Mi chiedo se sia stato papa Francesco o una pandemia troppo prolungata a spingere, in ultima istanza, i vescovi italiani a varare il Sinodo nazionale, a decidere di impegnare la Chiesa italiana in un “cammino ecclesiale” sin qui inedito e che si preannuncia lungo nel tempo e di non facile attuazione (e laborioso, ricco di sfide).
Perché un Sinodo nazionale?
Qual è la fonte di ispirazione che ha prevalso di più? Il fattore Francesco che vede nella sinodalità uno strumento decisivo per il rinnovamento della Chiesa e della cattolicità sia a livello mondiale, sia nelle varie nazioni (oltre che nelle diocesi)? Oppure, il dramma della pandemia che ha messo sottosopra il mondo intero e le sue istituzioni, e ha condizionato pesantemente anche le comunità cristiane, diocesane, parrocchiali?
È un interrogativo che resta aperto, perché di entrambi i fattori c’è larga traccia in tutti i documenti preparatori di questo evento ecclesiale.
La prima sfida in questa direzione è certamente venuta dal vescovo di Roma, che a più riprese (sin dal Convegno ecclesiale di Firenze del 2015) ha invitato la Chiesa italiana a intraprendere un’esperienza sinodale nazionale, con l’intento di rigenerare il volto e le scelte della Chiesa.
Tuttavia – come ben sappiamo – la risposta della CEI si è fatta a lungo attendere, ha richiamato l’idea del depistaggio; e non solo per motivi di prudenza o per attaccamento allo status quo, ma anche a fronte di “ragionevoli dubbi”.
Ci poteva essere un dubbio esterno, rappresentato dalla volontà di non fare da contraltare a Sinodi tuttora in corso di altre Chiese nazionali, come quella tedesca, che ha dato un’impostazione ai lavori più radicale e con istanze normative che la Chiesa italiana, per vari motivi, non condivide né forse può permettersi. Ma sui dubbi esterni sono di gran lunga prevalsi quelli interni, sintetizzabili in un interrogativo di fondo.
La Chiesa italiana ha la forza/le risorse umane, culturali, spirituali per intraprendere un cammino sinodale che risponda alla visione di papa Francesco? Una Chiesa (e un cattolicesimo) dove non mancano le situazioni feconde, impegni di frontiera, ma che nell’insieme palesa una stanchezza senza precedenti, perde di attrattività, ha sempre minor incidenza nella vita pubblica e nelle coscienze. Non c’è il rischio che con queste premesse il “convenire sinodale” sancisca ufficialmente la difficoltà della Chiesa e delle comunità cristiane di rigenerarsi in questa società?
A questo punto, si può dire che, a vincere le perplessità dei vescovi sull’opportunità di varare un Sinodo nazionale, abbia avuto un ruolo decisivo proprio l’evento esterno della pandemia, che non solo ha scompaginato antiche consuetudini, ma che ha reso più evidenti la fragilità della situazione ecclesiale e i molti nodi critici che da tempo condizionano la presenza della Chiesa nel paese.
Come a dire: non è questo il tempo più propizio per operare un discernimento della situazione religiosa del paese e per ripensare (in chiave evangelica e alla luce dello Spirito) il modo di essere della Chiesa e delle comunità cristiane nella società? Dunque: se non ora, quando? E ciò per togliere pesantezza all’agire ecclesiale, per restituire levità alla presenza cristiana, per orientarla maggiormente sulle cose che contano; per chiedersi che cosa ci sia di cristiano che valga davvero la pena di dire oggi. Anche perché c’è una doppia lezione da cogliere dalla pandemia, che non ha solo messo sotto scacco la Chiesa e le comunità cristiane, ma che ha fatto emergere anche segni di rinnovamento. Di qui il titolo con cui la CEI ha lanciato il Sinodo nazionale nella Carta di Intenti presentata a maggio di quest’anno, che recitava appunto: “Annunciare il Vangelo in un tempo di rinascita”.
Un metodo nuovo
Il Sinodo della Chiesa italiana si ricollega ovviamente a precedenti forme del “convenire ecclesiale”, che negli ultimi 50 anni (dal post-Concilio in poi) ha assunto la forma sia dei Convegni ecclesiali decennali (abitualmente collegati ad un “piano pastorale”), sia della possibilità di attuare dei Sinodi nelle varie Chiese locali, a livello diocesano. Insomma, “il cammino” della Chiesa italiana non nasce oggi col progetto sinodale nazionale, ha una sua tradizione, ha prodotto nel corso degli anni del discernimento, dei frutti, delle scelte, oltre che in vari casi un’ampia consultazione della base ecclesiale.
Tuttavia, è evidente che, nell’accogliere la proposta sinodale di Francesco, la Chiesa italiana si espone a una torsione progettuale e organizzativa di rilievo rispetto al recente passato. Le novità sembrano anzitutto di metodo, come emerge dalla prospettiva sintetica del cammino indicato nei documenti preparatori.
Anzitutto il passaggio “da un modo di procedere deduttivo e applicativo a un metodo di ricerca e di sperimentazione che costruisce l’agire pastorale dal basso e in ascolto dei territori”. (Passare da uno schema in cui la CEI/i vescovi danno un orientamento – schema deduttivo – ad uno schema in cui si costruisce insieme e, nello stesso tempo, si impara il metodo).
In secondo luogo, un percorso di confronto circolare, in quanto la riflessione dal basso deve poi confluire in un momento unitario, per poi tornare ad arricchire le comunità locali.
In terzo luogo, un percorso che chiede il coinvolgimento dei vari soggetti ecclesiali.
Ancora, un percorso che non può essere indicato in partenza, per due ragioni convergenti: da un lato, perché la pandemia insegna a non fidarsi troppo dei disegni precostituiti; dall’altro, perché quello sinodale è un cammino che si sviluppa nel tempo, che si forma nell’ascolto, nella ricerca, nel confronto, nella comunione.
Si prefigura dunque un “cammino ecclesiale” assai più aperto rispetto ad analoghe esperienze del passato, reso possibile da un coinvolgimento diffuso, dalla partecipazione di tutte le componenti ecclesiali alla costruzione di un progetto comune. Un coinvolgimento non impossibile ma comunque difficile, in quanto occorre ricreare quella fiducia e quella passione per le sfide impegnative che da tempo sono risorse rare in vari ambienti ecclesiali.
Inoltre, come si produrrà la sintesi di questo cammino di riflessione e di comunione, in un’epoca in cui la frammentazione abita anche la Chiesa italiana?
Ancora, qual è la prospettiva di fondo del percorso sinodale: individuare e applicarsi ai nodi critici che appesantiscono la presenza della Chiesa e del cattolicesimo nel paese, oppure (riflettendo lo stile con cui papa Francesco si rapporta alla Chiesa universale) lasciare un segno, smuovere il corpo della Chiesa italiana, creare un nuovo dinamismo (ispirato dal vangelo) che la renda più feconda nei suoi compiti e nei vari ambienti?
Temi vecchi e temi nuovi
Tra i temi proposti (a mo’ d’esempio) per l’agenda sinodale, alcuni sono i classici campi di impegno della Chiesa in Italia, altri derivano dal travaglio vissuto dagli ambienti ecclesiali proprio nei mesi più bui della pandemia.
Tra i primi ritroviamo:
- l’annosa questione dell’emergenza educativa,
- la formazione delle coscienze in un’epoca carente di riferimenti etici,
- la necessità di descolarizzare la catechesi (che non deve essere considerata un’ora di religione); l’esigenza di una catechesi che superi il modello scolastico,
- l’urgenza di favorire vocazioni all’impegno politico, per evitare che il campo privilegiato della presenza pubblica dei cattolici sia quello (pur essenziale e fecondo) del volontariato («la pratica di una cittadinanza e di un servizio politico all’altezza delle sfide attuali»).
In parallelo, l’esperienza della pandemia ha proposto altre piste di riflessioni e altre urgenze pastorali. Tra cui:
- «la semina della parola attraverso nuovi canali di ascolto e gli strumenti tecnologici» da integrare con le modalità in presenza;
- il coinvolgimento delle famiglie nella proposta di fede, per far sì che il nostro non sia solo un cristianesimo di chiesa, ma anche di casa»;
- la valorizzazione (oltre alla centralità dell’eucarestia) di altre forme di preghiera individuale e comunitaria, come la lectio divina, la meditazione personale, le forme rituali nello spazio familiare;
- e, inoltre, la preoccupazione per il forte calo della presenza dei ragazzi negli ambienti ecclesiali, ulteriore segno di una socializzazione religiosa sempre più precocemente interrotta per le giovani generazioni.
Ma c’è un tema “sinodale”, tra quelli ricavati dal dramma della pandemia, che più mi ha colpito, perché indica che la carenza di cui si parla è stata particolarmente avvertita anche dai piani alti della Chiesa, non soltanto dal popolo di Dio o dal mondo laico sensibile alle questioni dello spirito.
Là dove nella Carta di Intenti sinodale si parla dell’urgenza del «recupero dell’aspetto escatologico della fede cristiana nell’aldilà e della speranza oltre la morte». Sembra quasi l’ammissione da parte dei vescovi che la Chiesa italiana (certo non il pontefice) non è stata all’altezza del suo alto compito in un periodo decisivo della nostra epoca.
L’italiano medio (è stato detto) ha vissuto male l’afonia pubblica e spirituale della Chiesa alta nell’emergenza sanitaria. Una Chiesa italiana che è parsa più preoccupata delle chiese chiuse dal potere politico, che capace di riflettere pubblicamente sui drammi che si stavano vivendo, sulle morti in solitudine e senza funerali, sulle bare accatastate, sul senso di eventi che hanno stravolto la vita umana, civile e quella ecclesiale. Per cui la comunicazione pubblica della fede è stata debole o pavida in questo dramma sociale e sanitario. Di qui il rischio che anche la Chiesa nel suo insieme contribuisca a rendere evanescente la dimensione escatologica del cristianesimo.
Ecco un tema sinodale di grande rilievo.
Dimenticate le questioni strutturali?
I temi pastorali sono ben presenti nell’agenda sinodale, che tuttavia non sembra contemplare al suo interno una riflessione sulle questioni strutturali che da tempo condizionano la vita della Chiesa e del cattolicesimo nel nostro paese.
Non manca qualche spunto che va in questa direzione, ma le formule usate sono troppo generiche per pensare che – per i vescovi – il “cammino sinodale” debba occuparsi anche di questi argomenti.
Da un lato, infatti, si accenna (in modo sommario, senza alcuna specificazione) alla «capacità di tagliare i rami secchi», o «a incidere su ciò che serve realmente o va integrato o accorpato»; dall’altro, si prefigura che «forse emergeranno anche istanze di rinnovamento e di riforma delle strutture», ma restringendo il campo allo snellimento della «macchina degli Uffici e dei Servizi pastorali».
Sembra quasi che la Carta di Intenti del Sinodo abbia pudore a mettere a tema del “convenire sinodale” le questioni organizzative e culturali che si vivono a livello ecclesiale e la cui soluzione può rendere più feconda (e più adeguata ai tempi) la presenza della Chiesa nel paese.
Questo capitolo potrebbe intitolarsi come la riflessione sulla “FORMA CHIESA”, e alimentarsi dei molti spunti al riguardo che circolano negli ambienti ecclesiali di base e tra gli addetti ai lavori. Faccio solo alcuni accenni, a titolo esemplificativo.
- Ha ancor senso, in Italia, una presenza così disseminata di diocesi sul territorio nazionale (sono oltre 220 e il 60% di esse conta una popolazione inferiore ai 150 mila abitanti), quando un accorpamento di queste strutture renderebbe la Chiesa italiana più snella e libererebbe risorse umane e spirituali per l’impegno pastorale?
- La formula della parrocchia non sembra in discussione; tuttavia essa deve essere ripensata in un’epoca carente di clero e di grande mobilità (anche religiosa) della popolazione; in vari territori, le “Unità pastorali” saranno le parrocchie del futuro?
- Ha ancora senso pensare all’Italia religiosa evocando l’immagine di un “cattolicesimo di popolo”? Quando tutte le indagini (ma anche il vissuto ecclesiale) attestano che sotto la “sacra volta cattolica” convivono identità religiose molto diverse tra di loro (ad esempio i cattolici impegnati e i cattolici culturali o anagrafici), che richiedono quindi approcci pastorali specifici e dedicati…
- Il Sinodo sembra orientato a superare la struttura piramidale della Chiesa, ma in questo quadro, come attrarre e valorizzare un laicato attivo desideroso di condividere le responsabilità, capace di occuparsi anche di varie incombenze gestionali che gravano sulla Chiesa locale, alleggerendo in tal modo il clero di compiti impropri?
- Ad ogni “convenire ecclesiale”, poi, la comunità credente è interpellata dalla questione femminile nella Chiesa, che non si esaurisce con il tema del sacerdozio femminile.
- Insomma, (con questi ultimi punti) l’invito è a mettere un po’ d’ordine in un campo dove i preti soffrono (per le troppe incombenze e responsabilità cui devono far fronte), i laici scalpitano o si deprimono (e molti si impegnano altrove), mentre le donne giustamente non si accontentano più di riconoscimenti più elogiativi che sostanziali. Da troppo tempo si parla dell’accesso delle donne al diaconato.
Temi come questi, pur non figurando nell’agenda sinodale, saranno certamente al centro dei lavori, grazie a quell’ascolto dal basso (a quella consultazione capillare del popolo di Dio) che questo “convenire ecclesiale” intende promuovere. Anche perché un’altra parola chiave della Carta di Intenti del Sinodo è l’invito alla concretezza (anche questo mediato dal papa), a tradurre i grandi ideali (la comunione, la corresponsabilità, il primato delle persone sulle strutture) in scelte realistiche e incisive nella vita della comunità cristiana.
Ascolto “dal basso” e questione educativa
Quanto detto (il realismo, la capacità di tradurre in modello organizzativo adeguato i grandi valori o i grandi obiettivi) mi induce a due considerazioni finali.
Una riflessione anzitutto sul rilievo che viene dato in questo percorso all’ascolto dal basso, alle consultazione diffusa del popolo di Dio. È una prospettiva importante, nella visione del Sinodo nazionale, in quanto lo stile dell’ascolto reciproco è visto come propedeutico al “costruire insieme” e al tendere alla comunione.
Tuttavia sappiamo che proprio negli ambienti ecclesiali, proprio tra la porzione di popolo di Dio più impegnata (tra “i vicini”, avremmo detto nel passato), le differenze di sensibilità sono assai spiccate circa il modo di intendere la fede, il rapporto Chiesa-mondo, l’autorità della Chiesa, l’essere credenti nella società plurale.
In sintesi, l’unità sui valori è un obiettivo accattivante, ma occorre anche predisporsi ed essere attrezzati a gestire le tensioni che da sempre hanno attraversato il cattolicesimo di base quando esso è chiamato a confrontarsi su come si testimonia la fede nella città terrena.
Spunti interessanti potranno poi venire dall’ascolto di un popolo di Dio più allargato, dei quasi credenti, dei quasi cattolici o dei cattolici oltre il recinto, o degli uomini di buona volontà, di quanti credono diversamente. Anche da questi versanti possono venire al Sinodo delle parole di verità, delle intuizioni assai feconde; ma qui bisogna avere uno spirito (o uno ‘stomaco’) forte, perché non sono poche le persone che dichiarano esplicitamente di non sapere di che farsene della Chiesa, o per le quali la Chiesa non ha alcuna risonanza emotiva, o che la vorrebbero drasticamente diversa, magari avendo alle spalle un contenzioso di ferite che viene da lontano.
L’altra riflessione riguarda il tema già ricordato (ricorrente da decenni) dell’emergenza educativa.
Mi fa tenerezza una Chiesa che si sente continuamente interpellata da questa sfida, quando al suo interno di anno in anno si riducono le risorse umane che si applicano in questo campo, si chiudono gli oratori, ci si affida ad una pastorale degli eventi perché mancano i preti, le suore o gli animatori laici che si battono ordinariamente per questa causa. In varie diocesi, ormai (mi confidava un figura ecclesiale autorevole), il personale religioso che si impegna nella pastorale della salute o della malattia è 5-10 volte più numeroso di quanti agiscono nella pastorale giovanile.
Ovviamente, si tratta di un trend che ha le sue ragioni nell’età sempre più anziana sia della popolazione sia del clero e delle figure religiose. Ma una Chiesa che non fa di tutto per riequilibrare la sua presenza/servizio nella società (in questo caso investendo nel rapporto con i giovani, per seguire le nuove famiglie) è una Chiesa destinata a situarsi ai margini della storia.
- Franco Garelli è professore ordinario presso l’Università di Torino.
Condivido il commento di cui sopra, che approfondirei ulteriormente in questo modo. Perché un Sinodo della Chiesa italiana concomitante con quello della Chiesa universale? Non aveva più senso aspettare la conclusione di questo prima di indire quello? E quindi come la Chiesa italiana parteciperà al Sinodo sulla sinodalità? Da ciò che vedo nella mia diocesi, mi sembra più l’espletamento formale di un dovere, per mandare le dieci cartelle alla CEI, più che il coinvolgimento in questo kairòs della Chiesa nel suo insieme.
Gli appunti sono interessanti e contengono diversi spunti che andrebbero ripresi e sviluppati. Ma a mio parere c’è un problema a monte per ciò che riguarda il Sinodo in Italia. Si è fatta una scelta – vedremo se questa porterà frutto – che è quella di dare al Sinodo un taglio più pastorale che ecclesiale/ecclesiologico. Decidendo, cioè, di non mettere a tema e, quindi, in discussione le strutture della Chiesa è come se si decidesse già in partenza che queste vanno bene così come sono ora, che non vanno cambiate. Il problema è che, dato il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo, occorre prima partire dalla forma della Chiesa e, poi, successivamente avere dare spinta pastorale alla “nuova” (nel senso di rinnovata) forma della Chiesa. Se si fa così il Sinodo ha senso. Altrimenti corre il rischio di essere, sotto altro nome, un convegno, una passerella per vescovi/presbiteri/laici in cerca di affermazione personale.
Sulla ineficcace pastorale.
Quando fra un po’ di anni il numero dei preti e dei fedeli diminiuirà in maniera considerevole allora si porrà qualche domanda su come vivere l’essere minoranza, però sarà troppo tardi. L’esperienza di altre chiese dimostra che è questo l’andamento.