi fa quel che deve fare e basta, con cui i soldati al confine perquisiscono i nostri scompartimenti a cuccette per stanare eventuali «disertori» non dicono né rassegnazione né esaltazione.

Dicono piuttosto dolore e pena, pudore e anche gratitudine.

Il dolore immenso, senza fondo, che ti assale se solo entri nel cimitero di Kharkiv.

La pena per chi fugge, non ce la fa o non vuole proprio combattere, e si sente violentato.

Il pudore per l’oscenità, indicibile, della guerra, di cui si tacciono per lo più gli orrori.

E la gratitudine, quella di chi piange e prega ogni giorno per i «difensori» e anche quella dei «difensori» nei confronti di chi li abbraccia senza giudicare.

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Un commento

  1. Maria Laura Innocenti 26 ottobre 2025

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