Figli/e delle migrazioni: una parabola significativa

di:

migranti

Nel quadro di una serie di progetti tra il Centro studi Insight aps di Bologna e l’Istituto di ricerca in scienze delle religioni della Facoltà Teologica dell’Italia Centrale di Firenze che cercano di porre in dialogo osservazioni sul campo in ambito sociale con riflessioni di natura teologica, si propone una delle molte interviste in profondità raccolte negli ultimi anni. L’intervista − riproposta solo in alcune sue parti − pone temi davvero importanti e potrebbe attivare una riflessione a più livelli. L’intervista è uscita in un’altra versione presso il Messaggero Cappuccino di novembre-dicembre 2025 che qui ringraziamo.

 

C’è un tempo qualitativo che si misura verticalmente
lungo l’asse che segna il movimento dell’essere umano
dalla sua condizione di bruta forza competitiva alla condizione
di centro cosciente degli intrecci cosmici,
chiamato a provvedere, senza violenza,
ma con amore, alla piena maturazione della creazione[1]

Per cercare di dire qualcosa sui «figli delle migrazioni», seguendo un metodo già sperimentato in ricerche precedenti, si è scelto di pubblicare, in versione abbreviata, una delle interviste in profondità raccolte sul tema[2]. L’intervista è a Kejsi Hodo che è stata raggiunta – all’inizio di settembre 2025 – negli Stati Uniti dove si trova per un breve soggiorno di studio. La sua unica e personale vicenda ci pare possa rappresentare una parabola significativa della vicenda di persone, nate e/o cresciute in Italia, figlie di persone migranti. Una parabola che, per il lettore e la lettrice, può mostrare molte virtualità sociali e umane, oltre che sollecitare pensieri a chi si interessa responsabilmente della vita – e del futuro – del nostro paese nei suoi significati e valori di fondo.

  • Kejsi, mi puoi dire alcune parole sul tuo background e sulla tua famiglia?

Con la mia famiglia siamo arrivati in Italia nel 2008, mio papà era già stato qui facendo lavori anche molto duri. Veniamo da Fier una città vicino a Valona, da cui passa un importante gasdotto tra i Balcani e la Puglia. Ci siamo trasferiti a Bologna perché c’era il cugino di papà che ci ha detto “venite perché c’è una sanatoria”. Tramite mia mamma si è riusciti a fare progressivamente i documenti: lei è stata la prima a fare la richiesta di permesso di soggiorno […]. Quando l’ha ricevuto la prima volta, le avevano sbagliato il nome e quindi dopo due anni di attesa l’ha dovuto rifare […]. Una volta ricevuto il permesso di soggiorno, mia mamma ha fatto il ricongiungimento per mio papà, me e mio fratello. Dal mio arrivo in Italia al momento in cui io ho preso il soggiorno sono passati sei anni. Nel frattempo io e mio fratello siamo andati a scuola. Per fortuna in Italia il diritto all’istruzione è universale e non ti chiedono il permesso di soggiorno per andare a scuola, però te lo chiedono per la mensa della scuola.

  • Perché?

Perché la mensa è un servizio del comune e occorre la residenza per usufruirne. Mia mamma doveva venire a portarci il pranzo. Tra l’altro per consumarlo dovevamo uscire dalla scuola per questioni d’assicurazione. Ammetto che ho un brutto ricordo legato a questa cosa: il fatto che dovessi uscire e anche nei giorni più freddi. A tal proposito, sono ora in contatto con alcuni consiglieri del Comune di Bologna per chiedere che non sia più così a Bologna, perché è veramente insensato e poco sostenibile che i bambini vadano a scuola ma che non possano accedere alla mensa se non hanno residenza o permesso di soggiorno. In proposito, ho un altro ricordo non bello delle elementari: si tratta in realtà di una pratica alquanto diffusa […] quella di mandare indietro di un anno i bambini che arrivano che non parlano italiano. Questa cosa è successa anche a me e quel momento […] me lo ricordo benissimo. Quando mi hanno detto “tu devi rifare la quarta elementare perché non parli italiano”. A me lì è scoppiato il cervello perché nella mia testa voleva dire “sono stata bocciata”. Così in quarta sono stata subito messa a fare lezioni di alfabetizzazione: […] di solito succede che ti portano via dalla lezione in orari di materie che vengono considerate non fondamentali – tipo storia e arte, che a me piacevano molto. Io questa cosa la odiavo, ero arrabbiatissima col mondo e questo mi ha spinto ad imparare l’italiano in frettissima […]: dopo circa 3 mesi già parlavo non male e dopo 6 mesi ero a posto con la lingua.

  • Interessante l’uso della parola rabbia.

Sì, è un tema che tornerà. Sono poi passata alle medie, che credo siano un periodo bruttissimo per tutti, però mi sono servite: noi siamo stati fortunati perché abbiamo avuto diverse figure di maestre, professori, professoresse importanti. È stata, infatti, la professoressa d’italiano delle medie che mi ha indirizzato verso il Galvani, al liceo internazionale scientifico, perché vedeva già le mie aspirazioni per il futuro sul mondo diplomatico e ha insistito tantissimo.

  • Come identifichi le tue aspirazioni di allora? Hai detto per il mondo diplomatico?

Sì avevo quest’idea. La genesi è sicuramente mio nonno materno che era appassionato di politica. Da piccola lo vedevo sempre guardare il TG, lui mi faceva leggere il giornale con tutte le notizie politiche […] e mi ripeteva spesso: “vedrai tu diventerai un’ambasciatrice”. […] Avevo già questa idea in terza media e soprattutto avevo la passione per le lingue. […] La professoressa d’italiano ha così insistito tantissimo perché mi iscrivessi ad un liceo – e poi anche alcuni amici stavano guardando al Galvani – e così mi sono iscritta e abbiamo fatto il liceo internazionale.

Io ero in Italia da quanto? Da cinque anni, no? Mi rendo conto ora che sono stata molto fortunata perché sono stata molto seguita e così, dopo cinque anni, potevo scegliere qualsiasi scuola avessi desiderato, perché avevo una preparazione adeguata. Questo però non è il caso di tutti gli studenti con background migratorio in Italia, perché molti anche dopo anni sono ancora lì che faticano. Poi il consiglio che ti danno alle medie risulta fondamentale specialmente nel sistema scolastico italiano, perché tu alle medie stai facendo una scelta che si ripercuote sul tuo futuro […]. È dimostrato anche dagli studi che in Italia gli studenti con background migratorio ricevono molto spesso il consiglio di andare in un istituto professionale perché non vengono ritenuti capaci di affrontare un percorso di liceo che li porterà all’università e questo – credo – si rivela uno svantaggio incredibile, perché già in partenza a te viene detto che tu non sei capace di laurearti, con tutto ciò che ne consegue.

  • Ci sono stati dei momenti in cui hai sentito di più la tua condizione di “immigrata”?

Sì, molti. Ne ricordo due. È da quando avevo dieci anni fino ad oggi che io mi occupo di tutta la burocrazia della mia famiglia, cosa che solitamente non spetta ai bambini, invece per me era necessario, come anche far da interprete ai miei genitori perché loro ovviamente ci hanno messo di più a imparare l’italiano. […] Infatti, a parte le elementari in cui la scuola aveva una mediatrice, alle medie e alle superiori io ho sempre dovuto fare da interprete ai colloqui con i professori. Col tempo però questa cosa mi ha appesantito tantissimo perché ho realizzato molto il fatto di essere diversa dagli altri. […] Stessa cosa per il rinnovo del permesso di soggiorno: fila all’alba, file lunghissime, al freddo, al sole, dove nessuno gliene frega niente delle condizioni, e a nessuno frega niente nemmeno del fatto che tu bambino/bambina o ragazzino debba perdere un giorno di scuola per andare a rinnovare il permesso di soggiorno o che a 14 anni ti debbano prendere le impronte digitali perché sei una figlia di immigrati.

  • Altri aspetti?

Alle medie ho cominciato a sentire di essere “in mezzo” tra la crescita in Italia e i genitori albanesi che ci tenevano – ovviamente – che io portassi in me anche i valori e le tradizioni albanesi. Questo spesso mi ha causato pensieri […]. Poi c’è un aspetto che ho studiato molto in seguito, ossia il fatto che di solito le diaspore sono molto legate alle tradizioni e rischiano di portare avanti dinamiche che non sono più presenti neanche nel paese di origine. Col fatto che loro se ne sono andati prima e non hanno vissuto i cambiamenti del paese di origine sulla pelle, si sentono come in dovere di appartenere ancora alla propria terra, per cui magari esasperano, non so come dire, certi comportamenti, certi pensieri, che, se vivessero nel paese di origine, non sarebbero più così. Su tanti temi una cosa che mi diceva spesso mio papà o mia mamma era: “ma noi siamo albanesi!”.

  • Tra queste tradizioni da preservare e da non perdere, c’era qualche aspetto culturale o religioso?

Sì, ci sono degli aspetti culturali, sicuramente, legati alle festività, alla musica e al cibo. Ci sono anche aspetti religiosi, ma non molto nella mia famiglia, perché se i miei bisnonni paterni erano musulmani, quelli materni non erano neanche religiosi. In Albania c’è stata la dittatura comunista che ha praticamente eliminato la religione dallo Stato, anche se in realtà la religione non ha mai smesso di esistere: le persone continuavano comunque a vedersi, a pregare, di nascosto anche durante la dittatura. […] Nella mia famiglia, in particolare, l’elemento religioso, non c’è. Se non, ecco, un altro elemento interessante è che alcuni albanesi credono nel culto di persone che si dice abbiano fatto del bene durante la loro vita e che erano dei punti di riferimento per la comunità. Alla loro morte sono diventati come una specie di santi che sono venerati a prescindere da qualsiasi appartenenza confessionale. […] Ecco, questa cosa c’è nella mia famiglia, poi, anche qui, non ti dico i litigi, la discrepanza, la tensione specialmente con mia mamma che ci crede mentre mio papà è come me, o io sono come lui, non ci crediamo.

Poi c’è stato il voto.

  • Cioè?

Il momento di maggiore consapevolezza è stato per me il diritto di voto, nel senso che io a 18 anni ho realizzato che non avrei potuto votare in Italia. Ti faccio un esempio per farmi capire meglio: alle medie io ero una consigliera del CQR, consiglio del quartiere dei ragazzi San Vitale-San Donato […]: ero stata eletta e facevamo un sacco di cose, organizzavamo degli eventi, è stata un’esperienza molto bella. Poi, ecco, con tale amore alla partecipazione arrivano i 18 anni, tu mi puoi dire ma lo sapevi anche prima, no? Invece no, […] quando mi sono resa conto che non avrei potuto votare in Italia, è stato per me devastante. Non solo, anche quando ho iniziato l’università volevo studiare scienze internazionali e diplomatiche, per fare poi il concorso per i diplomatici. […] E ho realizzato che, senza cittadinanza, non solo non posso votare, non posso nemmeno partecipare ai bandi e concorsi pubblici. […]

  • La domanda a questo punto è superflua. Cosa ha significato per te il referendum dell’8 giugno 2025?

Per me il referendum ha significato soprattutto comunità. Prima del referendum sono entrata in contatto con Dalla parte giusta della storia, che è l’associazione di cui adesso sono la vicepresidente, che porta avanti da anni le istanze per la riforma del diritto di cittadinanza, ma ancora di più l’associazione per me è come la mia famiglia. […] Quando abbiamo intrapreso il percorso del referendum, lì è stato l’inizio di qualcosa di incredibile perché come recita il comunicato stampa che abbiamo fatto dopo l’esito referendum: “Non male per essere giovani donne under 30, razzializzate, lavoratrici e studentesse a tempo pieno, alla loro prima campagna politica… contro uomini bianchi, ricchi e potenti!)”.

[…] Per il referendum si è viaggiato tanto e abbiamo incontrato, in quei mesi, tantissime persone, singoli, associazioni, organizzazioni, partiti, le realtà più disparate e per la prima volta in vita mia ho assistito a qualcosa di incredibile, ovvero queste persone erano interessate alla mia condizione […]. Abbiamo acceso veramente la luce su questo argomento e ci credevo tantissimo. Poi con le altre dell’associazione siamo andate ai seggi l’8 giugno, è stato per me […] il giorno X, cioè dopo mesi e mesi di lavoro io non potevo votare ancora una volta e devo dire che questo voto è stato quello che mi ha fatto più male non poter esprimere. […] Siamo andate insieme al seggio per i fuori sede che era al Liceo Sabin, a Bologna. C’era una lunghissima fila per votare! […] Ci siamo messe a piangere in autobus perché abbiamo visto la fila, la calca di persone che aspettavano per votare. Ho la pelle d’oca, è stato… è stato incredibile […]. Però noi siamo quelle persone che non hanno quel diritto, per cui quegli spazi lì sono inaccessibili. Siamo le persone che di solito non entrano in Parlamento, non entrano in Senato, non entrano in Campidoglio. Stavolta ci siamo entrate e abbiamo fatto tutto il nostro, sia in Parlamento che in Senato che in Campidoglio. Ci siamo entrate a gamba tesa e a testa alta, abbiamo parlato e abbiamo rivendicato tutto quello che secondo noi doveva appartenerci, che ci appartiene. E quindi è stato, non so, quel momento lì è stato bellissimo. Allora ci siamo messe lì in fila piangendo. E poi è arrivato anche il momento delle mie compagne che hanno ottenuto la cittadinanza da poco di votare, di Deepika, di Nora. […]

  • E poi cosa ha significato per te come è andato?

Piano piano abbiamo realizzato, verso fine giornata che sarebbe stato molto difficile. Poi il 9 è stato evidente. Noi siamo arrivate all’8 giugno con la consapevolezza che comunque le nostre vittorie le avevamo avute: abbiamo riportato il tema della cittadinanza sul tavolo e abbiamo messo in piedi una rete di persone, di organizzazioni, di realtà varie che si sono volute attivare e che sono ancor oggi attive.

[…] Il risultato non è ancora una sconfitta, ma un po’ meno una vittoria: non per il quorum, ma per il fatto che ci sono stati 60% di sì e 40% di no. Questo ci ha fatto male. Lo dico sinceramente, […] il fatto che ci siano stati 40% di no è qualcosa che ci ha fatto riflettere su come continuare a portare avanti la lotta […].

Poi non ti nascondo che c’è stato un primo momento di rabbia. Seguita poi, però, molto rapidamente dalla consapevolezza che siamo in un paese in cui non bastano così pochi mesi per aprire un discorso così ampio e complesso. Quello che serve è un lavoro molto più profondo che è legato a tanti aspetti. È legato al razzismo, alle istituzioni, alla qualità di vita in Italia, al diritto sulla migrazione. Sentiamo la necessità proprio di partire dal basso e di tenere tutto collegato: il tema della cittadinanza, il decreto legge sicurezza, la crisi climatica, l’erosione dei diritti sociali. […] E bisogna veramente riflettere su quale strumento utilizzare e su come interloquire con le persone. […]

Ringraziamo Kejsi per la disponibilità a raccontare parti importanti della sua vita personale, che, come si è intuito leggendo, hanno un risvolto umano, sociale e politico − e credo anche teologico contestuale − importante e interpellante[3].


[1] E. Balducci, Francesco d’Assisi, Cultura della pace, Fiesole 1989, 177.

[2] Ringrazio per la revisione Martina Castaldini ed Elisa Dondi.

[3] Per un possibile sviluppo dei temi si può leggere: R. Pepicelli, Né oriente né occidente. Vivere in un mondo nuovo, Il Mulino, Bologna 2025 e R. Mancini, Giustizia, Messaggero, Padova 2025.

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Un commento

  1. GB 28 novembre 2025

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