Il grido dei poveri e la speranza

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Il grido del povero rimane inascoltato. L’amara constatazione – che sembrerebbe addirittura smentire quanto ci assicura la sacra Scrittura – nasce dal rilevare che, salvo alcune “uscite” ufficiali, il Messaggio di papa Francesco per la 3ª Giornata mondiale del povero è rimasto vittima di un assordante silenzio.

I poveri sono scomodi

Che i poveri siano scomodi non è una novità. Con la loro presenza e la loro carne ferita essi rappresentano la crepa più pericolosa dell’edificio di questa società costruita sulla primazia del successo e dell’immagine, della fortuna e del denaro.

Quando li incontri, agli angoli della strada ma anche in quelle situazioni ordinarie che, presi dalla fretta spesso non riusciamo a cogliere, i poveri gridano anche se non parlano.

Che si tratti di povertà materiale o dell’ormai diffusa emarginazione che il nostro mondo genera senza neanche accorgersi, lasciando ai bordi della vita pezzi di umanità confinati nella solitudine, nella malattia, nella disoccupazione, nella mancanza di mezzi culturali sufficienti, nel degrado della periferia della città o nella miseria umana e spirituale, i poveri sono lì, davanti ai nostri occhi, e contestano l’ingiustizia di questo mondo, le sue strutture inique, i suoi meccanismi disumani, la sua economia dello scarto.

Viene da sé che, dei poveri, è meglio non parlare troppo. Meglio non metterli al centro, limitandosi a compiere qualche gesto di apparente solidarietà, ammantato di quella patina borghese di cui la religiosità del mondo occidentale stenta ancora a liberarsi, che soddisfa i propri bisogni, usa anche Dio per il “capitale” del proprio benessere e compie gesti che non corrispondono ad una reale conversione nella direzione dell’amore del prossimo e che, pertanto, lasciano la storia così com’è.

Non solo gesti, ma segni di speranza

Presentando il Messaggio per la Giornata del povero di quest’anno, mons. Fisichella, presidente del Pontificio consiglio per la nuova evangelizzazione, ha evidenziato lucidamente il passaggio: non solo gesti sporadici per i poveri, ma segni di speranza. Cioè, apertura del cuore per entrare nella loro cultura, nella loro storia, nel mondo interiore che vivono.

È il passaggio – per dirla con il teologo tedesco Metz, anche lui esperto di teologia fondamentale come mons. Fisichella – dalla religione borghese a quella messianica: non gesti che acquietano la coscienza, lasciandoci poi tranquilli in uno stile di vita consumistico e poco scalfito dal Vangelo, ma il coraggio di mettersi in gioco con una profonda compassione, entrando nella vita dell’altro e lasciandosene ferite. Solo questo costruisce davvero la speranza per i poveri del mondo.

Un Messaggio profetico che scuote la coscienza

Il Messaggio della Giornata del povero contiene questo e altri elementi di profezia, che non dovrebbero essere taciuti. Al contrario, sarebbe il caso di indicarne la lettura meditata in ogni comunità parrocchiale e in ogni famiglia.

Il testo è coraggioso, chiaro, capace di toccare il cuore senza né marcare toni accusatori, ma anche senza “addolcire” con diplomazia la realtà.

La speranza del povero, che non rimane delusa perché Dio è dalla sua parte, costringe la fede cristiana a uscire dalla comodità di riti sacri che non toccano la vita e non trasformano la storia, per andare a guardare da vicino e con le lacrime agli occhi quelle che lo scritto di papa Francesco chiama le «molte forme di nuove schiavitù a cui sono sottoposti milioni di uomini, donne, giovani e bambini… famiglie costrette a lasciare la loro terra per cercare forme di sussistenza altrove; orfani che hanno perso i genitori o che sono stati violentemente separati da loro per un brutale sfruttamento; giovani alla ricerca di una realizzazione professionale ai quali viene impedito l’accesso al lavoro per politiche economiche miopi; vittime di tante forme di violenza, dalla prostituzione alla droga, e umiliate nel loro intimo. Come dimenticare, inoltre, i milioni di immigrati vittime di tanti interessi nascosti, spesso strumentalizzati per uso politico, a cui sono negate la solidarietà e l’uguaglianza? E tante persone senzatetto ed emarginate che si aggirano per le strade delle nostre città?».

Il Messaggio arriva come un potente pungolo che intacca la tranquillità della nostra coscienza oramai assuefatta e anestetizzata: «vediamo i poveri nelle discariche a raccogliere il frutto dello scarto e del superfluo… Diventati loro stessi parte di una discarica umana sono trattati da rifiuti, senza che alcun senso di colpa investa quanti sono complici di questo scandalo… Dramma nel dramma, non è consentito loro di vedere la fine del tunnel della miseria. Si è giunti perfino a teorizzare e realizzare un’architettura ostile in modo da sbarazzarsi della loro presenza anche nelle strade, ultimi luoghi di accoglienza».

Davanti a tale scenario, colmo di tristezza e di amarezza, la fede cristiana pone il segno di quella speranza che si chiama Gesù Cristo. A fronte delle battute “social” di coloro che contestano a questa Chiesa di Francesco una scelta di campo eccessivamente politica – mentre dovrebbe invece occuparsi di “anime”, di incensi e di sacrestie –, la fede cristiana è accoglienza dell’amore che il Padre ci ha donato in Cristo suo Figlio, che non si limita ad atti di culto religiosi o a professioni di fede semplicemente enunciate, ma trasforma la vita dal di dentro e la orienta all’amore del prossimo.

In tal senso, la fede cristiana è sempre “orientata politicamente”, non perché debba fare politica attiva nei partiti, ma perché fede incarnata nella storia, che invita i credenti a “prendere posizione” dinanzi al dolore del mondo e ad esercitare la compassione di Cristo e la sua prassi di liberazione per gli oppressi del mondo. Portare la Croce – invito che Gesù ci rivolge – invece che essere l’atto sacrificale di masochismo spirituale che molti intendono, dovrebbe significare questo: sollevare il dolore del mondo, portandone il peso, fino a spezzarsi e morire per l’altro. Proprio come ha fatto Gesù.

L’indignazione ci renda costruttori di speranza

Papa Francesco non ha dubbi: è questa la speranza che il cristianesimo è chiamato a costruire, intercettando il bisogno di Dio che i poveri hanno, offrendo loro mani e cuore perché vengano risollevati, senza dimenticare che «A volte, basta poco per restituire speranza: basta fermarsi, sorridere, ascoltare. Per un giorno lasciamo in disparte le statistiche; i poveri non sono numeri a cui appellarsi per vantare opere e progetti. I poveri sono persone a cui andare incontro: sono giovani e anziani soli da invitare a casa per condividere il pasto; uomini, donne e bambini che attendono una parola amica. I poveri ci salvano perché ci permettono di incontrare il volto di Gesù Cristo».

Tuttavia, continua il Messaggio, «Si possono costruire tanti muri e sbarrare gli ingressi per illudersi di sentirsi sicuri con le proprie ricchezze a danno di quanti si lasciano fuori. Non sarà così per sempre. Il “giorno del Signore”, come descritto dai profeti (cf. Am 5,18; Is 2-5; Gl 1-3), distruggerà le barriere create tra Paesi e sostituirà l’arroganza di pochi con la solidarietà di tanti. La condizione di emarginazione in cui sono vessati milioni di persone non potrà durare ancora a lungo. Il loro grido aumenta e abbraccia la terra intera. Come scriveva don Primo Mazzolari: «Il povero è una protesta continua contro le nostre ingiustizie; il povero è una polveriera. Se le dai fuoco, il mondo salta”».

Mentre si leggono queste parole, la foto di un papà abbracciato alla sua figlioletta sulle sponde del Rio Grande dice che cosa siamo diventati. Immensa tristezza, ha giustamente titolato l’Osservatore Romano. Così come immensa tristezza è quella che si prova dinanzi alla nave carica di migranti a Lampedusa. Una tristezza che indigna, ma anche un’indignazione che diventa germe di un cristianesimo dagli occhi aperti, capace di fare la differenza e di trafiggere, con coraggio, il muro dell’indifferenza, della paura e dell’odio.

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Un commento

  1. Anna Maria Palma 29 giugno 2019

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